Il dromedario di Milano
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Sembra davvero inverosimile che in pieno centro a Milano si possa trovare un dromedario! Eppure, è vero! Fra le tante cose strane che si vedono andando in giro per la città, c’è anche questa, francamente singolare! Il centro di cui sto parlando è la piazza Borromeo, a due passi da piazza Cordusio, dove da oltre sei secoli, un piccolo dromedario se ne sta lì accoccolato in una cesta, ad osservare tranquillo quanti, transitando da quelle parti, gettano un’occhiata al magnifico portone quattrocentesco del palazzo della omonima famiglia patrizia milanese.
A questo punto, vengono spontanee alcune legittime domande: che ci sta a fare lì questo esotico e simpatico animale? Chi lo ha messo lì? Che significato ha? Perchè proprio sopra il portone gotico di questo antico palazzo? Tutte queste, sono domande a cui di solito si rinuncia a dare una risposta, anche perchè, onestamente. non si saprebbe dove andare a scovare la giustificazione a simili curiosità. Quando però si viene a scoprire che quello stesso dromedario accoccolato nella sua cesta viene riproposto, non una ma addirittura due volte sullo stemma araldico della casata della famiglia patrizia Borromeo, allora le cose cambiano completamente!
Ndr. – stemma In araldica, è il complesso di tutte quelle figure, pezze, smalti, partizioni, ornamenti esteriori raffigurati secondo determinate regole, che servono a contrassegnare persone o enti. Lo stemma è anche un linguaggio figurato, poiché le figure simboleggiano le qualità morali del possessore dell’arma, alludono alle sue conquiste, ai suoi possedimenti, alle sue alleanze matrimoniali, alle dignità acquisite; rappresenta, quindi, lo status del suo possessore ed è suscettibile di modifiche e variazioni.[rif. Treccani]
Lo stemma delle casate più in vista, nato inizialmente come segno di riconoscimento (venendo spesso applicato sulle tuniche ad esempio durante tornei di polo per consentire di riconoscere il rappresentante del proprio casato che si celava dietro la corazza della pesante armatura) finì poi col diventare segno di prestigio, rappresentando uno status symbol che garantiva considerazione e rilievo, all’interno della società. Era quindi il simbolo della famiglia di appartenenza, e veniva spesso esibito oltre che in occasione di cerimonie pubbliche anche nell’ambito di scontri o altre manifestazioni sportive. Lo stemma araldico veniva arricchito nel tempo, aggiungendo man mano nuove simbologie, vuoi per ricordare particolari e significativi eventi che, nel corso dei secoli, avevano contribuito a dare lustro al casato, quali alleanze con famiglie altolocate, matrimoni importanti, nascite illustri, vuoi per evidenziare nuovi titoli onorifici acquisiti, conquiste territoriali, vittorie conseguite sul campo. La presenza quindi di quel dromedario scolpito nella pietra in cima a quel portone e, guarda caso, riproposto identico pure sullo scudo dello stemma, che in cima alla corona, doveva avere evidentemente un significato ben preciso! Ma quale? Onestamente le ricerche da me effettuate in proposito, non hanno dato risultati assolutamente sicuri. Non disponendo infatti di documenti certi, non rimane che fare atto di fede, essendo a volte, molto sottile il confine fra leggenda e realtà.
Chi erano i Borromeo
Si fanno risalire alla fine del XIII secolo le origini della famiglia, anche se non è del tutto certa la loro provenienza reale. Vi è che propende per la tesi che, effettivamente fossero originari di Roma o immediati dintorni, e che si siano ben presto trasferiti a San Miniato al Tedesco (oggi San Miniato nell’attuale provincia di Pisa). A giustificare la cosa, il loro stesso cognome Borromeo che, dicono, deriverebbe da ‘Buon Romei’, termine quest’ultimo, allora comunemente usato per definire i viandanti provenienti da Roma e dintorni, nonostante loro non fossero affatto dei pellegrini! Altri attribuiscono alla famiglia direttamente origine fiorentina del borgo di San Miniato al Tedesco, dedita essenzialmente al commercio e alla finanza (erano dei banchieri). Il primo atto certo di cui si ha notizia, documento in cui viene citato il nome di Buon Romei, pare risalga al 1370, non prima. In tale data, i componenti della famiglia furono costretti ad abbandonare precipitosamente San Miniato, in seguito alla rivolta in atto già dal 1367 contro la città di Firenze e, in quell’ultimo anno, fattasi particolarmente cruenta. Si sparpagliarono in tutto il nord Italia, trasferendosi chi a Milano, chi a Padova, e successivamente poi, a Venezia, Pisa e Genova, dividendosi così la famiglia, in numerosi rami.
Ndr. – Federico II di Svevia eresse a San Miniato la rocca, facendovi risiedere il suo vicario per la Toscana. Per questa origine germanica la città, di tradizione ghibellina, fu chiamata per tutto il medioevo come San Miniato al Tedesco, nome che è rimasto in uso anche nei secoli successivi. Dopo aver siglato la pace con Firenze il 31 dicembre 1370, San Miniato adottò il calendario fiorentino in sostituzione di quello pisano e mutò il nome in San Miniato al Fiorentino, e poi semplicemente San Miniato [rif. Wikipedia]
Il primo membro della famiglia di cui si hanno riferimenti sicuri, fu Filippo Buonromeo, personalità già allora di spicco, che, sostenuto dall’imperatore del Sacro Romano Impero Carlo IV e da Gian Galeazzo Visconti (poi divenuto duca di Milano), guidò i ghibellini di San Miniato nella loro rivolta del 1367, contro i guelfi fiorentini. Pare che l’abbandono di quelle terre da parte della famiglia, dipese dal fatto che Filippo Buonromeo che pare fosse un ricco notaio, proprio durante la rivolta contro Firenze, venne catturato dall’opposta fazione, e per le sue idee politiche, portato a Firenze e, per sua sfortuna, lì decapitato nel 1370, a pochi mesi dalla fine delle ostilità fra i contendenti. I suoi beni vennero naturalmente confiscati ed i suoi cinque figli costretti all’esilio forzato. Così mentre Giovanni ricco mercante, decideva di trasferirsi a Milano entrando fin da subito nell’orbita dei Visconti (ghibellini pure loro), la madre e gli altri giovani fratelli Andrea, Borromeo, Alessandro, assieme alla sorella Margherita, si stabilirono a Padova. Lì, Margherita sposò Giacomo de’ Vitaliani, rampollo appartenente ad una delle più antiche, potenti ed agiate famiglie padovane che, a quanto pare, vantava addirittura discendenza da santa Giustina di Padova, la santa martirizzata nel 303, ai tempi dell’imperatore Diocleziano. Dal loro matrimonio, avvenuto nel 1390, nacque Vitaliano.
Il ramo milanese dei Borromeo
La storia del ramo milanese dei Borromeo risalirebbe al 1406 e sembra essere legata proprio al nome di Vitaliano de’ Vitaliani (1390 – 1449) nipote, da parte di madre, di quel Giovanni Borromeo, che, essendo forse il più intraprendente dei suoi fratelli, separandosi da loro, aveva optato per la piazza di Milano, per aprirvi lì la sua attività commerciale e finanziaria.
Chi era Vitaliano
Pare che il giovane Vitaliano, cresciuto fin da piccolo nella bambagia in quel di Padova, fosse già all’età di 14 o 15 anni un soggetto brillante, sempre pieno di ragazzine, ma che, seguendo le orme del padre, conducesse una vita piuttosto dissoluta. Spendendo e spandendo, nel giro di poco tempo, era riuscito, probabilmente giocando d’azzardo come il padre, a dilapidare quasi tutto il patrimonio che i genitori gli avevano messo a disposizione. Vitaliano non potendo più quindi sperare di ricevere dai suoi ulteriori sovvenzioni per soddisfare i propri vizi e capricci, e non sapendo cos’altro fare per poter disporre di altro danaro, si ricordò di avere a Milano uno zio, a detta dei suoi genitori, molto danaroso. Era infatti il fratello di sua madre, che, vivendo però lontano, lui praticamente non aveva mai avuto modo di conoscere. Non si perse d’animo per così poco: decise quindi, come ultima spiaggia, di rivolgersi proprio allo zio milanese, sperando di ottenere da lui un consistente aiuto per ripagare i debiti che, nel frattempo, aveva contratto.
Ragazzo intraprendente
Era ormai autonomo, avendo da poco compiuto i suoi 16 anni. Pertanto con gli ultimi soldi che gli erano rimasti, decise di comprare alcuni muli per organizzare il lungo viaggio sino a Milano. Per fare bella figura con lo zio e presentarsi a lui inel migliore dei modi, pensò di adornare i suoi muli con delle belle gualdrappe colorate, sulle quali aveva fatto disegnare un piccolo dromedario accovacciato in un cesto, simbolo di forza e di orgoglio. Dopo qualche giorno di viaggio, giunse a Milano a dorso di mulo. Arrivato in prossimità del palazzo dell’attuale piazza Borromeo, bardò i muli con le gualdrappe che aveva fatto appositamente ricamare e si preparò alla messinscena studiata per commuovere lo zio che non conosceva.
Giovanni Borromeo stava in quel momento pranzando allegramente con degli amici. Arrivato a palazzo, il ragazzo si fece indicare dove si trovasse lo zio. Entrato in modo spettacolare nella sala ove stavano banchettando i commensali, seguito dai suoi fedeli quadrupedi, Vitaliano pensò bene di gettarsi in lacrime ai piedi dello zio Giovanni, implorando pateticamente il suo aiuto. Il banchiere, onestamente infastidito per quella irruzione melodrammatica davanti a suoi ospiti, cercò sulle prime di allontanare lo sconosciuto, poi resosi conto che si trattava di un ragazzo che scoprì essere suo nipote, ci ripensò e, incuriosito dallo strano emblema raffigurato sulle gualdrappe dei muli che il giovane aveva portato con sé, ne chiese spiegazione. Vitaliano gli disse che con quel disegno, intendeva rappresentare la miseria nella quale era caduto e dalla quale, essendo lui molto orgoglioso, si sentiva terribilmente oppresso.
Questa strana giustificazione e la naturale simpatia che il nipote gli ispirava, lo conquistarono al punto da ospitarlo in casa sua e, decidendo di dargli fiducia, di sganciargli il gruzzolo che gli aveva richiesto. Di lì a breve, per farlo lavorare, cominciò ad istruirlo per instradarlo nella sua attività di banchiere. Resosi conto che il giovane nipote era un ragazzo sveglio e molto valido, tra i due nacque un sincero affetto. Morto nel frattempo il papà del ragazzo, Giovanni, non avendo figli, pensò di adottarlo, a patto che accettasse di acquisire il cognome Borromeo, che era poi quello di sua madre Margherita. Così Vitaliano de’ Vitaliani prendendo il cognome Borromeo, divenne il capostipite della famosa famiglia milanese, con il nome di Vitaliano I. (Ndr. – Allora era usanza comune tramandare il nome di padre in figlio).
Proprio per ricordare questo evento (l’adozione), nello stemma della famiglia Borromeo, venne appunto inserito quel simpatico dromedario!
Vitaliano I
Aiutato dallo zio, Vitaliano, non solo mise la testa a posto, ma divenne presto anche un ottimo amministratore dei beni di famiglia. Continuò i commerci dello zio, imparando in fretta il mestiere e aprendo in Spagna, sia a Burgos, che a Barcellona, due nuove filiali della banca milanese che lo zio aveva fondato a Milano. Nel 1416 poi, acquistò la cittadinanza milanese e due anni dopo (nel 1418), essendo lo zio in stretti rapporti di lavoro con il duca Filippo Maria Visconti, Vitaliano venne addirittura nominato tesoriere del ducato di Milano. Sposato nel 1414 ad Ambrosina Fagnani, ebbe da lei due figli maschi: il primo, Giacomo (1414 – 1453) avrebbe optato per la carriera ecclesiastica diventando vescovo, il secondo, Filippo (1419 – 1464), avrebbe invece seguito le orme del padre.
Poco dopo essere stato ufficialmente adottato, grato allo zio, Vitaliano fece ricostruire ed ampliare il palazzo che porta il nome della famiglia, facendo mettere sul portale d’ingresso, quel curioso altorilievo in pietra. Oltre che riuscire con la sua attività di tesoriere generale del Ducato, ad entrare nelle grazie del Duca Filippo Maria Visconti, ebbe da lui pure il privilegio di essere il fornitore ufficiale dell’esercito, oltre che il concessionario esclusivo del trasporto del sale da Genova a Milano (cosa quest’ultima che lo arricchì tantissimo). Nel 1437, fece costruire un castello a Peschiera Borromeo, vicino a Milano e lavorando pure come banchiere per lo zio, si offrì di sostenere economicamente il duca, ottenendo in cambio da lui, numerose terre e privilegi. Fra il 1439 e il 1440 infatti, Filippo Maria Visconti concesse a Vitaliano vari feudi, tra cui quello di Arona sul Lago Maggiore. Nel 1445, venne nominato dal Duca, Conte di Arona. Fu quindi lui, il primo a scoprire le meraviglie del Lago Maggiore e ad iniziare una serie di acquisti terrieri intorno al lago. In quel periodo acquisì vaste proprietà (tra cui la Rocca di Angera), gettando così le basi di quello che sarebbe diventato di lì a breve,un feudo vastissimo, chiamato “Stato Borromeo“.
Opere di beneficenza
Memore della fiducia che aveva riposto in lui lo zio e della generosità da lui ricevuta, il giovane fece diverse opere di beneficenza, erigendo ad esempio nel marzo 1442 la cappellania di Santa Maria della Natività in Santa Maria Podone, assegnandone il giuspatronato ai propri discendenti.
Ndr. – Il giuspatronato [dalla locuzione latina ius patronatus, «diritto di patronato»] è un istituto giuridico esistito in passato che si applicava a un beneficio ecclesiastico. In particolare riguardava la relazione tra il beneficio (un altare all’interno di una chiesa, o anche una chiesa parrocchiale) e colui (soggetto collettivo o persona fisica) che aveva costituito la dote patrimoniale del beneficio stesso. Con tale diritto, ad esempio, coloro che dotavano un altare o una cappella, disponevano anche del beneficiato. Nel caso di una chiesa, chi ne promuoveva la costruzione ne diventava “patrono” e aveva il diritto di nominare il sacerdote, cui avrebbe assicurato il sostentamento. [rif. – Wikipedia]
Notare la corona e la scritta “Humilitas” (stemma della famiglia Borromeo) entro il timpano triangolare della facciata della chiesa che, essendo una delle più antiche di Milano, venne utilizzata dai Borromeo come “cappella e mausoleo di famiglia”.
Nel dicembre 1444 fondò addirittura il consorzio di Santa Maria dell’Umiltà presso la chiesa parrocchiale di Santa Maria Podone, cioè una “casa elemosiniera” allo scopo di offrire ricovero e assistenza ai poveri ed ai malati. L’attività elemosiniera prevedeva la distribuzione quotidiana di pane bianco agli indigenti, oltre all’erogazione annuale di quattro doti da 100 lire ognuna a “povere putte di buona fama”, scelte dal Guardiano dei frati minori dell’Osservanza di Sant’Angelo.
Dai Visconti agli Sforza
Nel 1449 Vitaliano I morì senza riuscire a vedere l’ascesa al potere di Francesco Sforza, che lui aveva tentato di sostenere e favorire in tutti i modi, essendo contrario alla Repubblica Ambrosiana instauratasi alla morte, nel 1447, di Filippo Maria, l’ultimo dei Visconti. Fu tuttavia la sua famiglia, nella persona del figlio Filippo, che nel 1450, sostenne lo Sforza nella sua lotta per diventare erede e successore dei duchi Visconti, consentendogli di utilizzare proprio il castello di Peschiera Borromeo, come base per il suo assedio a Milano. Quando poi Francesco Sforza divenne duca, la sua gratitudine per i servigi della famiglia Borromeo li travolse di ricompense e onori. Filippo, figlio di Vitaliano, nel 1461, venne insignito del titolo di conte di Peschiera. Seguendo le orme del padre, aveva espanso notevolmente la già cospicua fortuna bancaria da lui ereditata, conducendo commerci in tutta Europa: aprì filiali della banca milanese a Bruges (in Belgio) e a Londra. L’attività fu gestita almeno fino al 1455.
Quei Borromeo “in odor di santità”
Non è decisamente facile ricostruire l’albero genealogico dei Borromeo che, solo nel ramo milanese della famiglia, annovera nientemeno che cinque cardinali, due dei quali, anche arcivescovi di Milano. Non è tutto: c’è un altro arcivescovo (Vitaliano) nel ramo Borromeo Visconti ed ulteriori due arcivescovi (Vitaliano ed Edoardo) nel ramo Borromeo-Arese.
Carlo (1538 – 1584) Arcivescovo di Milano, eletto alla porpora cardinalizia da papa Pio IV nel 1560
Federico (1564 – 1631) Arcivescovo di Milano, fatto Cardinale da papa Sisto V nel 1587
Giberto III (1615 – 1672) Cardinale Camerlengo del collegio cardinalizio sotto papa Alessandro VII
Federico (1617 – 1673) Cardinale Segretario di Stato di Sua Santità Clemente X
Giberto IV Bartolomeo (1671 – 1740) elevato a Cardinale nel 1717 da papa Clemente XI
Vitaliano Visconti (1618 – 1671) Arcivescovo metropolita di Monreale, fatto Cardinale da Alessandro VII
Vitaliano (1720 – 1793) Arcivescovo di Tebe, fatto Cardinale da papa Clemente XIII nel 1766
Edoardo (1822 – 1888) Arcivescovo di Adana, elevato a Cardinale di Santa Prassede da papa Pio IX
E’ noto ad esempio che Carlo (1538 – 1584) e Federico (1564 – 1631), i due famosi arcivescovi milanesi erano fra loro cugini, anche se la differenza d’età fra i due era notevole (26 anni). Ma vi siete mai chiesti in quale posizione si collocano rispetto al capostipite del ramo milanese della famiglia? Ecco la soluzione:
Erano rispettivamente figli di due fratelli, Giberto II e Giulio Cesare (probabilmente il primo e l’ultimo dei cinque figli che Federico Borromeo aveva avuto con Veronica Visconti Somma. Il padre di Federico, Giberto I era figlio di Giovanni, consigliere e senatore ducale, governatore di Milano alla morte di Galeazzo Maria Sforza. Giovanni figlio di Filippo il cui padre era Vitaliano I (il capostipite della famiglia). Ora che le idee sono ben confuse, per essere più chiari, lo schema qui sotto mostra la discendenza in linea diretta dal capostipite del ramo milanese dei Borromeo) escludendo, a livello generazionale, tutti gli altri componenti della famiglia.
Vitaliano I era il …. pentavolo dei due arcivescovi!
Lo “Stato Borromeo”
La fortuna che arrise ai Borromeo consentì loro di acquistare nel tempo moltissimi terreni sì da formare un vero e proprio Stato nell’ambito del Ducato in tutta l’area intorno al Lago Maggiore. al confine con la Svizzera. L’insieme delle terre che a loro tempo erano appartenute a Desiderio l, re dei Longobardi e successivamente, all’imperatore Federico Barbarossa, situate intorno al lago Maggiore, costituirono, tra il XIV e XV secolo, il cosiddetto “Stato Borromeo”, vasto più di mille chilometri quadrati, con Arona ed Angera rispettivamente sedi del Conte e del Marchese. Il grandissimo feudo godeva di larga autonomia, probabilmente dovuta al fatto che storicamente il territorio, che era stato affidato in comodato prima dal Barbarossa e poi da Federico II a feudatari locali, essendo scarsamente popolato, necessitava di essere difeso a nord dalle incursioni nemiche. C’era quindi la necessità per i feudatari che avevano quei terreni in comodato, del mantenimento di una guarnigione locale, capace di controllare in piena autonomia, tutto il fronte nord occidentale del Ducato. Questo giustifica pure il gran numero di siti fortificati della zona. I Borromeo quindi avevano un proprio esercito locale con il sostegno dell’aristocrazia del posto. Il vasto feudo ebbe una lunga vita e solo l’occupazione napoleonica nel 1797 riuscì a smantellarlo. Analogo discorso vale per il potere giurisdizionale sugli abitanti di quelle aree. Le proprietà borromee non dipendevano dalla giustizia ordinaria di Novara e di Milano. L’amministrazione della giustizia era affidata ai podestà su mandato del Conte. Questa condizione sembra dipendesse dal fatto che ai tempi, le controversie di vicinato venivano risolte direttamente dai feudatari, senza ricorrere alla giustizia ordinaria. Altro aspetto particolare dello “Stato Borromeo” era che, essendo il lago Maggiore sotto il totale controllo dei Borromeo, essi vantavano il lucroso diritto di riscossone dei dazi sulla navigazione lacuale.
Alcune note sullo stemma dei Borromeo
Una delle cose che maggiormente risalta nello scudo dello stemma dei Borromei, è sicuramente:
– il motto Humilitas, scritto a lettere gotiche che campeggia su tutto, intendendo sottolineare la pietà e la religiosità della famiglia di Carlo e di Federico Borromeo, tutti molto legati alla Controriforma e spesso imparentati con vari pontefici. Il motto sottintende l’umiltà dinanzi a Dio e alle virtù;
– la corona sormontata da otto foglie di acanto o fioroni d’oro (cinque visibili) sostenute da tre punte ed alternate da otto perle, venne aggiunta quando Vitaliano I venne nominato conte di Arona nel 1445;
– Il dromedario sul cui dorso si erge un cimiero piumato (che compare pure in cima alla corona) e che simboleggia la pazienza, la sopportazione e la devozione;
– Il cavallo bianco con l’unicorno, spesso rivolto in segno di rispetto verso il biscione dei Visconti, è un simbolo di purezza e castità, il corno simboleggia la penetrazione del divino. Infatti in ambito cristiano il corno rappresenta la spada divina che penetra nella Vergine Maria: l’unicorno è dunque il simbolo dell’Incarnazione del Verbo di Dio che apre la strada all’avvento di Cristo Re;
– Il morso d’argento che rappresenta il prevalere della ragione sulla forza bruta, introdotto in onore di Giovanni I Borromeo e la sua campagna militare del 1487 che sbaragliò gli Svizzeri e i Vallesani che, al ponte di Crevoladossola (presso Domodossola) volevano invadere l’Ossola e il Verbano occidentale per strapparli al Ducato di Milano;
– l’aquila nera con corona su campo dorato simbolo della potenza e dell’impero, e le ali nere abbassate su campo argentato simboleggiano il primogenito della famiglia Arese e vennero introdotti nello stemma di famiglia a seguito dell’unione fra Renato Borromeo con Giulia, rampolla dell’antica famiglia nobile Arese, avvenuta nel 1652.
– Il cedro, simboleggia l’eternità e l’immortalità della stirpe, la bellezza e la fecondità delle terre dei Borromeo sul Lago Maggiore;
– il nodo con tre cerchi chiamato anche “nodo Borromeo”, è senz’altro, il più importante di tutti. Simbolo di unione indissolubile tra le famiglie Sforza, Visconti e Borromeo, è un nodo che non può esistere senza gli altri due. Se si osserva bene, una sua caratteristica è che quando gli anelli sono tutti e tre assieme, non c’è modo di separarli, mentre se uno qualunque dei tre si toglie, gli altri due si separano automaticamente. Altra caratteristica che lo rende inimitabile, è quella della rigidità e non della flessibilità, poiché i tre anelli sono realizzati con curve leggermente ellittiche e non circolari.
Un altro aspetto simbolico di questi tre anelli, è quello legato alla rappresentazione della Santissima Trinità, che, come quei nodi, è unita e inseparabile una dall’altro. Indicativa è però la simbologia legata agli anelli che, essendo una figura chiusa, rappresenta la continuità, la totalità e la fedeltà. L’anello significa un’alleanza, un’unione in un destino comune, senza inizio né fine.
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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