Piazzale Francesco Baracca
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ToggleIl ‘cavallino rampante’
Chissà perché, quando si accenna al “cavallino rampante”, viene spontaneo pensare alla Ferrari!
Non è esattamente così! In realtà, il primo ad ‘inventare’ questo famosissimo emblema portafortuna, non fu l’Enzo Ferrari della famosa scuderia di Maranello, come si pensa comunemente, bensì ‘un certo’ Francesco Baracca, nome quest’ultimo che, probabilmente ai giovani d’oggi, ricorda solo una piazza di Milano, alla fine di Corso Magenta, dove c’è un ristorante cinese-giapponese per gli amanti del sushi!
Questo piazzale, nel passato
Nel Cinquecento
Ad inizio secolo, la città era ancora racchiusa entro le vecchie mura medioevali. Tutta la zona esterna, a parte qualche edificio subito fuori porta, era naturalmente aperta campagna, una vasta distesa di prati e rogge, con qualche casolare sparso qua e là. A suo tempo, era stato anche territorio di caccia dei vari duchi succedutisi alla guida di Milano nel corso dell’ultimo secolo, da Gian Galeazzo Visconti a Francesco II Sforza. L’antica Porta Vercellina, si trovava allora, all’altezza dell’incrocio via Carducci-Corso Magenta (cerchia interna dei Navigli).
Con l’arrivo degli spagnoli, per rinforzare le difese della città, il governatore di allora, Don Ferrante I Gonzaga, fece costruire tra il 1548 e il 1562 dei nuovi bastioni, dando maggior sfogo alla città. L’antica Porta Vercellina, che era una delle sei porte principali della Milano di allora, venne naturalmente spostata alcune centinaia di metri più in là, poco oltre la Basilica di Santa Maria delle Grazie e la Casa degli Atellani. alla fine del Borgo delle Grazie.
Ai lati della nuova porta, sul grande slargo al di fuori delle nuove mura, c’erano due caselli daziari, sosta obbligata per chi voleva entrare con della merce in città.
Uscendo dalla porta, in linea retta oltre quello slargo, si imboccava la strada polverosa che, toccando varie borgate, fra cui San Pietro in Sala, Maddalena, Molinazzo, Trenno ecc., portava a ovest, in direzione Novara e Vercelli.
Nel periodo napoleonico
Nel 1805, in previsione dell’arrivo di Napoleone a Milano per l’incoronazione a Re d’Italia, la Porta Vercellina, rappresentava il passaggio più o meno obbligato per l’imperatore francese, per raggiungere facilmente il Duomo, entrando in città da ovest. Fu una corsa contro il tempo nel tentativo di rendere questa porta più ‘trionfale’ di quanto lo fosse inizialmente. Se ne incaricò l’architetto Luigi Canonica che la rimaneggiò in tutta fretta, utilizzando i materiali del demolito bastione del Castello. Fu comunque solo dopo il 1859, che, a ricordo della storica battaglia della Seconda Guerra d’Indipendenza contro gli austriaci, Porta Vercellina venne ufficialmente rinominata Porta Magenta.
Il piano Beruto
In seguito all’accorpamento nel 1873 del comune di Corpi Santi, nel 1889 venne approvato, in via definitiva, il nuovo piano regolatore di Milano, il famoso piano Beruto, per dare un nuovo assetto urbanistico alla città, che in quel periodo, era in forte espansione.
I Corpi Santi sono stati un Comune istituito nel 1782 comprendente le cascine e i borghi agricoli che si trovavano attorno alla città di Milano, appena oltre le mura spagnole del capoluogo lombardo.
Corpi Santi è infatti la denominazione con cui si indicava, fino al XIX secolo circa, la fascia di territorio del suburbio extramurale della maggior parte delle città lombarde e piemontesi. Nei territori soggetti agli Asburgo d’Austria, tra cui ci fu Milano, la riforma generale dello Stato del 1755 ne modificò la denominazione in Comuni rurali, ma il vecchio nome rimase nell’uso comune.
Il nome dei Corpi Santi è da legarsi alla legislazione sanitaria austriaca che impose di spostare i cimiteri fuori dalle mura spagnole del capoluogo lombardo: la dizione di corpi santi è infatti un altro modo di chiamare i fuochi fatui, ossia le piccole fiammelle che possono sprigionarsi dalle tombe [rif. Wikipedia].
A causa dell’evoluzione degli armamenti e delle tecnologie militari, le mura spagnole del Cinquecento avevano perso totalmente la loro funzione difensiva, e anzi stavano limitando la naturale espansione della città. Il piano dell’urbanista ing. Cesare Beruto, ne decretò il totale abbattimento in quella zona. Anche Porta Magenta, naturalmente subì la stessa sorte, essendo diventata d’impiccio per il traffico crescente, poichè nata per sbarrare una strada (l’attuale corso Magenta) non particolarmente larga fra due teorie di edifici. Pure i caselli daziari presenti sullo slargo, ormai diventati inservibili, vennero definitivamente smantellati.
L’industrializzazione crescente, e la notevole espansione demografica, aveva comportato in quegli anni, una forte urbanizzazione all’esterno delle mura cittadine. La cosa era particolarmente rilevante in quella parte della città, essendo in corso una vasta opera di ricostruzione di interi quartieri del centro, per darle un assetto più moderno e nel contempo, monumentale. La mano d’opera impiegata, cercava naturalmente sistemazione il più vicino possibile al posto di lavoro. Non trovando più posto in città, era quindi giocoforza trovare un’abitazione fuori le mura della stessa, fra l’altro a prezzi anche più accessibili. Con l’avvento dei tram a vapore, da pochi anni (1879), era stato attivato sullo slargo, sotto i bastioni, il capolinea della MMC, una delle società private di tram extraurbani (i Gamba de Legn) che servivano, su linea ferrata, tutti i sobborghi rurali, verso Sedriano, Gallarate, Magenta e Castano Primo. Era un servizio molto usato, particolarmente dai pendolari, che abitando fuori città, si recavano a Milano quotidianamente per lavoro.
Una volta demolito quel tratto di bastioni, la Porta Magenta ed i caselli daziari, si presentò la necessità di dare un riassetto generale a tutta l’area, dato che anche l’urbanizzazione della zona stava diventando rilevante. Vennero creati due giardinetti e, nel 1911, il capolinea dei tram extra-urbani venne spostato qualche centinaio di metri più avanti, nel cortile-piazzale del deposito carrozze di Corso Vercelli n.33. In compenso vennero prolungate alcune linee tramviarie urbane, in modo da servire pure la zona di Corso Vercelli, che, alla data, rappresentava la periferia ovest della città. Lo slargo prese il nome di piazzale Magenta, probabilmente a ricordo della porta che si trovava lì.
Il monumento dedicato a Francesco Baracca
Fu il 27 settembre del 1931, in occasione dell’inaugurazione di un monumento a Francesco Baracca, da parte di Italo Balbo, allora ministro dell’Areonautica del Regno d’Italia, che il piazzale venne intitolato all’asso dell’aviazione italiana.
Il monumento in bronzo, che oggi si può ammirare al centro di uno dei due giardinetti della piazza, posto su un piedestallo disegnato dall’architetto Ulisse Stacchini, è opera dello scultore milanese Silvio Monfrini (1894 – 1969).
n.p. – A guardare la statua oggi, senza leggere il nome sul piedestallo o conoscere la storia del personaggio cui è dedicata, si ha la netta sensazione che lo scultore intendesse esprimere l’ardimento coivolgente del giovane, come espressione del suo carattere, indipendentemente dall’attività svolta. Rivelatore della sua professione, ai piedi della statua, di fianco al fascio littorio, è l’emblema del ‘cavallino rampante’.
Il simbolo del fascio littorio ricorda unicamente il periodo storico in cui è stato commissionato ed inaugurato questo monumento: non ha invece alcuna relazione col soggetto che il monumento intende rappresentare, essendo il Baracca morto, alcuni anni prima dell’inizio dell’era fascista.
Chi era Francesco Baracca?
Nacque a Lugo di Romagna nel 1888. Il padre Enrico, era un uomo d’affari e proprietario terriero, mentre la madre era la contessa Paolina de’ Biancoli. Ancora giovanissimo, aveva manifestato un’irrefrenabile passione per i cavalli, la divisa militare ed il volo. Dopo gli studi a Lugo e a Firenze, nel 1907, fu ammesso all’Accademia militare di Modena, dalla quale uscì due anni dopo, come sottotenente dell’Arma di cavalleria del Regio Esercito. Frequentò il corso di specializzazione presso la Scuola di Cavalleria di Pinerolo e venne assegnato al 2º Reggimento cavalleria “Piemonte Reale” di stanza a Roma nella caserma “Castro Pretorio”, dove dimostrò le sue doti di cavaliere, vincendo il concorso ippico di Tor di Quinto.
La conquista del cielo
Nel 1912, vista a Centocelle un’esercitazione aerea, s’innamorò degli aereoplani al punto da farsi mandare a Bétheny (Reims) in Francia a frequentare dei corsi di pilotaggio, prendendo, nel giro di qualche mese, il brevetto di pilota. Nel 1913, partecipando alle manovre dell’arma di cavalleria, dimostrò le grandi possibilità militari che l’impiego del mezzo aereo apriva sul piano tattico, e gli fu affidato il compito d’istruire gli allievi piloti.
Il motore a scoppio proiettato oltre la frontiera terrestre, divenne in quel periodo, non solo un mito, ma insieme una realtà in divenire, un mondo che prometteva di farsi strada oltre ogni limite.
La Prima guerra mondiale
Con l’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa, il 24 maggio 1915, il Baracca accelerò la sua preparazione sugli aerei tipo “Nieuport”, dotati di una velocità eccezionale per l’epoca, presso l’aeroporto parigino di Le Bourget.
Tornato in Italia, venne assegnato all’8ª Squadriglia da ricognizione e combattimento su Nieuport-Macchi n. 10, iniziando ad effettuare voli di pattugliamento. Successivamente fu assegnato alla 2ª Squadriglia da ricognizione e combattimento, cominciando a distinguersi, fin da subito, per le sua eccezionali doti di abilità nelle tecniche acrobatiche, al punto che i suoi stessi compagni gli dettero il soprannome di ‘Asso degli assi‘.
Nell’aprile del 1916, abbatté il primo aereo austriaco a Medeazza, alle pendici del monte Hermada, non lontano da Aurisina (TS).
Il simbolo del ‘cavallino rampante’ non apparve sui primi aerei che lui pilotò, ma solo a partire dal 1917, quando venne costituita la 91a Squadriglia aeroplani da caccia, reparto che avrà in dotazione i più recenti caccia forniti dall’alleato francese: il Nieuport 17 ed alcuni SPAD VII e XIII. I piloti usavano far applicare le loro insegne personali, sul lato destro della fusoliera di questi velivoli. Francesco Baracca adottò come suo emblema portafortuna, proprio il ‘cavallino rampante’ dello stemma del suo reggimento.
C’è un piccolo mistero riguardo al colore del cavallino. Diversi indizi sembrano, infatti, indicare che il suo colore originario fosse il rosso, cioè il colore dello sfondo dello stemma. Questo perchè sarebbe stato maggiormente notato sul colore metallico della fusoliera. Il colore nero del cavallino, indubbiamente più famoso, sarebbe stato invece adottato dai suoi compagni di squadriglia, solo dopo la morte di Francesco, in segno di lutto.
A quei tempi, si andava a caccia del nemico, ingaggiando con lui un inseguimento a suon di virate, picchiate e cabrate, fino ad arrivare sufficientemente vicino da riuscire ad inquadrare il suo apparecchio nel mirino della propria mitragliatrice e tentare di abbatterlo.
Per ben 64 volte Francesco Baracca si ritrovò contro il nemico, a distanza di fuoco, in 34 di queste occasioni, (36 secondo l’esperto di storia dell’aviazione. Roberto Gentilli), riuscì ad abbattere gli aerei avversari. Altre volte riuscì a metterli in fuga e li danneggiò. Spesso comunque, ne uscì lui stesso malconcio. Fu protagonista nei cieli del Carso e delle Prealpi Giulie mentre in seguito sorvolò la zona del Basso e Medio Piave.
I riconoscimenti
Per le sue azioni ardite e lo sprezzo del pericolo, fu decorato con una medaglia d’oro, 2 medaglie d’argento e 1 di bronzo al valor militare. Ebbe la croce di ufficiale della Corona belga, dal re Alberto in persona. Fu fatto inoltre Cavaliere dell’Ordine militare di Savoia e Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia, senza contare poi la promozione a maggiore per merito straordinario di guerra.
La morte durante un’azione
A terra, le armate austro-ungariche erano impegnate nello tentativo disperato di sfondare il fronte italiano, nell’ultima offensiva della Grande Guerra: lo scontro passò alla storia come «battaglia del Solstizio».
Ed è propro qui, quel 19 giugno 1918, durante questa battaglia, alla vigilia della vittoria finale, che la sua straordinaria carriera si fermò. Non fu un velivolo nemico ad abbatterlo [n.p. – questa tesi ufficiale è controversa]: il suo aereo precipitò al suolo in una palla di fuoco, dopo essere stato colpito da alcuni colpi di fucile con pallottole incendiarie, sparati dalla fanteria austriaca a terra, mentre a volo radente, lui stava, a sua volta, facendo un’azione di mitragliamento delle trincee nemiche sopra Colle Val dell’Acqua, sul Montello. Da quel momento, l’uomo si trasformò definitivamente in un mito.
Il suo corpo venne trovato quattro giorni dopo, dal suo compagno dell’ultimo volo, capitano Osnago.
Ai suoi funerali, il 26 giugno, a Quinto di Treviso, l’elogio funebre venne pronunciato da Gabriele D’Annunzio, suo grande ammiratore, alla presenza di numerose autorità civili e militari. La sua salma venne poi inumata in una cappella sepolcrale nel cimitero di Lugo di Romagna.
Nel primo anniversario della sua scomparsa, venne innalzato sul Montello, un Sacello in suo onore.
La scoperta postuma di una storia d’amore
Si verrà a conoscenza solo nel 1995, della storia d’amore che sbocciò fra Francesco Baracca e una ragazzina friulana, Norina Cristofoli, nata nel 1902 a Tolmezzo. I due si erano casualmente conosciuti a Udine il 20 settembre 1917, pochi giorni prima della disfatta di Caporetto. In seguito a quest’ultimo evento, Norina (allora quindicenne), si rifugiò con i suoi, a Milano. Ne seguì un fitto scambio epistolare fra i due. L’ultima lettera che lei ricevette da Francesco Baracca, risulterebbe datata 4 giugno 1918, pochi giorni prima della sua morte. Norina Cristofoli diventerà cantante lirica, anche di un certo successo: morirà nel 1978, senza mai aver avuto altre relazioni sentimentali, considerandosi per sempre legata al ricordo di Francesco.
Donazione del simbolo del ‘cavallino rampante’
Nel 1923, la madre del Baracca, la contessa Paolina de’ Biancoli, diede l’autorizzazione all’amico Enzo Ferrari, ad utilizzare come simbolo portafortuna, l’emblema del ‘cavalluccio rampante’, che era stato l’insegna personale del suo Francesco.
Modificato nella posizione della coda e del colore dello sfondo, ora giallo, questo emblema ornò inizialmente le vetture per la scuderia da corsa della Alfa Romeo e, più tardi, i gioielli del marchio automobilistico Ferrari che Enzo fondò nel 1947, subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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