Alessandro Manzoni
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Tutti abbiamo studiato il Manzoni, ai tempi del liceo. Chi non si ricorda, durante le ore d’italiano, i compiti in classe o le interrogazioni sull’Adelchi, sul Cinque Maggio o sui Promessi Sposi? Chi non ha mai studiato a memoria “Su quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno …”?
Certo, a distanza di tanti anni, i ricordi svaniscono, le cose si dimenticano. Poi, detto tra noi, per quell’età ci siamo passati tutti, si studiava solo perché c’era sempre il rischio dell’interrogazione, non certo per il piacere dell’apprendimento o della lettura. Gli interessi erano sicuramente diversi!
Oggi, a qualche annetto di distanza da allora, capita, riordinando gli scaffali in cantina, di ritrovarsi fra le mani, un vecchio libro di scuola, ingiallito dal tempo, dimenticato lì da anni. Viene spontaneo, sfogliandolo, di soffermarsi a leggere una pagina a caso, una di quelle scarabocchiate con tante annotazioni a matita, cui si era fatta la classica orecchietta, indice inequivocabile di una pagina ‘vissuta’. Il sapore di quella lettura catapulta nel passato, facendo riscoprire storie e dettagli, sicuramente studiati allora, ma che oggi giungono totalmente “nuovi”. Questo è esattamente quanto è successo a me, pochi giorni fa: la classica antologia …. l’argomento della pagina aperta davanti agli occhi; Alessandro Manzoni!
Non è mia intenzione, in questo articolo, riproporre per l’ ennesima volta, una noiosa e pedante storia della sua vita o la filosofica interpretazione delle opere dello scrittore, cui altri hanno già dedicato ampio spazio, non ne ho la competenza e non ne sarei proprio capace. Desidero solo riproporre alcuni episodi significativi della sua vita, (ovviamente rielaborati alla luce di una verifica storica), tratti dagli appunti di allora, a volte seri, a volte spassosi, altre volte curiosi, che, per essere stati annotati da me su quelle pagine, ho sicuramente studiato , ma anche, altrettanto facilmente dimenticato!
Un esempio per tutti: “Il fatto, che il matrimonio fra Renzo e Lucia sia così ritardato, non è colpa di Don Rodrigo o di Don Abbondio (come lo scrittore tenta di far credere), ma del Manzoni stesso!” Verissimo. ma ci tornerò più avanti!
I suoi primi anni
Alessandro nacque il 7 marzo 1785 a Milano, in via San Damiano n. 20, da Giulia (figlia del marchese Cesare Beccaria, l’autore del Dei delitti e delle pene) e, ufficialmente, da don Pietro Manzoni.
Nota: I documenti disponibili relativi al Manzoni, fanno riferimento a via San Damiano 20 come indirizzo della sua casa natale . Quel tratto di strada, nel corso degli anni, ha cambiato denominazione e corrisponde oggi, a via Uberto Visconti di Modrone 16.[vedi foto]
Non fu certo colpa sua, se lo chiamarono Alessandro Manzoni, ma onestamente, quel giorno, all’anagrafe, sarebbe stato forse più corretto, lo avessero registrato come Alessandro Verri! Del resto, si sa … ‘Mater certa, pater incertum est‘, dicevano i latini. E avevano ragione!
Sua madre, Giulia, allora ventitreenne, sapeva benissimo che il suo ‘Lisandrino‘ era figlio dell’amante Giovanni Verri, (fratello minore dell’economista e scrittore Pietro), giovane attraente e libertino, col quale aveva avviato una relazione già cinque anni prima. Anche se lui era 17 anni più vecchio, lei lo avrebbe certamente sposato, se, ad opporsi alla loro unione, non fosse stato proprio Pietro, perché priva di dote. Essendo infatti i Beccaria in difficoltà finanziarie, Giulia, nell’ottobre del ’82, ormai ventenne, (all’epoca, al limite dello zitellaggio), ‘dovette’ sposare don Pietro Manzoni, un nobile lecchese, vedovo quarantaseienne, che l’accettava, anche priva di dote. Era tutto, fuorché amore ovviamente, tanto è vero che, il matrimonio non significò per lei troncare la relazione con la sua fiamma.
Ben presto Giulia si rese infatti conto che la convivenza col marito era molto problematica. Lei, ventenne piena di brio, mal sopportava la vita noiosa e abitudinaria del marito, freddo, “vecchio dentro”,poco incline a soddisfare le sue brame. Era quindi naturale che lei cercasse in Giovanni, l’affetto che non aveva da Pietro. La cosa non destò scandalo più di tanto, allora era abbastanza normale … L’unico a non sospettare nulla, o forse a far finta di non saperlo, era il marito di lei, che, per salvare l’onore e le apparenze in società, fece registrare il neonato, come figlio suo.
Giovanni Verri Giulia Beccaria Pietro Manzoni
Difficile trovare una coppia peggio assortita della loro. Serissimo, compassato e bacchettone lui, tutta vivacità, femminilità e gioia di vivere, lei. E infatti il matrimonio durò ben poco, anche se si arrivò alla “separazione consensuale” tra i due coniugi, appena dopo dieci anni. Lei, fra l’altro, già da tempo, ben prima della separazione ufficiale, aveva abbandonato il tetto coniugale, non per Giovanni, suo primo amore, ma per una nuova fiamma, Carlo Imbonati, conosciuto nel ’90, nobile, colto e molto ricco, del quale si era perdutamente innamorata. Amore comunque ricambiato, tanto che lei andò a convivere con lui, per un breve periodo a Londra, successivamente a Parigi, al n. 3 di Place Vendôme.
L’unico a rimetterci, a causa del totale disinteresse della madre per lui, fu ovviamente il piccolo Alessandro, che, per necessità, venne sballottato a destra e a manca. Affidato infatti al padre, ancora in fasce, trascorse i suoi primi anni di vita nella cascina Costa di Galbiate, tenuto a balia da Caterina Panzeri, una contadina del luogo. Successivamente fu tenuto dai nonni paterni nella tenuta di Caleotto (Lecco).
La sua formazione culturale
In seguito alla separazione dei genitori, Alessandro, venne mandato nel ’91, a proseguire gli studi, dapprima a Merate, al collegio San Bartolomeo dei Somaschi, dove rimase per cinque anni, successivamente, nel ’96, passò al collegio di Sant’Antonio, a Lugano, gestito ancora dai Somaschi, per rimanervi fino al settembre del ’98. Passò, alla fine di quell’anno, al collegio Longone di Milano, gestito dai Barnabiti dove ricevette un’educazione classica. Fra i suoi autori classici preferiti, Virgilio, Orazio, Dante e Petrarca, mentre tra i contemporanei, Monti, Parini e Alfieri.
Totalmente preso dalle teorie dei filosofi e letterati francesi, il Manzoni si formò una cultura illuministica moderna, allontanandosi sempre più dalla chiesa cattolica e dalla fede. Tutto questo, forse come reazione all’assillante educazione religiosa impartitagli nei collegi della sua infanzia e adolescenza, senza contare l’analogo esempio in famiglia, tutto casa e chiesa: oltre al padre bigotto, uno zio, Monsignore, ed una zia, monaca!)
Il suo rapporto con i compagni di collegio
Nonostante avesse un carattere schivo e riservato, ebbe modo di fare amicizia con alcuni suoi compagni di classe, Giulio Visconti e Federico Confalonieri, amicizie che resteranno durature, nel corso degli anni a venire. Non furono comunque anni sereni per Alessandro, da un lato per la sua grande timidezza e sensibilità, dall’altro perché, essendo afflitto da una pronunciata balbuzie, veniva spessissimo preso di mira e era costretto a subire le canaglierie dei compagni. Finita la scuola secondaria, si iscrisse all’Università di Pavia, senza però riuscire a concludere assolutamente nulla.
Carattere molto introverso e difficile
Era un soggetto gracile, di media statura, molto schivo, al punto che correva voce fosse frigido, cioè incapace di esprimere sentimenti. Non era vero, lui si teneva alla larga dalle donne e dall’amore, per la paura di esserne travolto. Ebbe alcune sporadiche avventure: la prima. sospinto a forza dagli amici, fra le braccia di un’attricetta compiacente, incontrata sulla strada di Pavia; un’altra con una domestica, che condivise le sue grazie fra lui e un suo amico, rimanendo poi incinta di uno dei due. Da questa esperienza in particolare, Alessandro Manzoni ne uscì con un profondo rimorso ed una terribile crisi di coscienza. Del resto, in quell’epoca, quel tipo di esperienze era molto comune nelle case della buona società. Infatti, allo scopo di evitare i pericoli di malattie contraibili nelle case di tolleranza, fra i compiti delle domestiche che venivano assunte nelle ‘case bene’, c’era anche quello di prestare servigi di alcova ai figli di papà.
1802 – il suo esordio come poeta
La pubblicazione, in un’antologia, del suo Sonetto per la vita di Dante, consacrò il suo esordo ufficiale in società, come poeta. Aveva solo diciassette anni!. Nonostante quelli fossero gli anni di stravolgimenti politici, dalla calata di Napoleone, in Italia, alla creazione della Repubblica Cisalpina, Alessandro Manzoni non si lasciò mai travolgere dagli entusiasmi degli altri giovani della sua età, mantenendo sempre una posizione per quanto possibile, defilata, evitando accuratamente di parteggiare per questo o per quello.
Fu, comunque, un adolescente molto difficile; fra i primi amori e prime esperienze poetiche, aveva iniziato a condurre una vita decisamente “fuori dalle righe”. Era persino diventato frequentatore del Ridotto della Scala per il gioco d’azzardo, frequentando anche amicizie moralmente pericolose dalle quali il padre, per fortuna sempre presente, cercò di allontanarlo mandandolo, per un periodo, a Venezia, ospite di una zia. Grazie alla sua vocazione agli amori facili e mercenari, lì. contrasse la “ciprigna”, una malattia venerea, a quei tempi, molto diffusa. Apprensivo e salutista com’era, si spaventò tantissimo e non volle più tornare a Venezia, essendo rimasto legato al ricordo di quell’incidente.
1805 – Il suo trasferimento a Parigi
Nel maggio del 1805, aveva ormai vent’anni, quando ricevette da Carlo Imbonati, il convivente di sua madre, una lettera d’invito a Parigi, dove lui dimorava con Giulia. La cosa mise Alessandro in comprensibile agitazione, sia perché l’idea di visitare Parigi lo solleticava parecchio, sia perché fino ad allora, era sempre stato col padre legittimo. Era desideroso di stare un po’ con sua madre che quasi non conosceva. In tutti quegli anni, essendo stato da lei praticamente abbandonato, ne aveva sentito tanto la mancanza, eppure, non aveva mai nutrito rancore nei suoi confronti.
Quanto all’ Imbonati, l’aveva visto solo una volta in vita sua, e conosceva la sua calligrafia, per i saluti che gli inviava in calce alle rare lettere che riceveva da sua madre. Sarebbe stata l’occasione giusta per conoscerlo meglio. Non fece quasi tempo a rispondere ringraziando per l’invito, e a preparare il bagaglio, che ricevette una seconda missiva, questa volta da sua madre che, sconvolta, lo supplicava di venire quanto prima. Carlo era morto improvvisamente.
Alessandro, arrivato a Parigi dopo un viaggio di cinque giorni in diligenza, trovò la madre distrutta dal dolore per la perdita dell’unico vero amore della sua vita e. come lo vide, si aggrappò a lui, in maniera quasi morbosa. Alessandro contraccambiò questo sentimento d’affetto, dandole quel senso di protezione che in quel momento di crisi, lei gli aveva richiesto. S’innamorò addirittura di lei, sia perché era bella, ancora giovane (43 anni) e piacente, sia per la sua squisita femminilità.
“Non vivo che per la mia Giulia”, Alessandro scrisse un giorno, ad un amico, firmando la lettera con un Manzoni Beccaria. quasi a voler rimarcare che aveva voluto adottare anche il cognome della madre.
A Parigi, compose l’ode “in memoria di Carlo Imbonati”, in cui il sentimento di commozione, prese il sopravvento sul freddo formalismo degli scritti precedenti. Quest’ode gli procurò notorietà (fu apprezzata anche dal Foscolo)
Rientrato a Milano con “la sua Giulia” per adempiere alle pratiche dell’eredità, una volta risolto l’aspetto burocratico, tornò con lei immediatamente a Parigi, per non dare adito ad ulteriori maligni pettegolezzi nei confronti sia suoi, che della madre. Carlo aveva lasciato a Giulia l’intero suo patrimonio, oltre alla villa di Brusuglio (Cormano-MI), che utilizzeranno, d’ora in poi, come casa di campagna.
A Parigi, grazie alla madre, frequentò ambienti intellettuali degli Idéologues frequentati da personaggi come il filosofo Victor Cousin, lo storico Augustin Thierry, tutta gente di posizioni liberali e forte rigore morale. Il rapporto più importante, però, per Manzoni, fu quello stretto con Claude Fauriel, storico, linguista e critico letterario francese. Attraverso un fitto scambio epistolare durato diversi anni, a poco a poco, questi divenne, per il giovane Alessandro, il suo confidente privilegiato, e importante punto di riferimento nella sua successiva attività di scrittore.
1807 – La morte del padre
Comportamento comunque piuttosto singolare, per non dire ingrato, quello di Alessandro, nei confronti di suo padre . Mentre l’idillio con la madre continuò addirittura per alcuni anni, dimenticò del tutto il genitore legittimo, Pietro, che lo aveva accudito fino allora, quasi non sopportasse più di vederlo, perché mortalmente offeso per qualche tremendo sgarbo subito. [ndr. – Probabilmente, la madre gli avrà confessato la verità sulle sue vere origini]
Era a Brusuglio con lei, ai primi di marzo del ’07, quando ebbe notizia che il padre era in fin di vita. Non solo non si preoccupò minimamente di andare a trovarlo, ma non andò nemmeno al suo funerale, quando, pochi giorni dopo, ebbe notizia della sua morte. Addirittura fece scomodare il notaio che dovette andare in villa a Brusuglio per leggergli il testamento del padre, che lo nominava erede universale del suo patrimonio. [A Giulia aveva invece lasciato due collane di diamanti in segno della sua stima nei suoi confronti, nonostante quanto era successo fra loro].
1808 – Il matrimonio con “l’angelica creatura”
Originale pure il fatto che fu la madre, ad interessarsi per trovargli moglie: lui da solo non l’avrebbe mai cercata! Andate a vuoto alcune opportunità con Luigina Visconti e con la giovane figlia dell’amico Destutt de Tracy, Giiulia, vivendo a Parigi, aveva avuto modo di conoscere Charlotte Blondel parente della famiglia di un ricco banchiere svizzero, François-Louis Blondel, residente a Milano a Palazzo Imbonati, in via Marino.
La figlia sedicenne Enrichetta avrebbe potuto essere un ottimo partito per Alessandro, allora, ventiduenne. Così, tornata a Milano col figlio, Giulia. tramite Charlotte, conobbe la famiglia Blondel e organizzò un incontro a Blevio per far conoscere i ragazzi. Enrichetta e Alessandro, s’innamorarono quasi subito e decisero di sposarsi. Piccolo dettaglio: lui, battezzato cattolico, era diventato praticamente agnostico, lei battezzata cattolica, era diventata una convinta calvinista di rito evangelico . Dopo qualche mese dal primo incontro, il 6 febbraio 1808, si sposarono civilmente in Municipio e, subito dopo, con rito calvinista, in via Tommaso Marino, a casa dei Blondel. Questo scatenò la riprovazione dell’intera città.
In viaggio di nozze sul lago di Como, andarono “naturalmente” in tre! Enrichetta, Alessandro e “la sua Giulia”!
Nel giugno del 1808 i Manzoni ripartirono per Parigi. Naturalmente, sempre con la madre di lui, al seguito! Si stabilirono al numero 22 del Boulevard des Bains Chinois, a Parigi. Simpatico questo flash su Enrichetta e la suocera (descritto da qualche amico comune);
«è bionda, mite e graziosa, tanto discreta e pronta a nascondersi, quanto la madre di Manzoni era teatrale: tanto ordinata e precisa, quanto la madre si abbandonava a un geniale disordine».
Per Enrichetta, Giulia, ‘suocera pericolosa’
Alessandro, dopo il matrimonio, continuava ad essere innamorato più della madre, che della moglie. Probabilmente per la giovane, educata secondo le rigide regole calviniste, l’amore verso il marito, non era altro che pura devozione. Debole di carattere, accettò passivamente la situazione e le continue pesanti ingerenze della suocera, decisamente un po’ troppo invadente. Non riuscì nemmeno a ribellarsi quando, a Parigi, nata la prima figlia il 23 dicembre 1808, e chiamata ‘ovviamente’ Giulia Claudia per compiacere la suocera, quest’ultima pretese che la neonata fosse battezzata con rito cattolico, sciorinando sotto gli occhi della nuora, il contratto matrimoniale da lei firmato, secondo il quale, “i figli nati dalla loro unione sarebbero stati allevati nel culto della religione cattolica”.
Tornati tutti in Italia, fu, giocando sulla remissività della giovane sposa, che Giulia riuscì, sottacendo il suo disegno anche al figlio, a portare a termine il suo non facile proposito. Preoccupata infatti del clima ostile che Milano aveva manifestato nel confronto dei due giovani per il matrimonio calvinista, si rese conto che, vivendo a Milano, poteva essere in gioco il futuro del figlio.
La conversione al cattolicesimo
Cominciò a ‘lavorarsi’ la nuora, proponendosi la sua conversione al cattolicesimo. Compito questo, per nulla facile! Ricorse, all’aiuto di un amico abate genovese Eustachio Degola, che, allo scopo, invitò a venire ad abitare da loro. Essendo lui giansenista, era abbastanza vicino ai protestanti. Tanto fecero sia lei che l’abate, che, nel giro di un anno, facendole un autentico lavaggio del cervello, riuscìrono, con riflessioni e discussioni mirate, a fare rientrare la giovane nel loro disegno, facendole abiurare il calvinismo, e convertendola alla nuova religione. L’abiura, poi, fu sottoscritta in un atto ufficiale il 3 maggio 1810 e celebrata solennemente a Parigi,il 22 maggio nella Chiesa di Saint-Séverin, alla presenza del circolo giansenista e dell’abate Degola.
Per Enrichetta, la cosa fu molto difficile da digerire, perché da brava calvinista, aveva una coscienza religiosa molto radicata. L’auto-convincimento che l’abiurare il calvinismo a favore del cattolicesimo fosse stata realmente una scelta giusta, la lasciò a lungo moralmente interdetta e turbata, anche perché la cosa avrebbe comportato per lei, con tutta probabilità, la rottura dei rapporti con i suoi stessi genitori.
Alle pacate riflessioni, in cui le domande di Enrichetta, testimoni di una sua sincera volontà di trovare il vero Dio, erano costantemente avvalorate dalle sapienti risposte dell’abate , non fu estraneo lo stesso Manzoni. Alessandro, che inizialmente era rimasto a margini di queste riflessioni, cominciò, man mano, a partecipare pure lui, attivamente, ai colloqui con Degola e a fare domande. Realizzò inconsapevolmente che le risposte dell’abate ai suoi quesiti, stavano smontando una ad una, le convinzioni in materia religiosa, che precedentemente lo avevano allontanato dalla Chiesa.
La supplica a Pio VII
Dopo il battesimo cattolico di Giulia Claudia nell’agosto del 1809, Alessandro, d’accordo con Enrichetta, indirizzò una supplica a papa Pio VII, affinché, per rendere tranquilla la propria coscienza, «pentito del fallo commesso», l’autorità pontificia concedesse la possibilità di celebrare nuovamente il matrimonio, questa volta secondo il rito cattolico. Il benestare da parte della Sacra Rota, arrivò quello stesso novembre.
1810 – Il matrimonio religioso
Il matrimonio religioso si celebrò a Milano, il 15 febbraio 1810. Giulia invitò come testimone alle nozze, Ferdinando Marescalchi, l’ambasciatore del Regno Italico a Parigi, in modo che la cosa avesse la giusta risonanza in città. ‘Le pecorelle smarrite erano tornate all’ovile!’
Il miracolo di san Rocco
Varie leggende ruotano intorno alla conversione del Manzoni:
Una di queste è il cosiddetto “miracolo di San Rocco”.
Il 2 aprile 1810, durante i festeggiamenti per le nozze di Napoleone e Maria Luisa d’Austria, erano in piazza, assieme alla folla festante, sia Alessandro che,Enrichetta. Ad un certo punto, esplosero dei mortaretti. La folla che riempiva le strade, presa dal panico per gli scoppi imprevisti, si dette alla fuga separando nella ressa, Enrichetta da Alessandro. Quest’ultimo, sospinto dalla folla che scappava, perse di vista la moglie e si ritrovò sui gradini della Chiesa di San Rocco, in rue Saint-Honoré. Si rifugiò in essa. Nel silenzio e nella serenità di quel tempio, egli implorò la grazia di ritrovare la consorte. All’uscita, convertito, la ritrovò incolume e poté riabbracciarla.
Una seconda versione, riportata dallo scrittore e giornalista Giulio Carcano, racconta invece di un Manzoni che, frustrato e assillato da dubbi spirituali, si sarebbe recato in San Rocco gridando: «O Dio! Se tu esisti, rivelati a me!», uscendone poi, credente.
Molti amici e conoscenti chiederanno al Manzoni, lungo l’arco della sua esistenza, quale sia stato il momento della “folgorazione”, l’attimo decisivo in cui decise di recuperare la fede. Lui non diede mai una risposta, al massimo si lasciò andare a frasi sibilline: «È stata la grazia di Dio, mio caro, è stata la grazia di Dio»
Non è dato sapere quindi se effettivamente abbia ritrovato la fede, raggiungendo la serenità del vero credente. Più probabilmente, fu dominato dal timor di Dio e da un certo rigore morale, cui era rimasto estraneo sino ad allora.
Dopo il trauma subito a Parigi, il sistema nervoso molto fragile di Alessandro, manifestò forme acute di agorafobia, per cui gli sposi e Giulia decisero di rientrare definitivamente in Italia.
Sulla via del ritorno a Brusuglio, Alessandro e moglie resero visita ai genitori di lei, furibondi per l’abiura della loro figlia. Al Manzoni, non rivolsero nemmeno la parola!. Giulia, in odore di burrasca, si era prudentemente defilata, anticipando l’arrivo dei giovani nella loro villa di campagna.
Il risentimento dei Blondel nei confronti della figlia non diminuì con il passare degli anni!
Le ‘opere’ della conversione
Fu in quel periodo che, cominciando a frequentare padre Luigi Tosi (parroco di Brusuglio – la nuova guida spirituale della coppia), dopo aver proposto la sua idea, Alessandro decise di mettere la propria penna al servizio della Chiesa, cominciando a scrivere gli Inni sacri. Si sarebbe dovuto trattare di una raccolta in versi, di dodici componimenti, ma ne scrisse solo cinque, (oltre ad un sesto, rimasto incompiuto). Furono composti tra il ’12 e il ’22, come frutto letterario della sua conversione. ll tema centrale di ogni Inno, coincide con una delle principali festività cattoliche: La Resurrezione, Il nome di Maria. Il Natale, La Passione, La Pentecoste, Ognissanti (rimasto incompleto). Il Manzoni prese come fonti d’ispirazione e come modelli, non solo la Bibbia, ma anche gli scritti dei padri della Chiesa e degli oratori cattolici francesi del 1600.
Come opera in prosa di questo periodo, Le Osservazioni sulla morale cattolica. Ma questo fu un lavoro fatto con difficoltà, perché i tempi della prosa non erano ancora maturi, e si sentiva molto più ispirato dalla poesia .
1813 – L’acquisto della casa di via Morone
Dopo il ritorno da Parigi, I Manzoni abitarono per quasi due anni in via S. Vito al Carrobbio, prima di trasferirsi nella dimora di via Brera, di proprietà della famiglia Beccaria. Il 2 Ottobre 1813, Manzoni, acquistò la storica dimora (oggi museo), sita al num. 1171 di via Gerolamo Morone, da tal Alberico De Felber che gliela vendette per centoseimila lire. Comprendeva l’edificio attuale oltre al un giardino sul retro. Il Manzoni gliela pagò con il denaro dell’eredità del padre di Enrichetta, morto l’anno precedente. Fece fare subito importanti lavori di ristrutturazione dell’edificio con il rifacimento della facciata verso piazza Belgioioso. Il trasferimento nella nuova casa, avvenne nel febbraio del 1814, a completamento dei lavori. Poichè, a tempo perso, Alessandro si dilettava di botanica e giardinaggio, l’esistenza del giardino sul retro dell’edificio, fu sicuramente una delle ragioni che determinarono l’acquisto del palazzo. Infatti essendo stato sempre abituato a vivere in mezzo al verde, il giardino privato della nuova dimora, gli consentiva di dar libero sfogo alla sua passione. Una lapide riporta la descrizione che lui fece del nuovo giardino, in una missiva che scrisse, di suo pugno, al suo confidente amico Claude Fauriel, a Parigi
Casa Manzoni – via Morone 1 Milano Giardino di Casa Manzoni in via Morone Lapide messaggio di Manzoni scritto a C. Fauriel all’ingresso del giardino di Casa Manzoni
Il num. 1171 è il numero teresiano attribuito alla casa, sotto l’Amministrazione austriaca, fino al 1860. Attualmente la stessa casa ha, come num. civico, il n. 1
Leggi numerazione teresiana
1814 – Il delitto Prina
Mentre Manzoni elaborava gli Inni Sacri, la situazione politica italiana e internazionale si stava velocemente deteriorando. Napoleone, fortemente in crisi dopo la disastrosa campagna di Russia del 1812, subiva un’altra cocente sconfitta nella battaglia di Lipsia del 1813. Uno dopo l’altro, gli Stati satelliti francesi, tra cui il Regno d’Italia, caddero sotto i colpi della coalizione austro-russa, obbligando Eugenio di Beauharnais a fuggire da Milano, lasciando che, dopo vent’anni di assenza, gli austriaci rientrassero in Lombardia. Era la iniziata la Restaurazione.
Al solito, per carattere, il Manzoni non amava immischiarsi in politica e si teneva in disparte, sia perché indifferente al succedersi degli eventi, sia per obiettiva prudenza, sapendo benissimo che la repressione austriaca non si sarebbe fatta attendere e non avrebbe guardato in faccia nessuno. Era a casa sua in via del Morone quel 20 aprile … vide passare sotto le finestre di casa, un folto gruppo di scalmanati che, urlando improperi , trascinava per strada, colpendolo con gli ombrelli, il corpo nudo martoriato e sfigurato di un uomo, defenestrato poco prima, dal secondo piano del palazzo Sannazzari in Piazza san Fedele.
La scena lo sconvolse al punto che, cadde svenuto sulla poltrona, rimanendo parecchi giorni in stato di semi-incoscienza. Apprenderà poi, che il corpo di quell’uomo, preso di mira dalla folla inferocita, era stato quello del conte Giuseppe Prina, ministro delle finanze del Regno d’Italia. Da quel trauma, non riuscì più a risollevarsi completamente. Appena fu in grado, scappò dalla città, andando a rifugiarsi in villa a Brusuglio. Odiava la violenza in tutte le sue forme.
Nonostante cercasse di temersi alla larga dagli eventi politici di quel periodo, non riuscì a sfuggire dall’emozione collettiva che suscitò la notizia della fuga di Napoleone dall’Elba e il suo avventuroso ritorno al trono. Ne rimase colpito ed emozionato allo stesso tempo. Con questo stato d’animo, seguì le vicende di Murat in marcia verso la Lombardia e lesse l’appello da lui fatto agli italiani. Interruppe la stesura della tragedia il Conte di Carmagnola su cui stava lavorando, e si mise a scrivere Il proclama di Rimini. Le notizie sul fronte della guerra, volsero però a sfavore dei Francesi: Napoleone battuto a Waterloo e Murat pure, a Occhiobello e Tolentino. Il Manzoni non solo rinunciò a pubblicare Il proclama di Rimini , ma, per paura di perquisizioni austriache, addirittura non volle nemmeno tenerlo in casa, affidandolo in mani sicure, all’amico Visconti, affinché lo tenesse in cassaforte, in attesa di pubblicarlo in tempi migliori. Stressato da questi eventi, ebbe uno svenimento visitando una libreria, e picchiando duramente la testa. Probabilmente era conseguenza di un attacco di epilessia, cui ogni tanto andava soggetto..
1821 – Un marzo turbolento
Anno denso di eventi: I moti Carbonari
Manzoni compose l’ode Marzo 1821 sull’onda dell’illusione, subito delusa, che fosse imminente la liberazione della Lombardia dagli austriaci: infatti la speranza di un intervento di Carlo Alberto, l’erede al trono sabaudo, e simpatizzante per la carboneria, rimase tale perché non fornì alcun aiuto a fianco degli insorti di Milano. Ne seguì una dura repressione da parte degli austriaci. L’ode prudenzialmente non venne pubblicata subito ma appena nel 1848.
Stava lavorando su una tragedia, l’Adelchi, quando gli giunse notizia della morte di Napoleone. Lui era sempre stato un grande ammiratore del Condottiero, apprezzandolo più dal lato umano, che politico. Interruppe l’Adelchi per scrivere di getto il famoso inno in morte di Napoleone, il “5 Maggio”. Tornò quindi all’Adelchi.
Essendo un soggetto molto scrupoloso, e trattandosi di una tragedia, andò a scartabellare su libri vari, a caccia della documentazione che gli serviva, per la sua tragedia.
L’idea del “romanzo storico“
Come spesso accade, tutto nacque per caso. Sfogliando gli Annali d’Italia di Ludovico Antonio Muratori, per trovare le informazioni di cui aveva bisogno, gli capitò sott’occhio, una sentenza di un tribunale del Seicento, che comminava pene severe a un parroco, che si era rifiutato di celebrare un matrimonio. L’episodio gli fece venire in mente l’Ivanoè di Walter Scott che aveva già letto a Parigi, come prototipo di “romanzo storico”. L’idea di provare a scrivere lui stesso un romanzo storico, gli venne, consultando poi le Historiarum Ecclesiae Mediolanensis di Giuseppe Ripamonti, dove trovò riportata la vicenda di suor Virginia di Leyva, al secolo Marianna (de Leyva), cioè la monaca di Monza che, all’epoca, fece molto scalpore. Manzoni cominciò a scrivere due capitoli, il curato e Fermo, oltre ad una introduzione. Ovviamente si trattava di don Abbondio e di Fermo (Renzo). Poi continuò la stesura della storia. Ma la cosa non lo convinse per nulla, non sentendosi tagliato per quel tipo di lavoro. I capitoli mal si legavano fra loro. La prima stesura fu Fermo e Lucia. A detta dello stesso autore, era un «composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine». Ma ci vollero almeno cinque anni perché, fra una modifica e l’altra, diventasse nel ’27 gli Sposi promessi (chiamata anche Ventisettana). Cambiò l’intreccio, il nome dei protagonisti, la storia venne arricchita con la descrizione di fatti di cronaca realmente avvenuti, il linguaggio, ripulito dai francesismi, fu reso più toscaneggiante. Ma non era ancora quello che voleva lui…. L versione definitiva arrivò appena nel ’40, dopo altri anni di “fa e disfa”, col titolo de I Promessi sposi, (o Quarantana) che tutti oggi conosciamo.
Come mai tanti anni ‘persi’ per scrivere un solo romanzo?
La questione della lingua
Trama a parte, il vero problema del romanzo che tormentava il Manzoni, era la lingua. Nel Seicento, (il periodo storico in cui lui ambientò il romanzo), la lingua ufficiale della Chiesa e dell’amministrazione della Giustizia, era ancora il latino, usato solo dai ‘dotti’, mentre la lingua parlata del popolo era totalmente diversa (il dialetto locale). L’italiano era una lingua in second’ordine, derivata certamente dal latino, ma quasi dimenticata. La lingua, per essere viva, dev’essere usata, come patrimonio di tutto il Paese, non come monopolio di pochi. A differenza di altre Nazioni, la cultura in Italia, vuoi per la sua storia, vuoi per il frazionamento geografico in tanti staterelli governati dai potenti di mezza Europa, non era al servizio della società, ma unicamente al servizio del potere o di se stessa. Il latino, come lingua parlata, resisteva solo fra gli intellettuali o come strumento di comunicazione ufficiale fra le diplomazie di Stati diversi. L’italiano veniva, sì, insegnato a chi sapeva leggere, ma alla stessa stregua del latino, cioè come lingua morta. Non usandolo, non serviva a nulla. L’enorme divario fra la lingua degli intellettuali e la lingua spicciola parlata dal popolo, creava naturalmente problemi di incomprensione e di incomunicabilità.
Chi avrebbe letto questo romanzo?
In seguito a queste considerazioni, quanti sarebbero stati in grado di leggere quel romanzo? Sarebbe stato preferibile scriverlo in lingua forbita solo per pochi, oppure era giusto che chiunque sapesse leggere, dovesse poterlo leggere, comprendendo quanto vi era scritto? Ma dove trovare una lingua semplice e discorsiva comprensibile a tutti? Come ridurre questo divario incolmabile?
uIndeciso sul da farsi, si consigliò naturalmente con Fauriel e gli altri suoi amici intellettuali. Fece loro leggere i suoi elaborati, man mano che scriveva nuovi capitoli. Li analizzarono insieme, ne discussero lungamente, e, facendo tesoro dei loro consigli, annotò sui suoi manoscritti, i vari suggerimenti. Gli balenò addirittura l’idea di scriverlo in francese, dove la differenza fra la lingua dotta e quella del popolo, era meno marcata. Avrebbe impiegato indubbiamente molto meno tempo, tuttavia per fortuna il suo confidente Claude Fauriel lo sconsigliò, come pure non condivise l’altra idea, di una stesura del romanzo in dialetto lombardo.
C’era anche un problema di credibilità. Anche se la storia era ambientata nel XVII sec, nel romanzo, le frasi messe in bocca al Cardinale Borromeo, dovevano essere comprensibili tanto a un povero cappuccino, come fra Cristoforo, quanto a un contadino ignorante, come Renzo. Questo era il vero problema che lo assillava! Perché il romanzo potesse essere letto da tutti non restava che ‘inventare’ una lingua semplice, piana, discorsiva che tutti potessero capire. Cioè alla fin fine, l’idea era quella di scrivere così come si parlava o, di parlare, così come si scriveva.
1827 – Il viaggio a Firenze
Fu allora che il Manzoni ebbe l’idea di andare a Firenze, la culla della lingua italiana per eccellenza, per cercare lì, il modello di una lingua che, nel suo vocabolario, aveva ridotto ben più che altrove, il divario fra lingua dotta e lingua parlata. Registrava tutto, ogni battuta, ogni modo di dire, confondendo, a volte, l’italiano col fiorentino. Da introverso come era sempre stato, improvvisamente era diventato brioso, loquace! Fermava la gente per strada, chiedeva, s’informava, prendeva appunti sul significato di modi di dire, gioiva quando sentiva in bocca all’intellettuale, le stesse parole che aveva udito poco prima, da uno stalliere. Questa era la lingua che lui cercava!
Tornato quindi a Milano, si mise con nuova lena, nelle successive edizioni, a fare e disfare interi capitoli del suo romanzo, alla luce degli appunti presi a Firenze. Addirittura assunse una domestica toscana … per orecchiare meglio la sua parlata. Andò avanti a rivedere il testo fino al 1840. Nonostante le varie revisioni, gli scappò anche qualche piccolo errore che i puristi, oggi, non gli perdonano ancora. Fanno infatti sorridere a volte, leggendo le sue correzioni, delle improbabili espressioni toscaneggianti, in bocca ad umili contadini brianzoli. Aveva scambiato qualche espressione tipicamente fiorentina, per puro italiano! Errare humanum est!
Romanzo ‘incompreso’ (dalla censura)
Il motivo per cui i Promessi Sposi furono considerati il più grande evento di questo periodo, e non solo dal punto di vista letterario, è abbastanza evidente:
La censura austriaca, filtrando qualunque messaggio, fosse esso sospetto o meno, ottusa al pari di tutte le censure, non si era resa assolutamente conto della bomba che, con questo scritto, le stava scoppiando fra le mani! La trama era solo il raccontino di facciata, anche se di cronaca vissuta. Ma cosa c’era dietro? Qual’era il messaggio? Per nostra fortuna, lo liquidò reputando che fosse innocuo, perché raccontava vicende accadute nel Seicento, in periodo di dominazione spagnola. Quindi gli austriaci non ne erano coinvolti. Non aveva capito invece quanto fosse rivoluzionario quel romanzo che, col suo linguaggio semplice e discorsivo, per la prima volta nella storia d’Italia, rompeva quel muro d’incomunicabilità fra ceti sociali diversi e addirittura, fra Stati italiani diversi. Ecco per qual motivo il Manzoni viene definito uno dei “padri della patria”, il renitente alla leva, che, senza colpo ferire, fu uno dei più grandi artefici del Risorgimento italiano.
1833 – La morte di Enrichetta
Quando accadde, quel giorno di Natale del 1833, fu sicuramente per il Manzoni, un colpo durissimo. Era ancora nel fiore della vita, aveva solo quarantadue anni. Lo avevano avvisato di usare con lei maggior moderazione. Era un tipino minuto, fragile. Sfiancata dalla tisi e dalle troppe gravidanze (10 figli), Enrichetta era troppo debilitata e diventata quasi cieca. Per tre giorni, la salma fu visitata e vegliata dalle persone care, oltre che da una folla numerosa che si recò a rivolgerle l’ultimo saluto. Le esequie ebbero luogo il 27 dicembre, nella chiesa di San Fedele. A Giulia Beccaria toccò informare la piccola Vittoria, ancora a Lodi, ed è grazie alla sua missiva del 31 dicembre se disponiamo di un resoconto degli ultimi momenti di Enrichetta, che «passò il giorno fino a sera in una dolce agonia, sempre pregando, presente a sé stessa»
Lo strazio di Alessandro Manzoni fu tale che non gli riuscì mai di completare l’ode che si era accinto a scrivere per la morte della moglie, intitolata Il Natale del 1833, ode che infatti ci è giunta solo in frammenti carichi di dolore e angoscia.
1837 – Il matrimonio con Teresa
Dopo la morte di Enrichetta , Alessandro Manzoni, distrutto dal dolore, si era chiuso in sé stesso, sprofondando nella malinconia. Comprendendo che non era fatto per rimanere solo, i suoi amici più intimi cominciarono a darsi da fare, per trovargli una moglie. Alla fine, fu Tommaso Grossi, lo scrittore che viveva in casa Manzoni, a presentargli Teresa Borri, giovane vedova del conte Stefano Decio Stampa, morto di tubercolosi, a un anno dal matrimonio.
Alessandro e Teresa, si piacquero subito: e poco dopo, lui le propose il matrimonio. Dopo un’esitazione iniziale, Teresa accettò: lei aveva un’autentica venerazione per l’autore de I Promessi sposi . Le nozze furono celebrate il 2 gennaio 1837: Alessandro aveva 51 anni, Teresa 37. La neo-moglie si trasferì in via Morone, nel palazzo Manzoni, insieme al figlio Giuseppe Stefano, avuto dal primo marito.
Il rapporto di coppia Alessandro-Teresa funzionò bene: lei, forse più innamorata dello scrittore che non dell’uomo, considerava un onore essere sua moglie. Ad ogni modo fu sempre, per lui, una consorte devota e affettuosa. Aveva inoltre una qualità rara: sapeva ascoltarlo quando lui le parlava di Enrichetta, la donna che non avrebbe mai dimenticato. L’aspetto purtroppo negativo, era il suo difficile rapporto in casa con i numerosi altri componenti della famiglia: oltre alla suocera ormai ottantenne, i sette figli viventi di Alessandro. Gli altri tre erano morti bambini
A differenza di Enrichetta, Teresa era dotata di una forte personalità e di una buona cultura letteraria. Proprio, infatti, per il suo carattere forte, entrò presto in conflitto con la suocera Giulia, dimostrandosi molto refrattaria nel concederle quel ruolo di “motore della famiglia” che aveva detenuto sino ad allora. Comunque durò poco, perché, afflitta da disturbi nervosi, Giulia morì nel luglio del 1841, alla soglia degli ottant’anni. (Attualmente riposa nel cimitero di Brusuglio, nella stessa tomba ove si trovano le spoglie di Enrichetta)
Quanto ai figli di Alessandro, li accettò ma non dimostrò mai affetto nei loro confronti, trattandoli con indifferenza. Litigò persino con lo stesso Tommaso Grossi, che le aveva fatto conoscere Alessandro.. “Pro bono pacis”, il Grossi preferì abbandonare il campo, lasciando il palazzo di via Morone dove abitava da più di vent’anni[
Quanto al Manzoni, completata l’ultima versione de I Promessi Sposi, cui dedicò quasi vent’anni della sua vita, dopo il ’40 non scrisse più nulla di particolarmente importante. Aveva esaurito la sua vena creativa. In quegli anni invece, a partire dal ’44, cominciò a frequentare il salotto letterario che Clara Maffei aveva aperto, proprio in piazza Belgioioso, a due passi da casa sua.
1848 – L’arresto del figlio Filippo
La decisione del Manzoni di far stampare l’ode Marzo 1821 e Il Proclama di Rimini, scattò come reazione all’arresto e alla deportazione a Kufstein del figlio Filippo che aveva partecipato alle famose Cinque Giornate di Milano. Al ritorno degli Austriaci in città, credette prudente lasciare Milano per Lesa, località sulla sponda piemontese del Lago Maggiore. Teresa e lui, per oltre due anni, furono ospiti nella villa di di Stefano Stampa, (il figlio di Teresa). Il lungo soggiorno, consentì ad Alessandro, di approfondire l’amicizia col filosofo teologo Antonio Rosmini, conosciuto a Milano nel ’26,
1860 – Nomina a Senatore
Nel 1860, Manzoni fu fatto senatore del Regno di Sardegna dal re Vittorio Emanuele II, dietro la proposta di Camillo Cavour. A Torino partecipò, il 26 febbraio 1861, alla seduta del Senato che conferiva a Vittorio Emanuele II, il titolo di Re d’Italia., il disegno di legge passò alla Camera il 14 marzo e ne fu relatore il genero dello scrittore, Giovan Battista Giorgini (marito di Vittoria, l’ottava figlia di Alessandro Manzoni)..
1861 – La morte di Teresa
Nel settembre del ’44, Teresa si ammalò; le fu diagnosticato un tumore all’addome. Nonostante le cure, il tumore progrediva. Nella notte tra il 7 e l’8 Febbraio del ’45 fu colta da atroci dolori (secondo i medici era il tumore che stava scoppiando!),…e ad un tratto si accorsero che aveva le doglie!! Nacquero due gemelle, di cui una già morta; l’altra sopravvisse solo poche ore.
Comunque da quel momento, la sua salute iniziò lentamente a peggiorare. Si sentiva male di frequente, manifestando fenomeni di ipocondria sempre più insistenti. Nella primavera del ’58, Teresa si ammalò veramente. Da anni faceva vita da quasi inferma, aveva quattro cameriere che si occupavano solo di lei, ma da allora in poi, iniziò a camminare sempre peggio, ad aver bisogno della sedia a rotelle, ad avere decubiti e una lunga serie di disturbi collaterali. Durò tre anni, questo lento, continuo peggioramento. Nell’estate del ’61 Teresa sembrava stare un po’ meglio; il Manzoni era andato a Brusuglio, nella sua casa di campagna. Il 23 di Agosto, Teresa, che era rimasta a Milano, morì. Alla notizia della sua morte Alessandro tornò a Milano, si inginocchiò davanti a lei, e poi ritornò a Brusuglio.
1873 – La morte del Manzoni
Alessandro Manzoni, nel gennaio di quell’anno, uscendo dalla chiesa di San Fedele, dopo la funzione, scivolò inavvertitamente su un crostello di ghiaccio sulle scale del sagrato, battendo violentemente la testa, Da quel trauma cranico non si risollevò più, pur restando lucidissimo sino alla fine.
Morì qualche mese dopo, di meningite contratta a seguito del trauma, il 22 maggio 1873, dopo una penosa agonia, quasi un mese dopo la morte del figlio Pietro.
I suoi funerali furono un momento solenne a cui partecipò tutta Milano. La sua salma fu esposta in Sala Alessi, a Palazzo Marino, per l’ultimo tributo dei milanesi. Il corteo funebre, con la partecipazione del principe ereditario Umberto, attraversò corso Vittorio Emanuele, giungendo sino al Cimitero Monumentale. Fu sepolto al Famedio.
L’anno successivo, in occasione del primo anniversario della morte, Giuseppe Verdi, che aveva sempre avuto grandissima stima per lui
, gli dedicò la sua Messa di Requiem, che diresse personalmente, la mattina, nella chiesa di San Marco e la stessa sera, al teatro alla Scala.
Attualmente l’area centrale del Famedio, la più importante, è interamente dedicata alla tomba di Alessandro Manzoni. Nel 1958, il suo sarcofago fu innalzato su una base decorata da angeli neri in rilievo, realizzati dalla scultore Giannino Castiglioni.
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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