La Ca’ del Diàul, ovvero Palazzo Acerbi
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ToggleIgnoranza e superstizione a Milano
Dice un vecchio proverbio …. “Paese che vai, usanze che trovi!”. Personalmente, a questo punto, lo cambierei in … “Paese che vai, superstizioni che trovi!”.
La numerologia su … Satana!
Nella mistica isola greca di Patmos, ove San Giovanni scrisse l’Apocalisse (diversamente chiamato “Libro della Rivelazione” – l’ultimo libro della Sacra Bibbia), il numero 666 è attribuibile alla Bestia, cioè a Satana o all’Anticristo. A Napoli, nella “Smorfia napoletana” (il libro dei sogni, usato per trarre dai vari sogni i corrispondenti numeri da giocare al lotto), sarebbe invece il 77, il numero che simboleggia il “Diavolo“, (così come pure le “gambe delle donne”), mentre a Milano, parrebbe invece essere il 3, il numero che rappresenta Satana ….. infatti Corso di Porta Romana n. 3, è chiamata proprio la “Casa del Diavolo” (o in milanese “Ca’ del Diàul” ). Come mai? Beh, questa è una storia, o meglio, una leggenda che parte da lontano.
Ai tempi della peste del Manzoni
Siamo nel XVII secolo, fra il 1630 e il 1631, durante la terribile epidemia di peste, periodo quello, davvero tragico per Milano e così ben documentato da Alessandro Manzoni nel suo romanzo i Promessi Sposi, epidemia che colpì duramente tutto il nord Italia ed in particolare, proprio la popolazione del capoluogo lombardo (vedi tabella qui sotto). Era questa, la seconda pesantissima pestilenza che si abbatteva sulla città, nell’arco di poco più di cinquant’anni. La precedente, chiamata “peste di san Carlo”, era scoppiata nel 1576 – 1577, ed aveva già decimato la popolazione.
Ndr. – La peste è una malattia infettiva di origine batterica causata dal bacillo “Yersinia pestis”. È una zoonosi (cioè una malattia che si trasmette da animale ad uomo), il cui bacino è costituito da varie specie di roditori e il cui principale vettore è la pulce dei ratti (Xenopsylla cheopis) ma che può essere trasmessa da varie specie di parassiti ematofagi (come pulci, pidocchi, cimici dei letti) e che si può trasmettere anche da uomo a uomo (pure per via aerea).
Durante i lunghi mesi di questa seconda epidemia di peste, furono ben pochi quelli che riuscirono a sfuggire indenni al flagello che colpiva indiscriminatamente tutti, sia ricchi che poveri. Non c’era praticamente una zona della città, dai quartieri più degradati della periferia a quelli ricchi del centro, che riuscisse a salvarsi dal terribile morbo: la situazione, in quel periodo, era davvero drammatica: quarantena obbligatoria per tutti, la gente chiusa in casa, chiese, negozi, mercati, scuole, opifici, tutto chiuso: tantissimi senza più lavoro, le contrade usualmente affollate, erano praticamente deserte.
Ndr. – Un’esperienza questa (della peste), decisamente peggiore di quella che noi tutti abbiamo vissuto recentemente in occasione della pandemia da Covid19, sia per l’assoluta carenza di conoscenze in campo medico – e quindi il trovarsi ad affrontare un male di cui non si sa nulla, né come sia venuto, né come riuscire a debellarlo – sia per la totale mancanza di mezzi di comunicazione di massa e quindi d’informazione (su come agire, come comportarsi ecc-). La gente, essendo costretta a limitare gli spostamenti da casa propria, percepiva gli effetti della peste, principalmente in base a quanto riusciva a vedere direttamente dalle proprie finestre, o a sentire dal racconto dei vicini.
Per le strade, solo monatti
Il silenzio irreale delle strade vuote, era interrotto solamente dal sinistro scampanellio annunciante l’arrivo dei monatti. Nonostante fossero stati assunti dal governo locale, di fatto, nessuno era in grado di controllarli. La loro brutalità (molti di loro erano delinquenti comuni, reclutati allo scopo), il dolore inevitabilmente legato alla loro presenza, l’abito rosso scuro ed il campanello legato al piede, che costituivano la loro triste divisa, rappresentavano per la popolazione indifesa, il simbolo dell’orrore della peste. Mestiere davvero rischioso ed ingrato, quello loro, di raccogliere sia i cadaveri trovati per strada, che quelli di quanti morivano di peste in casa, per dare loro una degna sepoltura in fosse comuni. Si fermavano su chiamata, quasi quotidianamente, davanti ad ogni portone. In questa tragica lotteria della morte, “oggi a te, domani a me”, la gente, naturalmente, dalle finestre delle proprie case, si controllava a vicenda …. facendo naturalmente gli opportuni scongiuri.
Palazzo Acerbi o la “Ca’del Diàul”
Costruito nella seconda metà del Cinquecento, nel Sestiere di Porta Romana, si chiamava Palazzo Rossi, dal nome del suo primo proprietario. La contrada di Porta Romana, dove sorgeva questo edificio, era una delle più eleganti di Milano, il centro della vita mondana dell’aristocrazia, luogo preferito dall’alta nobiltà cittadina, per costruirvi le proprie prestigiose residenze.
Ndr. – Questa, nei tempi antichi, quando Mediolanum era la capitale dell’Impero romano d’Occidente, era stata una strada monumentale. Chi proveniva da Roma attraverso la via Mediolanum-Placentia, per arrivare in città. una volta passato sotto un arco trionfale, proseguiva lungo una strada monumentale (fuori le mura), la via Porticata (600 metri di portici con colonne), dove erano situate botteghe e negozi, la quale portava alla Porta Romana d’epoca romana (che si trovava, grosso modo, in piazza Missori, all’inizio dell’attuale Corso di Porta Romana), varco cittadino situato lungo le mura difensive, grazie al quale si entrava poi in città. Nel 1162, le costruzioni, lungo quella strada, vennero totalmente distrutte dal Barbarossa.
All’epoca quindi, il possedere un palazzo in quella contrada, era motivo di vanto, perché, fino a tutto il Settecento, essendo una zona centrale, era proprio lungo quel percorso, che si svolgevano tutte le cerimonie trionfali e le più sfarzose feste della nobiltà milanese. Solo più tardi, lo scettro prestigioso venne dato a Corso Venezia e Corso di Porta Romana subì un progressivo declino.
Il primo proprietario dell’edificio di Corso di Porta Romana n. 3, pare fosse tale Troilo II de’ Rossi, marchese e conte di San Secondo (Parmense), capitano di Cavalleria di una Compagnia del Ducato di Milano (alle dipendenze del governatorato spagnolo). Era venuto ad abitarvi nel 1577, appena ultimata la costruzione del suo palazzo. In seguito, morto lui a fine Cinquecento, i suoi eredi, nel 1615, decisero di vendere la proprietà a tale Ludovico Acerbi, marchese di Cisterna. Questi fece ristrutturare pesantemente il precedente edificio, rendendolo una storica dimora seicentesca, secondo lo stile barocco lombardo di quel periodo. E’ il palazzo a tre piani, con la facciata di colore giallognolo e le decorazioni piuttosto sobrie, che possiamo ammirare ancora oggi, andando a quell’indirizzo, a pochi passi da piazza Missori.
Visto dall’esterno, esso si presenta con una facciata molto semplice ed austera, se confrontata col tipico stile barocco dell’epoca. Unici indizi che permettono di ricondurci a questo stile, sono i balconcini curvilinei delle finestre al primo piano, decorate solo con scarne cornici rettilinee, e le teste di leone a ornare il portone, altrimenti ugualmente semplice. Internamente invece, Palazzo Acerbi (questo è il nome di quel fabbricato, ora che aveva cambiato proprietario), appare lussuosissimo. Transitando oggi davanti a quell’edificio, sicuramente nessuno direbbe che, quattrocento anni fa, in quel palazzo, visse un uomo che, i milanesi consideravano essere il “diavolo” in persona.
Chi era Ludovico Acerbi
Ludovico discendeva da una nobile famiglia ferrarese, trasferitasi a Milano fin dall’inizio del Cinquecento. Figlio di Bartolomeo Acerbi, era nato a Milano nella seconda metà del XVI secolo (presumibilmente fra il 1565 ed il 1570).
Dopo essersi laureato a Milano in utroque iure, (cioè in diritto civile e canonico), una volta iscritto al collegio dei giureconsulti, passò, assieme a suo fratello, al servizio della corona di Spagna.
La sua prestigiosa carriera
Dopo aver rappresentato, per un certo periodo, gli interessi spagnoli, presso la Curia pontificia a Roma, nel 1595, Ludovico Acerbi si trasferì a Napoli, al seguito del viceré Gaspar de Guzmán y Pimentel Ribera conte di Olivares. Questi, l’anno successivo, lo nominò reggente della Gran Corte della Vicaria (cioè della prima magistratura di appello di tutte le corti del Regno di Napoli, per le cause criminali e civili). Fino al 1598, rimase in carica in quella funzione, attività questa che, pare, lui esercitò con estremo rigore.
Ritornato poi a Milano, venne nominato senatore nel novembre 1600, ottenendo, l’anno successivo, la riconferma della cittadinanza milanese. Pare che qualche anno dopo e comunque prima del 1607, ebbe qualche problema con la giustizia, subendo un processo i cui atti sono conservati oggi, insieme con un copioso volume di scritture che lo riguardano, nell’Archivio di Stato generale di Simancas (voluto da re Carlo V e situato nella comunità autonoma di Castiglia e León). Nel settembre 1619, fu nominato Presidente del Magistrato ordinario, cui seguì ben presto, secondo l’uso, la nomina a membro del Consiglio segreto (28 marzo 1620).
Le cariche assunte in quegli anni, gli permisero di disporre certamente di notevoli mezzi finanziari, che gli consentirono, nel 1615, dopo aver acquistato il Palazzo Rossi, in Corso di Porta Romana n. 3, di fare una pesante ristrutturazione di quell’edificio. I lavori si protrassero per anni: furono rifatti i tre piani in stile barocchetto, il cortile porticato su colonne, la corte rococò, un vasto e luminoso scalone a tre rampe che conduce alle stanze padronali. Gli ampi saloni furono lussuosamente arredati; il giardino fu arricchito con piante esotiche, tantissimi fiori e fontane luminose.
Non doveva avere ancora sessant’anni quando, il 24 aprile 1622, morì improvvisamente a Milano, pare per cause naturali, a palazzo ancora non ultimato.
Ndr. – Sulla base di una scritta “Ludovico Acerbi march, di Cisterna f. f. 1630” (che comparirebbe in calce ad un affresco nell’ex salone da ballo) pare si possa dedurre che i lavori di ristrutturazione del palazzo, siano stati effettivamente terminati appena nel 1630″.
Non essendosi mai sposato, poco prima di morire, Ludovico Acerbi fece testamento, istituendo una primogenitura in favore del nipote marchese Giovanni, figlio di suo fratello.
A giudicare da cosa gli altri pensassero di lui, non è facilissimo riuscire a tracciare oggi, un profilo obiettivamente attendibile, su questo personaggio. Ludovico era sicuramente un soggetto molto chiacchierato in città: ma lui non si preoccupava minimamente dell’opinione della gente. Sicuramente spavaldo, superbo, ed egoista per natura, amava condurre una vita mondana assai dispendiosa, con banchetti e feste sontuose, incurante della miseria della gente intorno a lui. In una Milano, non ancora risollevata dalla precedente epidemia di peste, e dove la stragrande maggioranza della popolazione, subissata dalle tasse, non riusciva a mettere insieme il pranzo con la cena, questo contrasto ostentato era troppo evidente, perché la gente non sparlasse di lui. Si rese inviso ai suoi stessi concittadini, per questo suo assurdo modo di vivere, avulso dalla realtà, incurante dell’epidemia dilagante, totalmente disinteressato ad aiutare quanti non erano fortunati come lui.
Ndr – Considerando il periodo storico in cui Ludovico Acerbi visse, non è affatto escluso che la dissolutezza dei costumi, per cui fu tanto chiacchierato, fosse nient’altro che un suo esplicito atto di ribellione nei confronti della Chiesa, alle disposizioni restrittive (niente più balli, niente più feste) che già da tempo l’arcivescovo Carlo Borromeo, pena la scomunica, aveva imposto alla nobiltà milanese, per il ripristino della moralità, nel rispetto dei dettami del Concilio di Trento. L’arcivescovo in carica ora, era Federico Borromeo, il cui episcopato intendeva continuare l’opera di moralizzazione della Chiesa e della Società, iniziata e portata avanti dal cugino San Carlo, fino alla sua morte.
Figura piuttosto originale, sicuramente molto vanitoso, il marchese Ludovico Acerbi era caratterialmente, un soggetto che, probabilmente, amava primeggiare su tutti. Lo si deduce da quanto riferiscono quasi tutte le fonti che parlano di lui. Emergerebbe, ad esempio, il suo spirito di competizione con gli Annoni (potentissima famiglia, la cui fortuna derivava dal commercio delle sete) proprietari del nuovo immobile sito di fronte al suo palazzo, al di là della strada (Corso di Porta Romana n. 6). Senza badare a spese, riportano queste stesse fonti, si era fatto arredare degli ambienti fastosi, dal lusso sfrenato, con ampi saloni per feste e ricevimenti con soffitti affrescati, marmi, sculture, quadri di gran pregio, stucchi, specchi, candelabri e tappezzerie di seta. L’importante era che i suoi ambienti fossero più belli e più ricercati di quelli del dirimpettaio.
Ndr. – Se quanto detto, è corretto per quanto riguarda il lusso con cui Ludovico Acerbi aveva voluto arredare i saloni del suo palazzo, non lo sembra altrettanto per il riferimento alla presunta competizione con la famiglia Annoni. Come avrebbe potuto infatti l’Acerbi entrare in contesa con gli Annoni (su chi dei due, avesse il palazzo più bello) se l’architetto Francesco Maria Richini, cui Pietro Annoni affidò la costruzione del suo nuovo palazzo, pose la prima pietra di questo edificio appena nel 1631, cioè ben nove anni dopo la morte dell’Acerbi? Naturalmente il discorso della competizione non regge, perché basato esclusivamente su dicerie di popolo. La storia quindi sull’Acerbi, dipinta a tinte fosche in questo periodo, è certamente frutto della fertile fantasia popolare e nulla più.
Quale leggenda si sarebbe inventata il popolo per definire l’Acerbi addirittura l’incarnazione del diavolo? La gente non si sarebbe certo sognata di farlo oggetto di queste dicerie, se non avesse avuto i suoi fondati motivi per avercela tanto con lui. L’occasione per la vendetta del popolo nei suoi confronti, si presentò proprio durante la peste del 1630!
La leggenda sull’Acerbi
A causa del suo infelice carattere, della sua eccentricità, e della sua spiccata spavalderia, quando era ancora in vita, Ludovico Acerbi era sempre sulla bocca di tutti: non lo sopportavano proprio, non tanto per la sua ormai proverbiale sregolatezza, o per le grandiose feste che dava nel suo palazzo, cui avevano ormai fatto l’abitudine, quanto per il suo modo di fare da spaccone, il suo modo di vestire e soprattutto quel modo, davvero molto odioso, di ostentare le sue ricchezze ed i suoi gioielli, davanti alla povera gente. Ben lungi dal fare anche un minimo gesto di carità cristiana verso chi non aveva un tozzo di pane con cui sfamarsi, questo suo modo di apparire, veniva interpretato dal popolo, naturalmente, come un autentico insulto alla miseria.
Nonostante, al momento dello scoppio della peste (1630), lui fosse già morto da diversi anni (1622), per il popolo, il suo spirito continuava ancora ad aleggiare sinistramente nell’aria ….
Fu proprio verso la fine di questa seconda grande epidemia, che il ricordo di un personaggio siffatto, riaccese la fantasia popolare su di lui. Deformando chiaramente sia i fatti che le date, qualcuno lo aveva definito la “reincarnazione del diavolo“, etichetta questa, che, nonostante siano passati quasi quattrocento anni da allora, gli rimane ancora oggi. Perché mai?
Secondo le fantasie popolari, durante la peste, il marchese avrebbe fatto, in spirito,, “cose inaudite”. Mentre i nobili scappavano da Milano, andando ad occupare le rispettive residenze di campagna, dov’era più difficile contrarre il morbo, ed i poveri in città morivano al ritmo di centinaia al giorno (al punto che i loro cadaveri restavano ammucchiati per le strade, non riuscendo i monatti a recuperarli tutti), il marchese Acerbi, quasi come atto di sfida col morbo, non si sarebbe mai mosso dalla sua dimora milanese: anzi, per esorcizzare l’orrore intorno a lui, avrebbe continuato a sperperare danaro organizzando feste e banchetti, ancora più frequentemente di prima, invitandovi i nobili rimasti in città.
NOTA LETTERARIA
Pare che proprio la vita mondana condotta dal marchese Ludovico Acerbi, ambientata nel tragico contesto dell’epidemia di peste, abbia parzialmente ispirato lo scrittore statunitense Edgar A. Poe, nella stesura del racconto “La maschera della morte rossa” (The Masque of the Red Death), inizialmente pubblicato nel 1842 come The Mask of the Red Death.
Sicuro di essere immune da ogni contagio e totalmente indifferente ai lamenti dei moribondi fuori dalla sua casa, lo avrebbero visto uscire dal suo palazzo, ogni sera all’ora del tramonto, per una passeggiata in città, vagando per diporto, per le vie di una Milano deserta, spavaldo, e persino divertito, freddo, incapace di qualunque sentimento di pietà o di dolore per i drammi di quanti, sopraffatti dal male, morivano per strada sotto i suoi occhi ….. Nessuno osava proferire apertamente il suo nome – così riferisce un anonimo cronista dell’epoca, abitante in zona: lo dipinge come “uomo sui 50, con barba quadra et longa né magro ne crasso né bianco né nero”. Con riferimento alle sue sortite in esplorazione, chiosa: “Comparisce ogni giorno in carrozza verde e nera super benissimo con 16 staffieri giovani e sbarbati vestiti di livrea verde dorata e con assai copia di gioie e sei cavalli neri tirano la sua carrozza”. Ma il nero (dei cavalli) e il verde (della carrozza e della livrea degli staffieri) erano, nella fantasia popolare, dei colori associati al “maligno” … il verde in particolare, colore malefico perché era il colore del diavolo !
Perché lo chiamavano “Diavolo di Porta Romana”?
La fantasia continua a viaggiare a briglie sciolte ….. la leggenda, naturalmente prosegue!
Fu proprio verso la fine della pestilenza, che i più attenti “osservatori” (cioè coloro che, stando tutto il giorno alla finestra, tenevano il conto delle vittime che la peste mieteva lungo la contrada), accortisi che mai nessuno di loro aveva visto dei monatti fermarsi con i loro carretti davanti al portone di Palazzo Acerbi, avanzarono l’atroce sospetto. Possibile che nessun abitante di quel palazzo fosse mai stato contagiato? Pareva davvero impensabile che, in un periodo che vedeva la popolazione di Milano letteralmente decimata, in quel palazzo, nessuno (fra l’Acerbi gli invitati alle sue feste , ed i numerosi servitori) avesse contratto il morbo, pur essendo stato sicuramente a contatto con gente infetta. Questo fece sì, che si diffondesse la convinzione che il marchese Ludovico Acerbi fosse effettivamente il “Diavolo di Porta Romana“, cioè che, essendo la reincarnazione del diavolo, avesse il potere di rendere immune dal morbo chiunque gli stesse accanto, e che per questo, in casa sua, la peste non avesse mai osato entrare! In quel palazzo non poteva viverci che Satana!
Ma le sinistre fantasie, si sa, non hanno limiti, soprattutto se dettate dal terrore e dalla superstizione … Mentre all’esterno del suo palazzo si continuavano ad udire le urla degli agonizzanti, all’interno, per contrasto, riecheggiavano risate e note musicali (a coprire quelle grida). Così, a rincarare la dose, correva voce, che la gente stremata dall’indigenza e dal dilagare del morbo, passando davanti al Palazzo Acerbi e alzando gli occhi verso le finestre dei saloni sempre aperte ed illuminate, attirata dagli schiamazzi, dall’allegria sfrenata, e dai canti, “vedesse” (o meglio “credesse di vedere”) affacciarsi ad una certa ora, sempre dalla stessa finestra del primo piano, la sesta da destra, il diavolo in persona, con gli occhi infuocati e un ghigno satanico e beffardo nei loro confronti …. Chi poteva essere se non lui? Sì proprio lui, Ludovico Acerbi, quel soggetto spavaldo e festaiolo, l’incarnazione del male in persona: Satana!
Per scaramanzia, tanti disperati, passando davanti a quel portone, si facevano il segno della croce …. E dire che un volto dalle fattezze demoniache li stava osservando davvero! …. basta guardare in alto sull’arco, al centro del portone … c’è effettivamente una maschera poco rassicurante, che controlla ancora oggi l’ingresso!
Quando la storia s’intreccia con la leggenda
Naturalmente, quanto raccontato, è leggenda che si tramanda nei secoli … Le vicende storiche che coinvolgono l’edificio e le testimonianze sulla particolare personalità di Ludovico Acerbi sembrano comunque confermare l’idea che questa storia non sia solo frutto dell’immaginazione popolare e che sotto, sotto, ci sia qualcosa di vero.
A dare maggior credito a questa storia, attribuendole maggior parvenza di realtà, vi sono altri episodi riguardanti questo palazzo, avvenuti in seguito (nel corso dei secoli successivi).
Non soltanto Satana mantenne incredibilmente indenne questo edificio, i suoi abitanti e gli ospiti dalla peste manzoniana del 1630, ma poco più di due secoli dopo, il 20 marzo 1848, durante le famose Cinque Giornate di Milano, lo protesse pure dalla parziale distruzione, “fermando” una palla di cannone austriaca, sparata sopra le barricate, testimonianza questa, di cui ancora oggi, si conserva traccia: sulla facciata dell’edificio infatti, all’altezza del primo piano, alla destra di un balconcino, è visibilissima una palla di cannone sparato da una bombarda e rimasta conficcata nel muro …..
E non è ancora tutto … Il secolo scorso, sempre Satana salvò incredibilmente l’edificio pure dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, riuscendo a “renderlo invisibile” alle bombe incendiarie che distrussero la città.
Solo in un’occasione il diavolo dovette arrendersi ….. alla presenza di Napoleone! Non riuscì a proteggere uno degli eredi della famiglia Acerbi (che evidentemente, all’epoca, doveva abitare ancora in quella casa). Il generale Bonaparte non solo privò l’Acerbi del titolo di marchese (passato da secoli, di padre in figlio) ma, a quanto sembra, lo rispedì a trascorrere i suoi ultimi giorni, nella natia Ferrara, dove ancora oggi abitano i suoi discendenti.
L’Acerbi, protagonista di un giallo
La storia degli Acerbi è attuale ancora oggi. Nel 2011, Ludovico Acerbi divenne protagonista di un giallo ‘Gli Angeli di Lucifero’, di Fabrizio Carcano, giornalista, uno dei giallisti più amati dal pubblico milanese. Qui di seguito un accenno alla trama:
Giugno 2009. Una cappa d’afa soffoca Milano. Nel periferico cimitero di Chiaravalle, mani ignote profanano una tomba seicentesca e trafugano le spoglie del marchese Ludovico Acerbi, passato alla storia come il «Diavolo di Porta Romana». Sembra un banale episodio di teppismo ma nei giorni successivi, sotto la Madonnina, si verificano in rapida successione tre misteriosi omicidi, compiuti e rivendicati dalla stessa mano. Le vittime portano tutte cognomi di casate che, nella Milano del Seicento, ebbero rivalità con quella del marchese Acerbi. A far luce su questa misteriosa vicenda sono impegnati il commissario Bruno Ardigò, freddo e taciturno, e l’amico giornalista Federico Malerba, solare ed espansivo. Diversi come il giorno e la notte, ma uniti dalla stessa voglia di arrivare alla verità, si addentrano nei meandri oscuri e inquietanti della Milano esoterica, dove nulla è come sembra…..
Fabrizio Carcano (Milano, 1973) .
Il Palazzo Acerbi, oggi
Recentemente il palazzo, pur mantenendo la sua sobria bellezza, è stato ristrutturato per essere adibito, esattamente come il Palazzo Annoni di fronte, a dimore private ed uffici. Del palazzo originale resta solo il cancello in ferro battuto, il cortile con i portici a colonna, lo scalone in stile rococò con gli angeli di bronzo, e le pitture ornate da stucchi sui muri e sul soffitto del salone delle feste.
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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