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Antonio Boggia, un “caso” da studiare

La cattura dell’imputato

Scortato da due Carabinieri Reali e preceduto da un magistrato, stava avviandosi, ammanettato e incatenato, dal portone di casa sua, in via Nerino 2, verso la carrozza cellulare a cavalli che attendeva poco distante nella piazzetta antistante la chiesa di San Giorgio al Palazzo. Mentre il gruppetto passava facendosi largo fra una piccola folla di curiosi, Antonio Boggia, incredulo in mezzo a loro, stava ripensando, mentre camminava, a quale passo falso potesse aver fatto in quell’ ultimo periodo, perché proprio lui, persona da tutti considerata così rispettabile e al di sopra di ogni sospetto, si meritasse quella sgradita visita dei Carabinieri Reali col compito di prelevarlo e tradurlo in caserma. Naturalmente la notizia fece in un lampo, il giro del quartiere dove lo conoscevano in tanti. Cosa poteva aver fatto di male? Di cosa lo accusavano? Il Boggia poi, una così cara persona …  Dovevano aver preso sicuramente un abbaglio, forse una persona col cognome simile, uno scambio di identità!

La denuncia della scomparsa di un’anziana benestante

I Carabinieri stavano eseguendo un ordine del tribunale che, il 26 febbraio 1860, aveva ricevuto una denuncia nei confronti del Boggia, da parte di un tale Giovanni Murier, pittore-decoratore impiegato alla Richard Ginori di Ripa di Porta Ticinese e abitante in località San Cristoforo, che lamentava la scomparsa della madre abitante a Milano in via Santa Marta 10! E dire che il Boggia, anche se in cuor suo sapeva benissimo di non essere lo “stinco di santo” che dava a vedere, quell’arresto non se lo aspettava proprio: era riuscito a farla franca per tutti quegli anni, fin dall’ormai lontano 1849, l’anno del suo primo omicidio. Adesso eravamo nel 1860. Non erano mai riusciti a “beccarlo con le mani nel sacco”, anche perché era furbo e l’aveva data ad intendere molto bene, tanto che, a giudizio di tutti, era la persona più tranquilla del mondo, tutto casa e chiesa, sempre pronto a farsi in quattro per gli altri. Sì, ad onor del vero, sapeva vendersi decisamente bene: in quegli anni aveva collezionato altri omicidi oltre a quel primo, ormai dimenticato. Fino ad allora, nonostante le ricerche dei dispersi fossero proseguite a lungo senza esito alcuno, lui, anche se inizialmente implicato perché visto con le vittime, era sempre riuscito a venirne fuori pulito.

Litigi frequenti fra madre e figlio

Da anni ormai, non correva più buon sangue fra Giovanni Murier e sua madre Ester, a causa probabilmente del carattere forte di entrambi, per cui, negli ultimi tempi, in seguito ai frequenti litigi, lui aveva diradato le visite alla madre, che viveva da sola. Anche se controvoglia, da bravo figlio, aveva tentato di farle visita alcune settimane prima che si decidesse a denunciare la sua scomparsa: sarà stato metà gennaio, il pretesto per farle gli auguri per il nuovo anno. Non l’aveva trovata in casa e, dopo inutili ricerche nei posti che lei di solito usava frequentare nella zona, era venuto a sapere dai custodi dello stabile dove abitava, che era partita, lasciando detto genericamente che sarebbe andata sul lago di Como. Ritenne la cosa piuttosto strana, ma conoscendo sua madre, soggetto piuttosto originale e molto gelosa della propria indipendenza, non ci fece troppo caso, ripromettendosi di tornare a trovarla al suo rientro, qualche settimana dopo.

Ripresentatosi lì dopo un paio di settimane, la madre ancora non era tornata. La cosa lo insospettì non poco e volle vederci più chiaro, facendo per conto proprio, delle indagini un po’ più serrate. Nonostante la reticenza dei custodi dello stabile, troppo poco loquaci per non sospettare una connivenza, venne a sapere in parte da loro, e in parte da alcuni inquilini interrogati, che sua madre ultimamente aveva iniziato a frequentare tale Antonio Boggia, divenuto in pochissimo tempo, il suo nuovo uomo di fiducia. Costui era un muratore abitante lì vicino, in via Nerino 2 . Aveva preso in affitto, tramite agenzia, un appartamento, pare, di proprietà della Perrocchio, ma fino ad allora i due non si conoscevano del tutto. Lui era un soggetto a modo, di bella presenza, che lei aveva avuto modo di contattare tramite conoscenti, che glielo avevano consigliato come persona affidabile ed onesta per piccoli lavori di manutenzione da effettuare nel palazzo di sua proprietà. Non sapeva che lui fosse un suo inquilino. Recentemente poi, lui, fatti a regola d’arte i lavori richiesti e acquistata la completa fiducia dell’anziana, era riuscito a convincerla ad affidargli, per il periodo in cui lei si fosse assentata da Milano, l’amministrazione dell’intero caseggiato, che, fino ad allora, lei aveva gestito in prima persona. Diversi inquilini poi, lamentavano gli affitti esosi che il Boggia aveva imposto loro da quando aveva preso in carico l’amministrazione del palazzo. Rintracciato l’uomo, Giovanni Murier ebbe da lui conferma che la madre era effettivamente partita, lasciando a lui il ruolo di amministratore dell’intero stabile di via Santa Marta, esibendogli l’esplicito mandato firmato dalla madre.

L’esposto ai Carabinieri Reali

Esterrefatto per le notizie apprese, Murier. passata un’altra settimana abbondante, si decise, a questo punto, a fare denuncia ai Carabinieri. Nell’esposto alle autorità, riferì pure di essere stato contattato proprio la settimana precedente da Antonio Boggia per invitarlo presso lo studio notarile Cattaneo, per la stesura di un atto, a seguito della decisione scritta di pugno  dalla madre, di voler cedere al suo unico figlio, il proprio appartamento, avendo lei deciso di prendere residenza a Como.
Avendo inoltre Ester Maria Perrocchio dato mandato al suo factotum  di affittare il palazzo per un lungo periodo, ad un unico conduttore, richiedeva che l’appartamento da lei abitato al secondo piano, venisse ceduto in comodato d’uso al figlio, forse in seguito a ripensamento per gli atteggiamenti negativi che da qualche tempo aveva avuto nei suoi confronti.

Il notaio Cattaneo, dopo aver stipulato l’atto richiesto, lasciato andar via il Boggia, si soffermò a parlare col Murier, ancora incredulo per tanta munificenza della madre. La gioia però gli si smorzò subito in viso, non appena venne a sapere che il notaio aveva effettivamente conosciuto sua madre qualche mese prima, quando lei si era presentata a lui proprio in compagnia del Boggia, per stilare una procura generale in favore di quest’ultimo. Insospettitosi  per la scarsa lucidità mentale della donna, fiutando una circonvenzione di incapace, Cattaneo si era rifiutato di rogare l’atto di procura, presentando anzi egli stesso richiesta alla pretura mandamentale, perché si iniziasse un procedimento di interdizione per la donna. Cosa questa che non ebbe alcun seguito in quanto, avendo la donna preso residenza a Como, risultava fuori dalle competenze del tribunale di Milano.

Il fascicolo aperto a carico di Antonio Boggia, venne affidato per l’istruttoria al giudice Cesare Crivelli, persona molto precisa e coscienziosa. Questi, analizzata la denuncia, ritenne che i fatti esposti dal Murier fossero decisamente gravi, e degni di ulteriori approfondimenti.

Chi era Antonio Boggia

Questi era nato il 23 dicembre 1799 ad Urio, località che oggi fa parte del comune di Carate Urio sul lago di Como. Già all’età di 19 anni, il giovane si era trasferito a Milano dove aveva cominciato la sua attività di piccolo imprenditore edile, ma nel giro di poco tempo era fallito, per una serie di errori nella conduzione della sua ditta. Era stato denunciato per truffa e cambiali scadute: nel 1824 scappò all’estero, in Piemonte, in quello che allora, era il Regno di Sardegna. Essendo un soggetto litigioso per natura, venne incarcerato addirittura con l’accusa di tentato omicidio. Ma Boggia riuscì ad evadere, pare in seguito ad una rivolta carceraria da lui stesso organizzata. Era tornato a Milano, grazie ad un amico d’infanzia (tale Angelo Serafino Ribbone, anch’egli nato e cresciuto ad Urio).  Grazie alla sua passabile conoscenza della lingua tedesca, l’amico gli aveva trovato lavoro come fuochista a Palazzo Cusani, allora sede del comando militare austriaco.. .

Antonio Boggia

Nel 1831, sposatosi, andò a vivere in affitto insieme alla moglie, in un appartamento di un caseggiato in Via Nerino 2, pare, di proprietà di Ester Maria Perrocchio. Nel corso degli anni aveva preso pure un ufficio-magazzino, a due passi da casa in Stretta Bagnera (oggi via Bagnera), un budello di strada ad “elle”, dove non riusciva a passare nemmeno una carrozza tanto era stretta, vicolo che univa direttamente via Nerino con via Santa Marta. Dopo la morte della moglie, aveva deciso di restare lì in quella stessa abitazione con i figli.
Sembra che fra le varie attività,  partecipasse  saltuariamente pure  a vendite all’asta, dove, a quanto pare, godeva di una certa reputazione. Dal suo fascicolo risulta pure che fosse un assiduo frequentatore della chiesa di San Giorgio al Palazzo, insomma un bravo cristiano timorato di Dio, sempre pronto a darsi da fare per il prossimo.

Una vecchia denuncia di tentato omicidio

A prima vista nulla di sospetto, ma andando a fare qualche ricerca in archivio venne trovata a suo carico, una vecchia denuncia per tentato omicidio, datata 3 aprile 1851, quando cioè Milano era ancora sotto la dominazione austriaca, ai danni di un contabile, tal Giovanni Comi. Il Boggia , secondo quanto riportato in quella denuncia, lo aveva invitato nel suo ufficio nello scantinato di Stretta Bagnera perché gli controllasse alcuni libri contabili, in mezzo ai quali, asseriva di avere difficoltà a districarsi. Mentre il poveretto, chino sui libri stava facendo le verifiche del caso, il Boggia avrebbe tentato di ammazzarlo calandogli il dorso di un’ascia da macellaio sulla testa da dietro le spalle. Ferito ma rimasto ancora cosciente il Comi si sentì bofonchiare dal Boggia, delle scuse per l’accaduto, asserendo che gli aveva preso un raptus. In quel caso, prendendo i giudici per buona la sua versione, gli comminarono solo qualche anno di internamento nel manicomio della Senavra (istituto in corso XXII Marzo dove venivano ricoverati i matti e i derelitti)

Tentativo di omicidio di Giovanni Comi.

Si trattava di momenti d’improvvisa follia o vi era effettivamente qualche movente scatenante? Il movente erano i soldi che lui non poteva permettersi, data l’attività che svolgeva. Quindi era un freddo e lucido calcolo per accaparrarsi i beni delle sue vittime.

C’è chi, sale agli onori della cronaca per essersi distinto in uno dei vari campi dello scibile, o per aver compiuto qualche impresa memorabile, e chi viceversa può vantare nel suo palmares due primati davvero poco invidiabili: quello di essere il primo killer seriale di Milano e l’ultimo civile a essere condannato a morte, l’anno dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia, prima della abrogazione della pena di morte in tempo di pace.(legge Zanardelli). Era l’8 Aprile 1862!

Ma come è possibile”, si chiedeva la gente, ” …. Era un brav’uomo, dall’aspetto tranquillo, pronto ad aiutare gli altri, persona seria, tutto casa e chiesa”, così lo dipingevano i vicini di casa, “cosa si potrebbe pretendere di meglio?”. Quindi, a prima vista una persona normalissima come tante, ma vediamo di capire meglio chi era effettivamente.

Nel 1831, sposatosi, andò a vivere in affitto insieme alla moglie, in un appartamento di un caseggiato in Via Nerino 2, di proprietà di Ester Maria Perrocchio. Prese pure uno scantinato (due locali, uno con finestra a livello della strada, ed il secondo sottoterra, comunicante col primo mediante una scala interna) nella Stretta Bagnera, un vicolo stretto e buio che collega ancora oggi via Nerino, con via Santa Marta, al Carrobbio.

Il caso Perrocchio (1859)

Iniziò così, proprio con l’ultima denuncia in ordine di tempo, quella dell’oscura scomparsa di Ester Maria Perrocchio, e grazie a un giudice zelante che s’incaricò di condurre minuziose indagini sul caso, la scoperta di una storia lunga undici anni, costellata di agghiaccianti episodi, avente per protagonista un uomo, a detta di tutti, timorato di Dio e al di sopra di ogni sospetto. Indagini che, man mano che procedevano, andavano a scoperchiare di volta in volta, nuovi reati raccapriccianti al punto da far passare il soggetto alla storia, come “il mostro della Stretta Bagnera“o “il mostro di Milano“.

Le indagini del giudice Crivelli

Interrogato dal giudice, il Boggia, messo di fronte alle sue presunte responsabilità, si rifiutò dal collaborare, e, trincerandosi dietro una serie di “non so”,”non ricordo”, si chiuse in un mutismo esasperante. Il Crivelli cominciò a vederci più chiaro interrogando i testimoni: durante la deposizione dei Trasselli, i portinai di Santa Marta 10, questi raccontarono di aver visto l’ultima volta la Perrocchio il giorno in cui il Boggia si era presentato di buon mattino, per riparare il tetto dello stabile. Era l’11 maggio 1859.. Più tardi il capomastro aveva chiesto loro, alcuni secchi d’acqua, da portare al primo piano, per certi lavori che doveva portare a termine, .
Una vicina di pianerottolo, ricordava di aver visto il giorno seguente, il Boggia andarsene giù per le scale con una grossa gerla sulle spalle. .

L’ipotesi raccapricciante

Sulla base di tali deposizioni dei vari testimoni, Crivelli ipotizzò che il Boggia avrebbe ucciso la Perrocchio la stessa mattina dell’inizio dei lavori per la riparazione del tetto, seppellendo poi la vittima quasi sicuramente nel palazzo stesso, ritenendo infatti impossibile che l’assassino avesse potuto aggirarsi per la città con un cadavere sulle spalle. Successivamente, con una falsa procura, avrebbe amministrato il palazzo.

La conferma delle supposizioni e l’ammissione del Boggia

La perquisizione del caseggiato permise di scoprire che l’agghiacciante ipotesi del giudice era reale.

Il corpo ormai decomposto della disgraziata, mutilato delle gambe e della testa, era stato nascosto nel sottoscala, abilmente murato. Il Boggia, condotto sul luogo del ritrovamento, riconobbe la Perrocchio, ammettendo l’omicidio. Il delitto era avvenuto nell’appartamento della donna, con la tecnica della mannaia da macellaio. Aveva poi lavato il sangue con l’acqua che aveva chiesto al portinaio, che ovviamente era all’oscuro di tutto.

Ndr. – Nelle case di Milano, a causa della città totalmente in pianura, l’acqua non arrivava ai piani non esistendo alla data, impianti che consentissero il pompaggio e la distribuzione dell’acqua negli appartamenti. Pertanto l’acqua veniva prelevata, secondo necessità, ai pozzi e con dei secchi, portata manualmente in casa.

Il Boggia, compiuto l’assassinio, aveva poi frugato nell’appartamento, rubando alcuni oggetti d’oro, che avrebbe rivenduto poco dopo ad un compiacente commerciante di preziosi.
Lasciato passare qualche giorno dall’efferato omicidio, architettò un diabolico piano per riuscire ad avere la procura della Perrocchio per poter amministrare l’intero stabile della vittima e i suoi altri averi. Accompagnato da due suoi compari, dalla madre di uno dei due. e dalla cugina del Boggia, andarono nello studio notarile Cattaneo di Milano, presentando l’anziana, come la signora Perrocchio. Il notaio, fiutando puzza d’inganno, dalle contraddizioni nelle risposte dell’anziana alle sue domande, si rifiutò di stilare l’atto richiesto. Al Boggia, a questo punto, avendo bisogno di quell’atto, non restò che rivolgersi con i suoi falsi testimoni un altro studio notarile, quello del dott. Bolza di Como, ripetendo davanti a lui la stessa sceneggiata già fatta col Cattaneo, ottenendo finalmente l’atto richiesto.
Per tenere poi in piedi la truffa, nei mesi seguenti, il Boggia aveva fatto scrivere all’altro dei due suoi affidabili compari, perito calligrafo al tribunale di Milano, delle false lettere di disposizioni a firma della defunta, per tacitare i probabili sospetti del figlio e degli inquilini dello stabile.

Ma la storia del Boggia non era tutta qui, il suo fascicolo corposo teneva traccia di altri omicidi irrisolti

Gli altri crimini scoperti

Il giudice Crivelli, proseguendo nelle indagini, dispose un sopralluogo anche nel locale della Stretta Bagnera, che Boggia aveva preso in affitto, disponendo una perquisizione e ricerche minuziose. Saltarono fuori sia le false lettere della Perrocchio, che il mandato a rappresentarla rilasciato notaio .Bolza di Como.

Naturalmente non era tutto. Tra le carte custodite in uno scrittoio nello scantinato, saltarono fuori altre due procure a nome del Boggia: la primo firmata da un certo Serafino Ribbone, la seconda da tal Pietro Meazza, il proprietario di un ferramenta al Carrobbio. Inoltre, mettendo insieme vecchie denunce e tenendo in debito conto le dichiarazioni spontanee di alcuni testimoni, si appurò che un commerciante dsi granaglie, tale Marchesetti, scomparso ormai da qualche anno, negli ultimi giorni era stato visto confabulare col Boggia di certi affari. Quest’ultimo, naturalmente, negava tutto, lamentandosi delle ingiustizie che era costretto a subire, diceva, per vendetta del notaio Cattaneo, che gli serbava rancore dalla volta in cui si era rifiutato di predisporre la procura della Perrocchio.

Il primo omicidio (1849)

Ricercando attentamente fra i documenti, gli inquirenti rinvennero alcune procure a nome del Boggia. La cosa non avrebbe destato alcun sospetto, se tali procure non fossero state firmate da persone sparite nel nulla, tutta gente di cui qualcuno aveva, a vario titolo, denunciato la scomparsa. La più datata di queste (1848), ritrovata nel magazzino della Bagnera, era stata firmata da tale Angelo Serafino Ribbone, manovale, amico d’infanzia di Antonio Boggia, ed anche, per un certo periodo, suo dipendente. Essendo impossibilitato a farlo di persona, aveva incaricato il suo datore di lavoro, nel lontano 1848, a recarsi presso una sua cugina sul lago di Como, per farsi consegnare da lei le 1.400 svanziche (praticamente i risparmi di una vita) che il Serafino Ribbone, non fidandosi delle Banche,. aveva lasciato in deposito presso la donna.

Ndr. La svanzica (dal tedesco zwanzig kreuzer o venti soldi ) era il nomignolo dato nei territori italiani della lira austriaca, una moneta in argento diffusa nell’Impero austriaco.).

In verità, questa prima procura figurando come mandato generale, atto stipulato dal notaio Gaslini di Milano,  non era stato ritenuto valido dalla cugina del Ribbone che leggendo il documento, si era inizialmente rifiutata di consegnare al Boggia, i soldi di Serafino.

Boggia ovviamente no si arrese …. Rifatta una seconda procura, questa volta finalizzata al solo ritiro dell’importo, atto quest’ultimo, rogato dal notaio Terzaghi di Lodi, la donna si convinse a consegnare il denaro  (previa verifica dell’incartamento a un suo notaio di fiducia). Pare che. interrogata dal giudice Crivelli, lei abbia riferito che il Boggia per rassicurarla, le abbia raccontato che quei denari sarebbero serviti al Ribbone per sposarsi a Lodi.

Naturalmente, mai Serafino Ribbone aveva incaricato Antonio Boggia di effettuare simile prelievo. Nè aveva impedimenti tali da non poter tornare a far visita alla cugina e prendere personalmente i soldi che gli potevano servire. Probabilmente, data la confidenza fra i due, egli aveva solo reso partecipe l’amico della piccola fortuna accumulata e depositata presso la cugina. Ad architettare tutta la messinscena ci pensò il Boggia: lo aveva prima ucciso attirandolo nel suo solito magazzino degli orrori con qualche pretesto, si era procurato un amico disposto a spacciarsi per il Ribbone, due altri compari come falsi testimoni, e innanzi a ben due notai aveva ottenuto il mandato onde carpire i denari del poveretto. Autentica associazione a delinquere!

Ndr. – Il 1848. notoriamente, era stato un periodo di grandi sconvolgimenti sociali, a partire dal famoso sciopero del fumo, alle 5 Giornate di Milano, alla successiva Prima Guerra di Indipendenza. Il valore della vita sembrava aver perso il suo reale significato: morti e feriti facevano parte della triste quotidianità di quegli anni turbolenti. Pertanto, nell’aprile del 1849, alla denuncia di scomparsa di Angelo Serafino Ribbone, le autorità austriache. non fecero particolarmente caso..

Il secondo omicidio (gennaio 1850)

Il Boggia, si sà, amava frequentare le aste pubbliche. Ma a che scopo se, col suo lavoro, a stento riusciva a vivere alla giornata? Ovviamente il suo scopo non erano le aste, ma il pubblico che mediamente era benestante. E fu proprio così che avvicinò un ricco mediatore di granaglie, tal Marchesotti. La tecnica usata era la solita, quella di tutti i truffatori. La vittima designata, avvicinata quasi certamente dal Boggia proprio durante una sessione d’asta, si era lasciata incredibilmente attirare in trappola da un’operazione che prevedeva facili guadagni, per ottenere i quali, era però necessario versare un capitale iniziale di 4.000 svanziche. Si deve davvero credere che il Boggia fosse un fuori classe di abilità ed astuzia, se era riuscito a convincere della bontà di simile affare, un uomo esperto e navigato come il Marchesotti, che sulla piazza di Milano non era certo l’ultimo sprovveduto.

Nella mente malata del Boggia, il riuscire ad abbindolare il Marchesotti, significava, l’introito, nelle sue tasche, di 4000 svanziche nette, assolutamente esentasse! Non aveva nemmeno avuto bisogno di pagare notai e scomodare testimoni compiacenti per derubare la sua seconda vittima. Farla fuori, poi sarebbe stato un gioco da ragazzi … ormai aveva una tecnica collaudata!

E’ da quel sabato 15 gennaio 1850 che si erano perse le tracce del Marchesotti. Infatti il lunedì successivo erano arrivate alla polizia austriaca due denunceche lo riguardavano: una della madre che lamentava la sua scomparsa e l’altra di un tal Castiglioni che lo denuciava per non essere tornato in possesso del denaro prestatogli qualche sera prima. Le indagini subito avviate avevano permesso di appurare che era stato visto dalle parti di San Marco, uscito da casa di buon’ora quella mattina, per recarsi all’appuntamento d’affari. Aveva con se il danaro per l’operazione suggerita dal Boggia. Si era fatto prestare i soldi la sera prima da un suo conoscente. Dei testimoni lo videro quella mattina in un’osteria di Ponte Vetero, in compagnia del Boggia. Poi, finita la consumazione, se ne erano andati insieme. Da quel momento più nulla!

All’epoca il tutto era stato presto archiviato, nella convinzione che l’uomo fosse deliberatamente fuggito da Milano coi soldi.

Il terzo omicidio (aprile 1850)

Attento alle difficoltà altrui per trarne vantaggio, nel 1851, il Boggia era entrato in contatto con un fabbro, tal Pietro Meazza, proprietario di una bottega di ferramenta con alcuni dipendenti, proprio dietro casa, vicino al Carrobbio. Poiché non c’era molto lavoro e l’impresa stava navigando in brutte acque, era stato proprio il fabbro a rivolgersi al Boggia, presentatogli da un certo Binda, amico comune, come uomo serio ed onesto, capace di destreggiarsi negli affari come pochi. Nelle indagini del giudice Crivelli, il nome del Meazza era saltato fuori, grazie ad un’altra procura a favore del Boggia, firmata proprio dal fabbro, del quale, guarda caso, figurava anche una denuncia di scomparsa.
Pure in questo caso, oltre alla procura autentica che autorizzava il Boggia ad amministrare la bottega del fabbro, cosa che diligentemente fece per un certo periodo, pagando incredibilmente i dipendenti, fu trovato anche un atto di vendita del negozio stesso al Binda firmato da Antonio Boggia in qualità di rappresentante del Meazza, oltre ad una denuncia per truffa presentata da un commerciante che il Boggia si era ben guardato dal pagare per della merce vendutagli e ovviamente già smerciata.. Chiaramente il Meazza non vide mai una sola svanzica della vendita della sua bottega. era già morto da un pezzo!

Anche queste denunce erano cadute nel vuoto, visto che all’epoca rintracciare uno scomparso doveva essere, dati i mezzi tecnici, impresa alquanto disperata.

La terribile scoperta

A questo punto dovette apparire abbastanza evidente al giudice Crivelli, che il capomastro fosse fortemente indiziato come l’autore di tutte le sparizioni denunciate nel passato, e rimaste irrisolte. Per poter provare però la sua colpevolezza in queste scomparse, era necessario trovare delle prove inconfutabili, cioè che le vittime fossero realmente decedute per mano sua. E qui il giudice brancolava nel buio, né era sperabile l’aiuto del Boggia che naturalmente, fino a prova contraria, era pronto a negare qualunque addebito lo riguardasse. Ormai si sapeva benissimo; quella era la sua tecnica di difesa.

Il fortuito ritrovamento del cadavere della Perrocchio, murato nel sottoscala dello stabile di via santa Marta 10 gli suggerì il modus operandi del Boggia nel nascondere le sue vittime. Dove potevano essere? I sopralluoghi effettuati sia in casa sua (via Nerino 2) che nel suo magazzino alla Stretta Bagnera, avevano fornito i documenti che riguardano gli scomparsi, ma dei loro corpi, nessuna traccia. Brancolando nel buio, fu così che non avendo preso finora in considerazione la cantina cieca, sottoterra, cui si accedeva tramite scalette direttamente dal magazzino-ufficio, il giudice ordinò di fare degli scavi sotto quel pavimento. Questo, in considerazione del fatto che, a logica, la cantina poteva essere il posto ideale per far sparire in tutta tranquillità le sue vittime. Fra l’altro, nel caso del tentato omicidio del Comi, quest’ultimo era stato attuato dal Boggia proprio nell’ufficio stanzone sopra la cantina

Stretta Bagnera (attuale via Bagnera)

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Gli scavi nella cantina, portarono, un po’ alla volta, al ritrovamento di tre scheletri, tagliati a pezzi: quello presumibile del Serafino Ribbone, quello probabile del Marchesotti, e quello certo del Pietro Meazza. Quest’ultimo riconoscibile, essendo il suo cranio privo dei denti incisivi, caratteristica questa che contraddistingueva il povero fabbro.

Il Boggia, che ricordiamo si trovava agli arresti per l’omicidio della Perrocchio, portato sul luogo si rifiutò di collaborare, benchè messo alle strette davanti al ritrovamento di alcuni effetti personali del Meazza, tra i quali un cinto per l’ernia

Il processo 

Il processo a carico del capomastro, si aprì il 18 novembre del 1861 e fu davvero brevissimo, una settimana appena. Fu soprannominato in città, “il mostro della Stretta Bagnera”o “il mostro di Milano”, e trent’anni dopo, fu l’antesignano di quel “Jack lo squartatore“, che nel 1888 seminò terrore a Londra, usando modalità analoghe.

Gli vennero contestati i seguenti capi d’imputazione:
omicidio a scopo di rapina di Angelo Serafino Ribbone, avvenuto nell’aprile 1849;
omicidio a scopo di rapina di Giuseppe Marchesotti, avvenuto il 15 gennaio 1850;
omicidio a scopo di rapina di Pietro Meazza, avvenuto nell’aprile del 1850;
tentato omicidio di G. Comi, avvenuto il 2 aprile 1851;
omicidio a scopo di rapina di Ester Maria Perrocchio, avvenuto l’11 maggio 1859.
inoltre:
Tentate truffe e le sostituzioni di persone in atti pubblici.

Considerando tutti i capi d’imputazione, e le prove schiaccianti a suo carico, c’era davvero poco da discutere. L’impressione comune è che si aveva a che fare con un “serial killer”. Di fronte a simili prove, alla fredda determinazione del soggetto, alla lucidità delle sue macchinazioni, e alla ferocia con cui si era accanìto sui cadaveri, la difesa si trovò con le armi spuntate, giocando tutto sulla sua infermità mentale e sperando in una pena che si limitasse al suo re-internamento alla Senavra, basandosi anche sulla prima assoluzione avvenuta all’epoca dei fatti relativi al Comi. A nulla valse la pantomima da finto malato, incapace di controllare sé stesso che lui stesso fece ai suoi compagni di cella, per tutto il periodo della detenzione che precedette il processo. Faceva quanto la testa gli ordinava, testa che gli doleva sempre, al punto da non riuscire a dormire la notte. E a dimostrazione di ciò, evidenziava comportamenti anomali quando, nottetempo, invece di dormire,passeggiava su e giù fra le brande dei compagni di cella, completamente nudo.. Erano davvero in pochi a credere che tutti questi suoi delitti fossero semplicemente frutto di raptus momentanei, perché gli omicidi erano legati sempre alla prospettiva di facili e consistenti guadagni, per raggiungere i quali architettava piani e truffe da professionista incallito.

La sentenza di morte (1862)

Al termine del processo venne emessa la prevedibile sentenza di condanna a morte per impiccagione.

Il ricorso presentato dalla difesa in Appello fu respinto, e analogo verdetto diede anche il tribunale di terza istanza. Neppure il re volle concedere la grazia.
Il 6 aprile 1862, Boggia apprese in carcere che tutti i ricorsi erano stati respinti e che nulla si poteva più aspettare se non l’esecuzione. La sentenza di morte non venne eseguita immediatamente per mancanza di un boia ufficiale in città. Da tempo ormai a Milano non si eseguivano più sentenze capitali. Ne vennero chiamati due, fatti venire rispettivamente, da Torino e da Parma.

L’8 aprile, finalmente l’esecuzione. Antonio Boggia, fatto salire su di un carro coperto da un’intelaiatura di stoffa nera assieme ai boia, fu portato, tra ali di folla curiosa e inferocita, fuori città, all’altezza dei Bastioni, fermandosi in uno slargo tra Porta Vigentina e Porta Ludovica. Ad assistere al mesto spettacolo dell’impiccagione, oltre ai funzionari del Tribunale ed ai rappresentanti della commissione carceraria, pure una compagnia di Carabinieri Reali per tenere a debita distanza la folla di curiosi.
Il suo corpo trovò sepoltura nel cimitero del Gentilino, fuori Porta Ludovica, eccezion fatta per la testa che, spiccata dal tronco, venne data in custodia al gabinetto anatomico dell’Ospedale Maggiore, affinchè, debitamente “trattata”, potesse essere da tutti visionata e soprattutto studiata da illustri medici e scienziati, tra i quali il Lombroso, che ne giudicò la fisionomia tipica dell’assassino. La testa del Boggia rimase presso l’Ospedale Maggiore fino al 1949, quando, nell’ottica di una serie di dismissioni, tutti i reperti e i resti umani vennero inumati a Musocco.

Il cranio di Antonio Boggia

Il fantasma del mostro aleggia ancora oggi a Milano a quasi 160 anni dalla sua morte. Non è infatti ben chiaro come sia comparsa sul mercato collezionistico (nel 2009), una mannaia da macelleria ritrovata nello scantinato del Boggia nella Stretta Bagnera e catalogata ufficialmente come reperto criminologico con tanto di targhetta scritta a mano, recante le parole “del Boggia Antonio”, custodita in una scatola in legno recante la dicitura “Ospitale Maggiore Milano”

La mannaia del Boggia (reperto criminologico)

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