Santa Maria Incoronata (Milano)
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Per qualunque essere vivente, l’amore è soprattutto bisogno psicologico di scambio affettivo. Indubbiamente sono infiniti i modi per esprimere il proprio sentimento verso l’altro. La nostra condizione umana, di per sé molto fragile, necessita di sicurezza, compassione. conforto, fedeltà, sostegno fisico e morale. Cosa questa che non si esprime necessariamente con esternazioni più o meno evidenti ma pure con manifestazioni d’affetto intuibili dalle attenzioni che, per il soggetto cui sono rivolte, rappresentano un valore che nessuno mai potrebbe quantificare, né spiegare a parole.
Una chiesa, per suggellare la propria fedeltà
Cosa di meglio se, per dimostrare il suo amore nei vostri confronti, il vostro partner facesse costruire una chiesa identica ad un’altra già esistente (che avete fatto costruire voi) e l’accostasse a quest’ultima in modo da sembrare assolutamente gemella? Visto come simbolo di indissolubile unione coniugale da tramandare ai posteri, questo modo di esprimere il proprio incondizionato affetto verso il partner, ci appare oggi indubbiamente un po’ “plateale”. Eppure, qualche secolo fa, questo fu proprio quanto fece Bianca Maria Visconti, nei confronti del suo amato bene, Francesco Sforza. E’ un eufemismo naturalmente, visto che le male lingue, bene informate, propendono per la tesi che la duchessa, “un po’ piccata” per gli evidenti tradimenti del marito, avesse voluto, con questo gesto, suggellare pubblicamente la sua più assoluta fedeltà.
Fedeltà ben riposta?
In effetti lui, non era proprio uno “stinco di santo”! La sua fedeltà lasciava un po’ a desiderare …. Da bravo capitano di ventura qual era, gliene combinava davvero di tutti i colori! Era uno Sforza e, a giudicare solo dai 26 figli noti che aveva, fra legittimi e illegittimi, la sua virilità non era assolutamente in discussione, anzi era da guinness da primato! E’ abbastanza evidente che quei figli non potevano essere tutti della moglie, anche se con lei, non si può certamente dire che non si fosse dato da fare … ne ebbe solo 9! A parte poi un’altra figlia legittima Antonia Polissena (la sua primogenita), morta in fasce e avuta da un precedente matrimonio con Polissena Ruffo, tutti gli altri 16 figli, erano chiaramente illegittimi, avuti con varie amanti. Per dimostrare “ai posteri” che lei invece era, nonostante tutto, fedele e devota a lui, fece costruire una seconda chiesa “accostata” alla prima già edificata e inaugurata dal marito, creando un qualcosa di assolutamente originale, anche dal punto di vista architettonico.
Doveva davvero volergli un gran bene, se si pensa che la differenza d’età fra i due, era decisamente rilevante: ben 24 anni! Allora, la cosa non era infrequente, anche perchè la parola “amore” era interpretata in maniera ben diversa rispetto ad oggi. Non aveva nulla a che fare col sentimento che un soggetto può provare verso un altro, cioè attaccamento, trasporto e dedizione. Come accade ancora oggi in altre religioni, era un “freddo accordo formale”, stipulato e sottoscritto a tavolino (alla presenza di alti prelati) fra i capi famiglia dei due interessati. Erano loro, i genitori, che, di regola, decidevano l’apparentamento fra i rispettivi figli, che non si conoscevano nemmeno. Lo facevano unicamente per motivi di prestigio, per interessi economici, per mutua protezione, per acquisizione di feudi, per avere nomine onorifiche. Visto sotto questo aspetto, l’avere figli significava disporre di “risorse” per soddisfare le proprie mire. Essendo abbastanza ovvio che un matrimonio “così combinato” fra due perfetti sconosciuti, molto raramente finiva bene, questo giustificherebbe la naturale altissima incidenza di figli illegittimi nelle unioni fra esponenti di famiglie altolocate. Il caso di Francesco e Bianca Maria non era dissimile dagli altri. L’unica differenza, se così si può chiamare, stava nel fatto che dato il forte divario d’età fra i due nubendi, Francesco, il futuro sposo, aveva trattato direttamente il contratto di matrimonio col padre di lei. Lui era trentenne (già vedovo), un “vecchio”, per lei che ne aveva soltanto 6! Piccolo dettaglio, il padre di lei era il Duca di Milano, Filippo Maria Visconti (l’ultimo dei Visconti).
Ndr.- Francesco Sforza, primogenito illegittimo di Muzio Attendolo, figlio di contadini romagnoli, e di Lucia Terzani, figlia di un sellaio, sposandosi all’età di 17 anni con Polissena Ruffo, bella ricca e ambita nobildonna appartenente ad un ramo della più potente casata calabra, era diventato grazie a tale matrimonio, il maggiore feudatario calabrese (possedeva praticamente più di mezza Calabria) e uno dei maggiori del Regno di Napoli. Antonia, la prima figlia della coppia, nata prematura nel 1419, era morta l’anno successivo, seguita a pochi giorni dalla madre, così Francesco era rimasto vedovo già a 19 anni, erede di un gigantesco patrimonio.
Su suggerimento dei suoi stessi suoceri Ruffo, affidò il patrimonio in gestione ad un esperto notabile del posto, tale Angelo Simonetta e successivamente al suo nipote Francesco Simonetta detto “Cicco”, un vero genio dell’amministrazione e della politica, che fedelissimo alla dinastia, avrà un ruolo fondamentale negli intrighi e nelle vicissitudini degli Sforza.
La promessa di matrimonio con la figlia del Duca, fu chiaramente per Francesco, un contratto steso al buio, che aveva unicamente lo scopo di conquistarsi la fiducia del futuro suocero! Il Duca in effetti era un soggetto dal carattere molto instabile che soffriva di paranoie e non si fidava di nessuno. Aveva bisogno di lui e del suo aiuto perchè Roma, Firenze e Venezia si erano coalizzate contro di lui per tentare di frenare le mire espansionistiche del Duca di Milano, che, secondo loro, aveva in progetto la riunificazione dell’Italia, sotto il Ducato. Francesco Sforza validissimo capitano di ventura, al corrente del carattere diffidente del Duca, si mise ugualmente al suo servizio assumendo il comando delle truppe viscontee e vincendo alcune battaglie contro i Veneziani. Resosi conto della persistente sfiducia del Duca nei suoi confronti, per garantirgli la sua lealtà, fu lui stesso a chiedergli di dargli in moglie Bianca Maria, l’unica figlia illegittima che Filippo Maria Visconti aveva avuto dalla sua amante Agnese del Maino.
Quando poi si sposarono, quel 25 Ottobre 1441, lui, Francesco, era ormai un “attempato” quarantenne vedovo, lei, Bianca Maria, poco più che sedicenne!
Le Chiese “gemelle“
Percorrendo l’ultimo tratto di Corso Garibaldi, da Largo La Foppa in direzione della Circonvallazione interna, non è difficile notare sulla destra, un antico edificio di culto cattolico dalla facciata molto particolare: pare trovarsi davanti ad un caso di due chiese “gemelle”! C’è un altro caso simile a Milano, la chiesetta ancora più antica di san Cristoforo sul Naviglio che risale addirittura al 1200!
Trovandosi l’edificio di culto lungo l’asse piazza Gae Aulenti – Corso Como – Corso Garibaldi – Duomo, si trova ubicata in una zona oggi molto frequentata, che ne sta favorendo la riscoperta. Questo è uno dei più insigni monumenti della Milano quattrocentesca, ai tempi degli Sforza. A detta dei suoi frequentatori più affezionati, uno dei punti di maggior fascino di questa chiesa è che, contrariamente alle grandi chiese più centrali come quelle di San Simpliciano e di San Marco, questa essendo molto più piccola e raccolta, sembra invitare maggiormente alla preghiera.
In passato, per spiegare questa particolare costruzione, gli studiosi avevano ipotizzato che la chiesa di sinistra fosse riservata ai religiosi (che avevano lì vicino pure il convento) e quella di destra ai fedeli laici, oppure che la prima fosse destinata esclusivamente al pubblico femminile, mentre la seconda a quello maschile. Come si è già detto, nulla di tutto questo, in realtà: é solo volontà della committente (Bianca Maria VIsconti) di creare qualcosa che avesse un particolare significato, e la sua costruzione risulta singolare perchè frutto di varie fasi architettoniche.
La storia comincia da lontano
Originariamente, nel IV secolo, pare che sugli orti dove si erano ritirati a vita monacale i primi cristiani con Simpliciano, fosse sorta una piccola cappella come luogo di preghiera e meditazione. Il giovane Agostino dopo essere stato battezzato, fu mandato da Sant’ Ambrogio, a predicare presso quella piccola comunità. Fu lui che trasformò la regola ambrosiana in agostiniana e per questo, quegli orti furono ben presto conosciuti come agostiniani.
Dopo circa cinque secoli venne fondato, accanto alla cappella, anche un piccolo monastero dedicato a San Lazzaro, cenobio questo, che il tempo e l’incuria, ridussero presto in rovina.
In età comunale (1180 circa). dopo le distruzioni operate dal Barbarossa, i padri Eremitani di San Marco decisero di far erigere, al posto della cappelletta originaria, una chiesetta dedicata a Santa Maria di Garegnano. Guardando frontalmente la chiesa attuale, il nucleo originale di quella chiesetta, sorgeva in corrispondenza delle attuali seconda e terza cappella laterali a sinistra, entrando.
Ndr. – Nel XII e XIII secolo sulla scia di nuove spinte riformatrici, non solo i singoli individui, ma anche i conventi perseguivano un ritorno ai primitivi ideali di povertà evangelica. I primi insediamenti in Lombardia degli Eremitani conventuali di Sant’Agostino risalirebbero al XIII secolo. La corrente caldeggiava l’unione degli Agostiniani, proponendo l’abbandono dei luoghi solitari e la prosecuzione dello studio teologico rapportato all’evangelizzazione delle nuove realtà cittadine.
Purtroppo, la carenza di documentazione non consente di avere notizie certe su questa chiesetta, né tanto meno sull’attiguo convento, comprendente anche due piccoli chiostri, oggi andati perduti. I primi dati disponibili, che risalirebbero all’inizio del Trecento, fanno riferimento ai frati agostiniani tradizionali (facenti capo alla chiesa di San Marco in Milano) quali titolari, a pieno titolo, di questo bene.
Il primo documento ufficiale (1444)
Uno dei primi documenti ufficiali rinvenuti, pare sia un appello rivolto alla Santa Sede, in data 17 novembre 1444, da parte del Priore e dei padri del monastero di San Marco, tendente a chiedere l’annullamento di una sentenza emessa dal Cardinale Protettore contro di loro, con la quale, sotto pena di scomunica, ordinava che il monastero di San Marco rilasciasse subito ad altri religiosi, il convento di Santa Maria di Garegnano, soggetto al detto monastero.
Ndr. – Il Cardinale Protettore era un prelato nominato da ordini religiosi, confraternite, specifiche chiese, o collegi, perché ne tutelasse e sollecitasse i loro interessi, presso la Curia romana. (Era una sorta di avvocato ecclesiastico, con poteri speciali)
Il 29 maggio 1445 poi, i frati agostiniani di San Marco, non vedendo accolto il loro appello, furono costretti a cedere l’antico convento e l’attigua chiesetta, alla Congregazione lombarda dell’Osservanza dell’Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino.
A questa data quindi, appare dai documenti, la presenza dell’antica chiesetta della Santa Maria di Garegnano extra muros (fuori dalle mura), identificabile oggi, come già detto, dall’insieme della seconda e terza cappella di sinistra della chiesa attuale.
La prima Chiesa (1445 – 1451)
Naturalmente, aumentando il numero di monaci, oltre ad ingrandire il monastero originale, dovettero ampliare anche la chiesetta secondo lo stile tardo gotico di moda a quell’epoca, portandola esattamente alla dimensione della navata di sinistra della chiesa odierna.
Realizzata in stile gotico, la nuova chiesa venne intitolata a Santa Maria Incoronata. Fu denominata in tal modo perché la costruzione venne ultimata proprio in occasione dell’incoronazione a Duca di Milano, di Francesco Sforza che, nel 1451, la inaugurò. In quell’occasione, la chiesa fu dedicata a lui e lui a sua volta fece dono agli Agostiniani dell’Incoronata, di un appezzamento “di prato comune libero” perché i frati potessero “edifitiis et orto amplificare monasterium ipsum” (ampliare l’edificio e l’orto dello stesso monastero).
Poiché questo luogo era destinato ad essere la loro più importante sede in Lombardia, a partire da questa data cominciarono ad eseguire, grazie ai numerosi lasciti e alle cospicue donazioni di fedeli, importanti lavori di ristrutturazione, e di ampliamento dell’intera area, sotto l’attento controllo di padre Giorgio da Cremona, riformatore della regola agostiniana.
La seconda Chiesa (145? – 1460)
Contemporaneamente (e qui c’è qualche incertezza sulle date) fra il 1450 e il 1457, cominciarono i lavori di edificazione della nuova chiesa voluta dalla duchessa Bianca Maria Visconti, signora di Cremona.
Lei, sicuramente indispettita col marito per i suoi continui tradimenti, non mancava di fargli sfuriate in seguito alle avventure extra-coniugali dello Sforza. “Madonna Biancha mi ha dicto quelle cose che le donne dicono ali mariti”, raccontava lui rassegnato. Comunque, non solo lo perdonò sempre per le sue numerose scappatelle ma anzi, desiderosa comunque di esprimergli la sua totale devozione e fedeltà, ordinò che la nuova chiesa fosse costruita a fianco di quella già esistente, identica ma simmetrica (cioè con le cappelle che nella prima risultano essere a sinistra, nella seconda si trovano a destra) e volle fosse congiunta ad essa anche come facciata.
Come mai Nicola da Tolentino?
Essendo gli Sforza da sempre molto devoti al beato agostiniano Nicola da Tolentino, canonizzato (cioè fatto santo) proprio in quegli anni (1446), Bianca Maria decise, sempre per devozione al marito, di dedicare la chiesa a questo nuovo santo.
Ndr. – Nicola da Tolentino (1245 – 1305) entrò giovanissimo nell’Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino, facendo i voti solenni a meno di diciannove anni. Nel 1269, fu ordinato sacerdote. Dopo la sua ordinazione, predicò soprattutto a Tolentino, dove fu trasferito intorno al 1275. Nel convento di Sant’Agostino di Tolentino trascorse gli ultimi 30 anni della sua vita, predicando quasi ogni giorno. Sebbene negli ultimi anni la malattia mise alla prova la sua sopportazione, continuò le sue mortificazioni quasi fino alla sua morte nel 1305. Il processo della sua canonizzazione iniziò nel 1325 sotto papa Giovanni XXII, ma si concluse soltanto nel 1446, sotto papa Eugenio IV.
Celebri sin dal Medioevo sono i cosiddetti “panini miracolosi” di san Nicola, che servirono anche per la raccolta di farina da parte dei fedeli che si recavano al santuario e che dettero nome anche alla compagnia cerretana degli “affarinati”, che rubavano la farina agli ingenui spacciandosi per pellegrini diretti a Tolentino, in cerca di farina per fare i panini miracolosi, citata anche dal vescovo urbinate Teseo Pini nel suo Speculum Cerretanorum del 1485.
I panini benedetti sono un segno particolare della devozione a san Nicola, legati ad un episodio della sua vita. San Nicola, gravemente malato, ottenne la grazia della guarigione per intervento della Vergine Maria, che, apparsa in visione, gli aveva assicurato: «Chiedi in carità, in nome di mio Figlio, un pane. Quando lo avrai ricevuto, tu lo mangerai dopo averlo intinto nell’acqua, e grazie alla mia intercessione riacquisterai la salute». Il santo non esitò a mangiare il pane ricevuto in carità da una donna di Tolentino, riacquistando così la salute. [rif. Wikipedia]
Così la facciata doppia sull’attuale Corso Garibaldi n. 116, racconta la storia edilizia dell’edificio, come risultato dell’unione di due chiese distinte ma accostate, quella di Santa Maria Incoronata (a sinistra) e quella di San Nicola da Tolentino (a destra), costruite in momenti diversi. Come risulta dai documenti relativi al giubileo del 1460 indetto da papa Pio II, la chiesa di San Nicola da Tolentino, come struttura indipendente, fu consacrata proprio quell’anno, in tempo per l’inizio del giubileo.
Unione delle due Chiese (1468 -1480)
Fu solo a partire dal 1468 che si comincerà ad abbattere il muro di separazione fra le due chiese, in seguito ad un’importante concessione di 5000 fiorini ai frati dell’Incoronata da parte di Galeazzo Maria Sforza. Il lavoro di unificazione delle due chiese in un’ unica struttura, imiziato nel 1468, verrà terminato appena negli anni Ottanta del Quattrocento, sotto la reggenza di Ludovico il Moro. In realtà, quindi, le due chiese costituiscono un tutt’uno, rifacendosi ad un modello “ad quadratum” forse d’ispirazione filaretiana.
Il nome della chiesa risultante è Santa Maria Incoronata. E’ una chiesa a due navate terminanti con altrettante absidi poligonali, intorno alle quali, si aprono le sei cappelle laterali (tre per parte). Con tutta probabilità, il disegno del complesso già nel 1450, venne affidato al Filarete appena arrivato a Milano e chiamato dai nuovi Duchi, per la riedificazione della Torre Castello di Porta Giovia, e successivamente per la costruzione del primo Ospedale pubblico cittadino, la Ca’ Granda. Lo testimonierebbe la dettagliata descrizione che ne fece Antonio Averlino detto il Filarete nel suo grande trattato, uno dei pù importanti documenti del primo Rinascimento. L’interno risulta essere composto da due navate di uguale altezza diviso da pilastri, ognuna di queste a tre campate e terminante con un abside. Lungo i fianchi si aprono tre cappelle per parte. Alle donazioni del Duca di Milano, fecero seguito quelle non meno generose di altre illustri famiglie milanesi che fecero costruire, nelle cappelle laterali, i propri sepolcri. Negli anni 1451 – 1480 fu realizzato il grande chiostro quadrato e il porticato, l’unico superstite, impostato sul modulo ad quadratum teorizzato da Filarete. Tra il 1480 e il decennio successivo, fu realizzato il piccolo chiostro e la Biblioteca Umanistica (1487). Nel 1510 si costruì un nuovo Refettorio e il terzo chiostro (oggi del tutto scomparsi).
I lavori di restauro eseguiti tra il 1652 e il 1654 comportarono purtroppo la distruzione della decorazione parietale quattrocentesca. In compenso venne realizzato un ciclo di affreschi di ottima fattura “Storie del beato Giorgio Laccioli” da parte di Ercole Procaccini junior e Giovanni Stefano Montalto, esponenti di spicco dell’arte pittorica del Seicento.
Ndr.- Giorgio Laccioli è meglio noto come Giorgio da Cremona, il riformatore della regola agostiniana, morto nel 1451 di peste e sepolto nella chiesa dell’Incoronata di Milano.
Dell’antica decorazione della chiesa rimangono solo poche tracce, come lo strappo d’affresco presente sul pilastro della navata centrale, raffigurante due sante: una a figura intera, probabilmente Santa Caterina d’Alessandria; e l’altra raffigurante Santa Chiara da Montefalco.
Cappella detta della “Sacra Famiglia”
Dal XV secolo questa chiesa divenne luogo di sepoltura di casate gentilizie maggiormente legate agli Sforza.
In questa cappella laterale vi sono custodite le lapidi di alcuni esponenti della famiglia Bossi: una in ricordo di Matteo e Polissena Bossi (1497 – 1500); un’altra in memoria di Giovanni Antonio Bossi e sua moglie Angela Barzi (1526). Una terza lapide ricorda il condottiero Antonio Landriani, assassinato nel 1499.
Cappella del “Sacro Cuore”
Prende il nome dall’altare ivi eretto. Di particolare interesse è la lastra tombale dell’arcivescovo di Milano, Gabriele (Carlo) Sforza, pastore dal 1454 al 1457, attualmente sistemata sulla parete della cappella, un tempo posta a livello della pavimentazione nella navata di destra.
Gabriele Sforza, fratello del più celebre Francesco Signore di Milano, fu vescovo di questa città verso la metà del XV secolo. Era un figlio naturale di Muzio Attendolo e di Maria Marziani dei duchi di Sessa, contessa di Celano. Nato nel 1423, era stato battezzato con il nome di Carlo e aveva seguito inizialmente le orme del padre arruolandosi nelle sue milizie. Abbandonata ben presto la carriera delle armi, si fece frate agostiniano dell’Ordine degli Eremitani di Sant’Agostino, professando i voti nel 1443, nel monastero di Lecceto (Siena) nelle mani del beato Girolamo Bonsignori. Francesco, suo fratellastro, lo volle nominare Arcivescovo di Milano nel 1454 con il consenso di Papa Niccolò V.
Divenuto vescovo e cardinale, mutò il proprio nome in Gabriele Sforza e come tale, venne il più delle volte ricordato. Fu particolarmente legato al monastero agostiniano dell’Incoronata che cercò in ogni modo di abbellire. Volle essere sepolto nella chiesa dell’Incoronata, annessa al monastero. [rif. – Associazione Storico Culturale Sant’Agostino]
Cappella detta “dei Mercalli”
Qui, nel giugno del 1966, vi furono traslate le salme di mons. Gaetano Mercalli (1856 – 1934) per diversi anni parroco della chiesa di Santa Maria ‘Incoronata, e di suo fratello sacerdote e professore Giuseppe Mercalli (1850 – 1914) celebre scienziato, ideatore della scala sismica che porta il suo nome.
Nella medesima cappella vi sono anche le lapidi funerarie di altri esponenti della famiglia Bossi: una lapide in ricordo del consigliere ducale Luigino Bossi risalente al 1453 ed una a Giovanni Bossi (1492) entrambe poste da Matteo e Polissena Bossi.
Particolarità
Abside navata destra: Il Cristo senza braccia
I grandi affreschi che si possono ammirare sulle pareti delle nicchie dell’abside di destra, rappresentano episodi della vita di San Nicola da Tolentino. Esattamente dietro l’altare invece, rapisce lo sguardo un pregevole Crocifisso senza braccia, in legno policromo del 1500. Come mai un Cristo senza braccia?
La storia della chiesa è più complessa di quanto si possa immaginare: purtroppo nel corso degli ultimi secoli, essa non rimase sempre tale, ma, nel periodo delle dominazioni straniere, cambiò più volte la destinazione d’uso. Diventò così dapprima un magazzino, poi un lazzaretto, quindi una caserma, addirittura un carcere ed infine, a quanto sembra, pure una scuola di agraria prima di essere restituita alla sua originale funzione come luogo di culto e chiesa parrocchiale. Quel crocefisso, rimosso dalla sua sede originaria, rimase accatastato per numerosi decenni in qualche scantinato, in attesa di miglior sorte Essendo la scultura piuttosto grande, le braccia del Cristo, ovviamente costruite separatamente e poi incastrate al suo corpo, furono a suo tempo smontate e, nei vari traslochi da un locale all’altro, andarono perdute. Pertanto oggi, il Cristo rimesso al suo posto, è rimasto monco così come lo si vede: Risistemandolo in chiesa, dapprima lo appoggiarono ad una parete, poi, dato anche il pregio della scultura policroma, grazie ad un progetto di restauro, fu adagiato su una croce, senza però ricostruire gli arti mancanti. Appesa oggi sulla parete di fondo della nicchia centrale dietro l’altare, l’immagine così monca, appare attualmente ancora più dolorosa e toccante.
Prima Cappella navata sinistra: Il ‘Torchio Mistico’
Appena entrati all’interno della chiesa, la prima cappella alla sinistra (quella del Battistero) è detta del Bergognone. Sulla parete di destra, è molto particolare il suo lacerto (affresco danneggiato). Si tratta de “Il Torchio Mistico”, opera giovanile di Ambrogio da Fossano, detto appunto il Bergognone, uno degli artisti più noti del Quattrocento. L’opera si fa risalire al 1480 circa.
Il fatto che nessun documento faccia cenno a questa Cappella, viene interpretato dagli studiosi come l’antico spazio antistante la facciata della chiesetta originaria. Infatti la parete destra dell’attuale cappella costituiva proprio la facciata del luogo di culto agostiniano, esistente già all’inizio dell’Osservanza. Ne sarebbero evidenti testimonianze, le ampie spanciature e la fragilità dell’intonaco di quella particolare parete. Il deterioramento del dipinto troverebbe giustificazione nel fatto che pur essendo stato eseguito dopo l’ampliamento della chiesetta originale, il dipinto murale fu realizzato su una parete che precedentemente era “una facciata esterna” (quindi più umida). Non stupisce il fatto che questo affresco sia qui, nella sede dell’Osservanza Agostiniana, perchè gli agostiniani erano i frati più attenti al mistero eucaristico, particolarmente nel Quindicesimo secolo.
Il tema, molto raro qui in Italia, rappresenta il “Cristo sotto un torchio, a forma di croce, con i piedi nel tino, da cui esce il sangue raccolto dai padri della Chiesa”. Nello specifico, i dottori della Chiesa rappresentati (in basso) sono Agostino e Gerolamo. Sulla destra, l’angelo inginocchiato sulla leva/croce del Torchio A sinistra il Padre Eterno e lo Spirito Santo (sotto forma di colomba) girano la vite del Torchio. In basso a sinistra la figura col camauro (copricapo del papa), è probabilmente è il papa regnante (il committente – papa Sisto IV) che assume il vino da una coppa d’oro offertagli da un angelo. Un cartiglio cita il profeta Isaia e fa riferimenti alla passione.
Questa iconografia è davvero rara qui da noi. Era molto più comune nel nord Europa, in ambiente fiammingo, probabilmente apparsa già nel Medioevo, sulla base delle reliquie del preziosissimo sangue che venivano portate dalla Terrasanta. Ebbe poi maggiore impulso nel Quattrocento e nel Cinquecento quando i vari Concilii della Chiesa affrontarono più a fondo le tematiche eucaristiche. Negli affreschi, Cristo venne spesso mostrato sotto la morsa del torchio: come il grappolo d’uva pigiato, diventa vino nel tino, così il sangue trasudato dalle piaghe di Cristo, viene raccolto in un calice.
Ai tempi di San Carlo Borromeo (cioè nemmeno un secolo dopo), questo affresco venne coperto, cancellato alla vista per suo volere, perchè trattandosi di un soggetto un po’ particolare, avrebbe potuto prestarsi a confusione ed essere motivo di turbamento. L’affresco rimase così nascosto alla vista per oltre tre secoli! Fu riportato nuovamente alla luce appena negli anni Trenta del Novecento.
la Biblioteca Umanistica
Altro gioiello poco noto in città e recentemente riportato agli antichi splendori grazie ad una serie di accurati restauri, è la Biblioteca Umanistica, la cosiddetta “libraria” agostiniana dell’Incoronata. Risulta essere una delle più importanti biblioteche della Milano quattrocentesca, costruita nel 1487, sotto il priorato di Paolo da San Genesio, proprio negli anni in cui Leonardo da Vinci stava operando nel capoluogo lombardo, al servizio di Ludovico il Moro. Collocata al primo piano, molto luminosa grazie alle ampie finestre da ambo i lati, risulta essere a tre navate divise da eleganti colonne di granito, con la presenza di soffitti con volta a crociera affrescati sulle lunette con i volti dei “Magistri Sacrae Paginae” (dottori e teologi dell’Ordine agostiniano). Vi sono pure tracce di una zoccolatura elegante sparse tutt’intorno alle pareti sulle quali sono stati recuperati ampi lacerti di pittura in color verde scuro, solcati qua e là, da cartigli svolazzanti.
Nel Cinquecento, costituiva un circolo culturale di notevole mportanza, al punto che tanti personaggi milanesi intellettuali donarono alla Biblioteca intere raccolte di volumi e preziosi codici.
Con l’idea di fondare un centro di studi aperto anche al pubblico, l’arcivescovo Federico Borromeo, poco prima dell’inaugurazione della Biblioteca Ambrosiana (1609) fu molto attivo nel far prelevare, da diversi monasteri e conventi (tra cui anche da quello agostiniano), consistenti collezioni di codici e di altri preziosi tomi che fino ad allora erano consultabili solo dal clero. Il resto dei volumi della Biblioteca andò purtroppo disperso con la soppressione del convento agostiniano, voluta da Napoleone nel 1797.
Da qualche anno, la biblioteca restaurata viene utililizzata per l’allestimento di mostre ed esposizioni o visitabile su prenotazione.
ll Chiostro grande
Degli antichi chiostri (3 in tutto), oggi ne è rimasto solo uno, quello grande, a pianta quadrata, con archi a sesto acuto, situato sul retro della chiesa Santa Maria Incoronata. Fu parzialmente demolito nel 1938 (lato nord-ovest), per far spazio alla costruzione della Camera del Fascio.
Il vero ingresso al Chiostro Grande, è attualmente da Via Marsala. E’ difficile riuscire a trovarlo libero. D’estate usualmente ospita le proiezioni all’aperto del Cinema Anteo, mentre durante l’anno, nei giorni feriali, viene utilizzato dal Comune e dagli alunni della scuola Montessori, mentre durante lo weekend è riservato alle attività parrocchiali.
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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