Cristina Trivulzio di Belgiojoso (prima parte)
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Il 16 settembre 2021, nell’anno del centocinquantesimo anniversario dalla morte, il sindaco di Milano, Beppe Sala ha inaugurato in piazzetta Belgiojoso, un monumento a Cristina Trivulzio di Belgiojoso, opera dello scultore bresciano Giuseppe Bergomi. Alla data, questo figurava come il primo monumento intestato ad una donna a Milano.
Ma chi era questa donna? Una figure femminile indubbiamente di primo piano, ma per decenni dimenticata o, comunque, non adeguatamente considerata e valorizzata, in quanto tale.
Vissuta nel XIX secolo, giornalista, scrittrice, saggista, gran viaggiatrice, soggetto battagliero, patriota, editrice di giornali rivoluzionari, partecipò attivamente al Risorgimento italiano. Donna di carattere dai tratti particolarissimi, riuscì a superare molteplici pregiudizi con una forza d’animo ed un coraggio davvero encomiabili, in un periodo storico in cui il gentil sesso non aveva alcuna voce in capitolo, né alcun diritto sociale. Erano i tempi in cui la società considerava la donna unicamente nel suo ruolo di amante-moglie-madre, incapace di qualunque altra attività che esulasse dalla gestione del focolare domestico. Era impensabile all’epoca, che una donna potesse esprimere un proprio pensiero in politica o che fosse capace di manifestare una volontà propria, di viaggiare da sola, oppure di gestire autonomamente i propri interessi. Ma vediamo di conoscere meglio il soggetto e la sua storia, un autentico romanzo!
Infanzia e giovinezza
La bimba nacque il 28 giugno 1808, nel Palazzo Trivulzio di piazza Sant’Alessandro 1 – Milano, da Gerolamo Trivulzio (1778-1812) ciambellano del Regno Italico, discendente di una delle famiglie storiche dell’aristocrazia milanese, e da Vittoria (1790-1836), dama d’onore della viceregina Amalia di Beauharnais, in quanto figlia del marchese Maurizio Gherardini (pure lui di antico casato) e di Teresa Litta (appartenente ad altra famiglia aristocratica milanese di non poco conto).
Dovendo specificare in maniera univoca un soggetto di alto lignaggio, già i dodici nomi che le attribuirono al momento del battesimo, erano tutto un programma: Maria, Cristina, Beatrice, Teresa, Barbara, Leopolda, Clotilde, Melchiora, Camilla, Giulia, Margherita, Laura Trivulzio, ma per gli amici, per fortuna, solo Cristina!
Era una nobile, unica erede di un’autentica fortuna, avendo avuto come avi, da parte di padre, nel Cinquecento, Gian Giacomo le grand Trivulce, maresciallo al servizio di re Luigi XII di Francia e, da parte di madre, il marchese Maurizio dei Gherardini (all’epoca di Cristina, ancora vivente), Gran Ciambellano dell’imperatore d’Austria e Ministro plenipotenziario d’Austria presso il Regno Sabaudo, credenziali queste, più che sufficienti, perché potesse godere in ogni campo, di attenzioni particolari.
Ndr. – Pare che sull’atto di battesimo della neonata, registrato nella parrocchia della chiesa di Sant’Alessandro, il suo cognome figuri come Trivulzi. Ma vi furono pure altre varianti come Triulzo, Triulzio, o addirittura Trivulzia, cognome quest’ultimo, col soleva firmare lei stessa le sue missive. Solo dopo la sua morte, verrà imposto il cognome Trivulzio.
Quanto al cognome, i Trivulzio in particolare, erano una famiglia patrizia, citata addirittura nei libri di storia (come generali, podestà e altre cariche importanti) i cui capostipiti paiono risalire nientemeno che all’XI secolo, prima ancora del Barbarossa! Non è da tutti, disporre come loro, di un mausoleo di famiglia: i Visconti e gli Sforza casate di tutto rispetto ad esempio, nonostante il desiderio di costruirne uno per le rispettive famiglie, non l’hanno mai avuto! Il mausoleo dei Trivulzio, costruito dal Bramantino (nel 1512) su richiesta di Gian Giacomo Trivulzio, proprio a ridosso dell’antichissima basilica paleocristiana di San Nazaro in Brolo, a Milano, é visibile e visitabile ancora oggi!
Cristina rimase orfana di padre, a soli quattro anni. Sua madre, rimasta improvvisamente vedova a soli ventidue anni, si risposò l’anno successivo con Alessandro Visconti d’Aragona (1788 – 1851), ed ebbe da lui altri quattro figli: Alberto, Teresa, Virginia e Giulia Valentina, fratellastri, con i quali Cristina mantenne sempre degli ottimi rapporti.
Come si usava a quel tempo nelle famiglie nobili, lei non fu mandata a scuola, ma prese in casa sua lezioni private. Non si conosce molto né della sua infanzia, né della sua prima adolescenza, se non che:
“Ero una bambina melanconica, seria, introversa, tranquilla, talmente timida che mi accadeva spesso di scoppiare in singhiozzi nel salotto di mia madre perché credevo di accorgermi che mi stavano guardando o che volevano farmi parlare“.
Così si descriveva lei stessa in una lettera del 1842, (aveva allora 34 anni), alla sua insegnante di disegno, Ernesta Bisi, che, sebbene molto più anziana di lei, le sarebbe rimasta amica per tutta la vita, unica depositaria delle sue confidenze più intime. Determinante per la sua formazione, fu il suo rapporto con Ernesta, che per prima le fece intravedere idee nuove, come pure l’amicizia con la scrittrice e pittrice Bianca Milesi, quasi vent’anni più vecchia di lei. Sarebbe stata in particolare quest’ultima ad introdurla, qualche anno più tardi, nel rischioso mondo della “giardiniere”.
La prematura morte del padre, non fu l’unico dramma della sua infanzia. Qualche anno più tardi, nel 1821 lei era appena 13nne, il suo patrigno Alessandro Visconti (che era per lei, come un secondo padre) venne arrestato dagli austriaci, con l’accusa di aver partecipato ai moti carbonari. Accusa in parte fondata, perché il suo amico Federico Confalonieri, di idee liberali, lo aveva effettivamente messo in contatto con altri esponenti della Carboneria. Una volta, falliti i moti, nella conseguente retata alla ricerca dei cospiratori, qualche sovversivo arrestato, pur di aver salva la vita, spifferò alla polizia, il suo nome, denunciandolo come soggetto federato alla Carboneria. Avuto sentore che erano iniziate le perquisizioni nelle case dei sospetti, la madre di Cristina, pur bruciando ogni indizio che potesse compromettere il marito, non poté tuttavia evitare che lui finisse comunque arrestato e segregato per anni, in attesa del processo che, in mancanza di prove, lo avrebbe scagionato del tutto, appena nel 1824. Quei tre anni di detenzione, in attesa di giudizio, lo distrussero a livello sia psicologico, che nervoso, al punto che, tornato in libertà, non riuscì più a riprendersi. Se per Cristina, fu come restare orfana di padre per la seconda volta, per sua madre Vittoria, poco più che trentenne, non restò che trovarsi un nuovo compagno, nel catanese conte di Sant’Antonio.
Matrimonio infelice
Cristina oppose un netto rifiuto ai genitori, i quali, perché non andasse disperso il patrimonio della famiglia Trivulzio, le avevano proposto, le nozze con un cugino, che detestava perché “triste e piagnucoloso”. Lei invece aveva altre mire, avendo posato gli occhi su tal Emilio, un principe “allegro e brillante”, otto anni più anziano di lei. Nonostante i molti amici che, conoscendo le abitudini libertine del giovane, avessero cercato di dissuaderla, Cristina, appena sedicenne ma già sufficientemente capa tosta, decise di convolare a nozze con lui. Era il ricco ed affascinante aristocratico, principe Emilio Barbiano di Belgiojoso, indubbiamente ottimo partito, l’idolo delle fanciulle dei salotti milanesi e dei circoli artistici, che lui frequentava assiduamente. Così il 24 settembre 1824, i due si scambiarono il fatidico “si” nella chiesa di San Fedele, a Milano.
Il loro matrimonio fece scalpore sui giornali, principalmente per due motivi:
1° – per una ragazza, era allora illegale avere già rapporti sessuali a quella età;
2° – lei, essendo la più ricca ereditiera d’Italia, portava al marito un patrimonio ragguardevole, qualcosa come 400.000 lire austriache (più di 4.000.000 € odierni). [Ndr. – Vere bazzecole!]
Nonostante queste premesse, la coppia si rivelò, fin da subito, mal assortita. Il principe Emilio, cortese, galante, amante dei piaceri della vita, molto egoista, non conosceva il significato della parola fedeltà, e si comportava come fosse scapolo, ignorando del tutto, i più elementari obblighi della vita coniugale. Inoltre gli episodi di epilessia di Cristina, infermità questa che l’avrebbe tormentata per tutta la vita, non contribuirono certo a migliorare la già precaria situazione. La malattia della principessa infatti, non si limitava solo a procurarle periodiche lunghe crisi, ma le inibiva pure il desiderio sessuale.
La separazione (1828)
Cristina scoprì ben presto, che i suoi appetiti intellettuali, superavano di gran lunga, quelli di altro genere. Il rapporto fra marito e moglie, così diversi sia negli ideali che nelle passioni, non poteva certo durare a lungo. Così, pian piano, ognuno dei due, ricuperò la propria indipendenza, che, sia per carattere, che per condizione, entrambi erano poco disposti a sacrificare all’altro. L’unione durò a stento quattro anni. Lei, avvilita dai continui tradimenti del marito (pure con una sua amica, tale Paola Ruga, signora della buona società milanese) decise, nel 1828, di separarsi da Emilio, per salvaguardare la propria dignità, incurante delle illazioni, non certo favorevoli, che simile scelta le avrebbe procurato in città. Ufficialmente, i due non divorziarono mai, e da separati, rimasero sempre in rapporti amichevoli, tentando qualche volta, pure un riavvicinamento.
Contatti con la cospirazione (1828)
Al raffreddarsi dei rapporti coniugali, Cristina cominciò ad intrecciare “amicizie pericolose”, con esponenti della “cospirazione milanese”, tutti soggetti che, per le loro idee, erano già tenuti d’occhio dalla polizia, essendo ritenuti dei sovversivi. Questa sue misteriose frequentazioni e le ripetute assenze dai salotti mondani che usava di solito frequentare, non sfuggirono alle spie austriache che, nei loro rapporti, segnalarono i suoi movimenti anomali al capo della polizia di Milano, tal Carlo Giusto de Torresani Lanzfeld. Questi, ritenendo il soggetto, una “sovversiva dilettante”, attivò nei suoi confronti, un servizio di sorveglianza continuo, per controllare ogni suo movimento, sperando di poterla, prima o poi, arrestare per le sue frequentazioni “fuori dalle righe”. Furono diverse le occasioni per cui la principessa riuscì ad evitare l’arresto, solo grazie alla notorietà della sua famiglia e alla sua posizione sociale. Una sua eventuale incarcerazione senza giusta causa, avrebbe potuto non solo provocare scandalo in città, ma ritorcersi contro lo stesso mandante (Torresani) col rischio di conseguenze per la sua carriera. Un arresto ritenuto ingiustificato, avrebbe comportato il sicuro coinvolgimento delle “alte sfere” in difesa della giovane! Il nonno materno di Cristina, Ministro Plenipotenziario d’Austria presso il Regno Sabaudo, ancora in attività (e lo sarebbe stato fino al 1858, anno della sua morte), anche se non d’accordo con le idee della nipote, avrebbe certamente cercato di tutelarla, intervenendo, per quanto in suo potere, presso il cancelliere di Stato Klemens von Metternich, a Vienna!
Trasferimento da Milano a Locate (1828)
Accortasi della presenza delle spie, vistasi controllata in ogni suo movimento, la principessa ventenne pensò di lasciare la città, trasferendosi temporaneamente nel palazzo di famiglia di campagna, a Locate. Milano cominciava a starle stretta: oltre tutto, sul suo conto, giravano pettegolezzi ed illazioni varie riguardo la sua “incauta” separazione dal marito. Aveva bisogno di un passaporto per poter espatriare e raggiungere Genova (allora, porto sotto giurisdizione sabauda). Poiché certamente Torresani le avrebbe negato il rilascio del documento ritenendola soggetto pericoloso, per scavalcarlo, si rivolse direttamente al governatore di Milano Strassoldo, che il 28 novembre 1828, le fece avere il passaporto senza problemi.
Il 1º dicembre ,Cristina era già in viaggio per Genova, arrivandovi in diligenza, due giorni dopo.
Il soggiorno a Genova (1828 – 1829)
In questa città, liberatasi finalmente dai pregiudizi (tipicamente provinciali) della Milano-bene, sul suo conto, la donna ricevette un’accoglienza calorosa: venne invitata in numerosi salotti cittadini, in particolare in quello della marchesa Teresa Doria, fervente patriota e in quello dell’amica Bianca Milesi Moyon, già nota alla polizia per le sue attività cospirative tra le Giardiniere, durante i moti milanesi del 1820-21. Teresa le presentò pure Barnaba Borlasca, un notaio che sarà di grande aiuto alla principessa quando, due anni più tardi, Cristina verrà braccata dalla polizia austriaca.
La sola saltuaria partecipazione al salotto genovese dell’amica Bianca Milesi, fu comunque motivo più che sufficiente per alimentare nella polizia la certezza sull’attività davvero sovversiva di Cristina, nonostante gli inquirenti fossero perfettamente a conoscenza che il suo precario stato di salute e l’infermità fisica, avrebbero limitato notevolmente le sue possibilità di “nuocere”, essendo costretta molte ore a letto.
I suoi spostamenti in giro per l’Italia (1829)
Nel corso del 1829, sempre controllata a vista dalle spie del temuto capo della polizia di Milano, si spostò a Roma, Napoli, Firenze, Lucca, Livorno. A Roma in particolare, strinse rapporti con Ortensia di Beauharnais (la sorella di Eugenio, viceré del Regno d’Italia dal 1806 al 1814), frequentando il suo salotto, divenuto quartier generale dell’attività carbonara romana. E’ abbastanza probabile che a partire da questo momento Cristina aderì effettivamente alla carboneria. Frequentando Ortensia, ebbe modo di conoscere suo figlio, il principe Napoleone Luigi Bonaparte, (il futuro Napoleone III) sul quale Cristina ripose grandi speranze di aiuto alla causa italiana. Ebbe modo di conoscere lì, pure lo scrittore e patriota Niccolò Tommaseo.
A Firenze, Cristina attrice teatrale (1829 – 1830)
Dopo un breve soggiorno napoletano, interamente devoluto alle cure per la sua salute sempre molto cagionevole, risalita la penisola, Cristina si fermò a Firenze dove, accolta con grande calore, fece amicizia con il fondatore dell’Antologia, Gian Pietro Vieusseux (scrittore ed editore italiano, di origine franco-svizzera) e, per il periodo in cui restò lì, frequentò il suo circolo culturale.
NOTA:
Leopoldo II d’Asburgo-Lorena (1797 – 1870, ultimo granduca regnante de facto, a Firenze) essendo politicamente indipendente da Vienna, aveva reso il Granducato di Toscana, una sorta di porto franco per gli esuli che lì, potevano trovare ospitalità, al riparo dalla presenza delle spie austriache. Ne approfittarono Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni, Guglielmo Pepe, Niccolò Tommaseo.
Il Gabinetto Vieusseux era il polo di incontro per i liberali, ma, a differenza di quanto avveniva in quegli stessi anni nella dimora di Ortensia a Roma, il suo circolo aveva una funzione più letteraria che politica. Così Cristina, in quel periodo, si diede pure ad una vita mondana, gaia e brillante, organizzando balli ed esibendosi pure come attrice a teatro interpretando Shakespeare e Sheridan, con la partecipazione di esuli inglesi.
La malattia non sempre vien per nuocere
La sua malattia debilitante si rivelò incredibilmente utile ai suoi scopi: richiedendo frequenti visite mediche di controllo e continui cambiamenti di clima a scopo terapeutico, da un lato, le permetteva di giustificare a chiunque il perché di questi suoi continui spostamenti (altrimenti cosa del tutto incomprensibili per una donna, a quei tempi), dall’altro, le consentiva di mantenere i contatti con le varie reti cospirative in giro per l’Italia.
NOTA
La giustificazione di questi continui spostamenti della donna, non convinceva affatto il de Torresani Lanzfeld, capo della polizia di Milano. Stizzito per i continui viaggi della principessa (e quindi la necessità per lui, di dover continuamente spostare i suoi informatori da una località all’altra) Cristina finì col diventare un’autentica ossessione per il funzionario austriaco. Lui diventò d’improvviso il suo persecutore: negli anni successivi avrebbe continuato a sostenere che la principessa era espatriata illegalmente e che doveva tornare entro i confini austriaci. Il temuto capo della polizia, probabilmente, voleva vendicarsi di essere stato aggirato quando, decidendo di andarsene dal il Lombardo-Veneto, Cristina aveva astutamente fatto ricorso a Strassoldo, per ottenere il passaporto. Ora che il governatore era morto (venendo sostituito da Franz Hartig), il Torresani poteva dare libero sfogo al proprio risentimento nei confronti della giovane.
La Svizzera, altra sua meta
Quando, nel marzo 1830, l’ambasciatore austriaco di Firenze le rinnovò il passaporto, Cristina decise di recarsi in Svizzera a Ginevra, per sottoporsi ad una visita medica da un “luminare”, per tentare una soluzione ai suoi problemi fisici e a Lugano, per aiutare gli esuli politici (con alcuni dei quali era già entrata in contatto a Firenze). Ai primi di maggio la Belgiojoso arrivò dunque a Ginevra, dove si sottopose per qualche mese alle cure per il suo disturbo nervoso. Pure lì, le spie onnipresenti, che la seguivano come fossero la sua ombra, tenevano informate le autorità austriache sia a Milano che a Vienna, su tutti gli spostamenti e le frequentazioni della loro “protetta” e della sua servitù, con chicchessia. Dalle minuziose relazioni delle spie (tutto il copioso materiale è oggi ancora conservato all’Archivio di Stato di Milano) appaiono pure degli aspetti ritenuti stravaganti nei comportamenti della principessa: ad esempio , appena trasferitasi a Lugano, inviò subito gli inviti ad un fastoso ballo nel salotto della sua residenza, rivolto ai tanti esuli politici che avevano trovato ospitalità in Canton Ticino, al riparo dalla tirannia austriaca, col chiaro intendimento di guadagnarsi popolarità presso i sovversivi.
Metternich, venuto a conoscenza di questi rapporti, tramite il Conte Franz Hartig (nuovo governatore della Lombardia), e quindi il Torresani (capo della polizia), intimò a Cristina Belgiojoso il rientro immediato a Milano, adducendo a pretesto, il possesso, da parte della principessa, di documenti irregolari o comunque scaduti. Cristina si guardò bene dal rientrare in Italia, riuscendo brillantemente ad aggirare la richiesta, esibendo all’inquirente che le aveva notificato l’intimazione, il suo passaporto in corso di validità, oltre ad un attestato di cittadinanza della Repubblica liberale del Ticino. Quest’ultimo le era stato rilasciato dalle autorità svizzere, in base ad un decreto del 1808 che disponeva che tutti i membri di Casa Trivulzio, avevano il diritto di poter ricorrere alla protezione della Repubblica Elvetica.
Vista disattesa la sua richiesta, Metternich tentò, come mossa alternativa, di forzare gli svizzeri ad espellere dal loro territorio tutti i rifugiati politici italiani, giustificando la richiesta con la necessità di salvaguardare la tranquillità delle province confinanti. Da parte svizzera, per evitare di peggiorare i rapporti col vicino, si prese tempo, precludendo al Cancelliere austriaco la possibilità di cattura della principessa ribelle.
La fuga a Genova e in Provenza (1831)
Cristina Belgioioso rimase così sotto la protezione svizzera fino a quando il suo spirito inquieto non la spinse a fuggire da Lugano per andarsi a cercare nuovi guai, in altri ambienti di cospirazione antiaustriaca. Scelse la ribelle Genova, allora porto sotto il governo reazionario di Carlo Felice di Savoia, succube di Vienna. Pure lì, grazie ad una soffiata, riuscì, col prezioso aiuto del notaio Barnaba Borlasca (presentatale da Teresa Doria durante il suo precedente soggiorno a Genova, alcuni anni prima), a sfuggire ad un tentativo di arresto da parte dei piemontesi sollecitati a catturarla, su richiesta di Vienna. Riuscì ad imbarcarsi su una nave per raggiungere Marsiglia e approfittando dell’ospitalità di amici, riparò per qualche tempo nel paesino di Carqueiranne lì vicino.
Pare che proprio a Carqueiranne, conobbe il giovane Pietro “Bianchi” Bolognini, ex-notaio di Reggio Emilia, figlio di un colonnello dell’esercito napoleonico impegnato nell’insurrezione delle Province unite. Si era dato il soprannome “Bianchi” per non farsi riconoscere, mentre era in esilio. Divenuto segretario della principessa, egli l’accompagnava ovunque, dando adito a dicerie che fosse il suo nuovo amante. Proprio in quei giorni si stava creando a Marsiglia il nuovo movimento patriottico “Giovine Italia”, d’ispirazione apertamente repubblicana. Cristina ebbe modo di conoscere Giuseppe Mazzini (suo fondatore), condividendo con lui, le idee di base del movimento e finanziandolo generosamente.
A Carqueiranne, la principessa conobbe lo storico Augustin Thierry (1795 – 1856) che sarebbe diventato uno dei suoi amici più fidati. La loro, rimarrà un’unione puramente intellettuale: forte sarà l’influenza del pensiero di Thierry, nell’animo di Cristina, soprattutto a livello filosofico.
Arrivo a Parigi (1831)
Il 9 aprile 1831, sempre accompagnata da Pietro Bolognini, partì per Parigi, altro importante rifugio per esuli rivoluzionari italiani, allo scopo di ricercare presso i transalpini, appoggi alla causa risorgimentale italiana.
La confisca dei suoi beni nel Lombardo-Veneto
La relazione, che le spie di Vienna fecero su questo ennesimo spostamento della fuggiasca, esasperò il Principe di Metternich che, nonostante le minacce, non riusciva ad afferrare la sua preda. Tramite i soliti canali istituzionali, sperando di riuscire a ricondurla a più miti consigli, il 19 aprile 1831, fece emettere un decreto secondo il quale le autorità (Torresani in primis), le intimarono il rientro a Milano entro tre mesi, pena la morte civile, la confisca delle proprietà e il blocco totale di tutte le sue fonti di reddito sotto giurisdizione austriaca.
La dignitosa povertà
La principessa ventitreenne però temeva l’Austria, e aveva paura che un suo ritorno, sarebbe coinciso con una sorta di monacazione forzata. Decisa a non piegarsi nemmeno di fronte a queste minacce, Cristina di Belgiojoso preferì, con ferrea determinazione, affrontare la povertà, piuttosto che assecondare le pretese del nemico giurato. Anzi, questa per lei, fu l’occasione per dimostrare agli intellettuali d’Oltralpe, che la sua totale avversione agli Asburgo, era giustificata dal livello di grettezza dimostrato da Vienna nei confronti di quanti non intendevano condividere supinamente le sue assurde vessazioni. Tuttavia, non si perse d’animo: meglio povera ma libera, che ricca e sottomessa agli austriaci. Indubbiamente il congelamento dei suoi beni, comportò per lei una drastica riduzione delle entrate e quindi, del suo tenore di vita.
Furono anni molto duri per lei, abituata, come era stata fino ad allora, ad essere servita di tutto punto e a vivere in una casa lussuosa; eppure quando aveva iniziato quest’avventura, non aveva riflettuto molto prima di agire, anche se sapeva che avrebbe dovuto così affrontare tempi difficili. Fu per lei, come ricevere una seconda educazione, come scoprire cosa significasse essere una donna, oltre che un’aristocratica.
. Prese in affitto un’umile mansarda vicino alla chiesa della Madeleine, al quinto piano del civico 7 di rue Neuve-Saint Honoré (oggi rue Vignon). Si arrangiò, con pochi soldi, per alcuni mesi: si cucinò, per la prima volta da sola, i suoi pasti, guadagnandosi da vivere, cucendo pizzi e coccarde. Ecco cosa scriveva lei stessa, ricordando quel periodo:
«Ricca erede, cresciuta nelle costumanze dell’aristocrazia milanese, non conoscevo proprio nulla delle necessità della vita […] non potevo rendermi conto del valore di un pezzo di cinque franchi. […] Potevo dipingere, cantare, suonare il pianoforte, ma non avrei saputo far l’orlo a un fazzoletto, cuocere un uovo sodo od ordinare un pasto.»
Segretamente poi, come venne a conoscenza della situazione della figlia, sua madre Vittoria provvide fra l’autunno del 1831 e il dicembre del 1834, a farle avere danaro sufficiente, per poter vivere più decorosamente.
Una principessa che decideva di vivere in mezzo agli stenti per puro orgoglio patriottico, suscitava curiosità e simpatia, nello stesso tempo.
Si presentò al direttore degli archivi del ministero degli Affari esteri, François-Auguste Mignet, con una lettera di presentazione dell’amico Augustin Thierry conosciuto in Provenza. Mignet a sua volta, la introdusse nella società parigina e nel suo entourage, presentandole varie personalità, fra cui, lo storico Adolphe Thiers e soprattutto il vecchio generale La Fayette (l‘eroe dei due mondi, grande protagonista della Rivoluzione americana, antesignana di quella francese del 1789) che sarebbe diventato uno dei suoi più grandi benefattori.
L’impatto iniziale con la Francia le riservò tuttavia una forte delusione: lei, da principio, nutriva molta fiducia nel sostegno dei transalpini, alla sua terra d’origine. E gli eventi sembravano effettivamente darle anche ragione, soprattutto grazie agli sforzi prodigati da La Fayette; ma l’insediamento di Casimir Périer come Presidente del Consiglio coincise con una sospensione di qualunque forma di sostegno politico ai patrioti italiani.
Sicuramente spaventato dalle minacce di Metternich, Périer decise di non intervenire militarmente in favore dei patrioti italiani durante i moti del 1831, lasciando in grave difficoltà il generale Zucchi, che, avendo aiutato i rivoltosi, venne arrestato ad Ancona, unitamente ad altri 104 compagni inermi tra cui il cugino di Giacomo Leopardi, conte Terenzio Mamiani.
Il generale Zucchi considerato disertore austriaco, reo di alto tradimento, per avere impugnato le armi contro le truppe imperiali, fu processato, e nel 1832, condannato a morte, (pena poi commutata in vent’anni di carcere duro, nella fortezza di Palmanova (UD).
Cristina, suscitando in La Fayette una sorta di amore senile in cui la fiamma dell’amante, si confondeva con la tenerezza paterna, ottenne da lui la promessa d’intercedere presso il Ministro degli Esteri francese, per la liberazione almeno dei 104 patrioti italiani, catturati ad Ancona.
In quel periodo, dovuta da un lato alle ristrettezze finanziarie, dall’altro ad un giro di amicizie alquanto ristretto, Cristina condusse un’esistenza piuttosto ritirata, lontana dai teatri, ma molto interessata alle sedute della Camera, che frequentava assiduamente.
Dietro suggerimento di amici, il redattore del Constitutionnel, Alexandre Bouchon, per aiutarla economicamente, le offrì una collaborazione per il suo giornale, proponendole la stesura di articoli relativi alla questione italiana e la traduzione di altri, dall’inglese. Partendo da lì, si ritrovò a fare la scrittrice, e la sua attività patriottica si fece di giorno in giorno più concreta. Fu sempre lui che, conoscendo la passione della principessa per l’arte e per il disegno (la Belgiojoso dipingeva nel contempo porcellane e dava ripetizioni di disegno), le suggerì di vendere agli interessati i bozzetti di tutti i parlamentari francesi, firmandosi La Princesse ruinée (La principessa rovinata).
Il superamento delle difficoltà finanziarie
tra il 1831 e il 1835, la sua situazione finanziaria migliorò progressivamente. Oltre al concreto aiuto di sua madre, già nel 1832 si rivelò decisiva una misura austriaca, con cui si concedeva ai sudditi che non potessero rimpatriare, la possibilità di rimanere all’estero, previo accordo con le ambasciate locali. Con l’aiuto di valenti avvocati che perorarono la sua causa, pure a Cristina venne concesso di poter beneficiare del provvedimento, consentendole peraltro di percepire gli alimenti fino a quando fossero persistiti i suoi problemi di salute. L’anno successivo (1833), ottenimento di un passaporto, un cospicuo assegno di 50.000 lire da parte dell’Amministrazione austriaca, a titolo di alimenti, oltre poi al successivo dissequestro delle ampie rendite, valsero a rinormalizzare la situazione paradossale in cui lei era vissuta per alcuni anni.
Ottenuta nel giugno 1832 la liberazione dei prigionieri catturati ad Ancona, Cristina si avvalse sempre del prezioso aiuto di La Fayette, perché col suo carisma, intercedesse presso il Ministero degli Esteri, per gli italiani detenuti allo Spielberg, con una particolare attenzione per la sorte di Federico Confalonieri.
Non appena tornata fisicamente in possesso dee sue ampie rendite, Cristina iniziò a finanziare pubblicazioni di carattere patriottico risorgimentale e aiutò i rivoluzionari italiani, esuli a Parigi. Fece conoscere la causa dell’Unità italiana in Francia, prendendo sempre nei suoi articoli, una netta posizione antiaustriaca e filofrancese, come Cavour (1810-1861), che Cristina conobbe personalmente.
Una casa più adeguata al suo stato
Appena le condizioni economiche glielo permisero, Cristina si trasferì al 23, rue d’Anjou, una traversa del Faubourg St. Honoré. [Ndr. – Il palazzo oggi non è più esistente: la principessa ci visse dal 1835 al 1844.]
“Si entrava in un piccolo vestibolo che comunicava, a sinistra, con una sala da pranzo, a destra con il soggiorno. La sala da pranzo in stucco era decorata con dipinti nel gusto degli affreschi e dei mosaici di Pompei. Più lunga che larga, questa stanza si trasportava un piano nei giorni di ricevimento, serviva allora da sala da ballo. Il soggiorno, abbastanza grande e quadrato, era rivestito in velluto di un marrone quasi nero, punteggiato da stelle d’argento; i mobili erano coperti con lo stesso panno, e la sera, quando ci si entrava, ci si poteva credere in una cappella ardente, poiché l’aspetto generale offriva uno sguardo cupo. La padrona di casa, con il suo aspetto personale, si aggiungeva a quella singolare impressione. Una donna del genere era evidentemente fatta per un tale ambiente. Il quadro si adattava meravigliosamente al ritratto, ci si poteva davvero chiedere se il primo fosse stato fatto per il secondo o il secondo per il primo.”
Da “Les Salons de Paris » di Beaumont – Vassy del 1866:
Fu in quest’occasione che lei stessa propose al marito, che, avendo deciso di stabilirsi a Parigi, le aveva chiesto aiuto, di condividere la nuova (e molto meno modesta) abitazione. Fermo restando, scriveva al marito, che «avremo due entrate separate ed i nostri appartamenti non hanno comunicazioni all’interno», la principessa non nascondeva, una certa preoccupazione per le voci malevoli che avrebbero sicuramente frainteso il senso della loro convivenza quale “amichevole aiutarsi a vicenda”.
In effetti i pettegolezzi avevano cominciato sin dall’inizio ad aleggiare attorno a lei: tra amanti respinti, salute fragile che la costringeva sovente a letto, rovina economica e malignità circa la vicinanza del marito, era facile avanzare le ipotesi più stravaganti.
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Cristina Trivulzio di Belgiojoso (seconda parte)
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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