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Cola Montano, un pezzo di Storia di Milano

Premessa

Non penso di essere il solo ad avere difficoltà a ricordare chi possa essere stato costui, anche perchè non credo di aver mai trovato questo nome riportato nei libri di scuola. D’altra parte, se il Comune di Milano gli ha intitolato addirittura una strada, qualche valido motivo ci deve pur essere, per cui la curiosità mi ha spinto a fare su di lui, qualche ricerca più approfondita.
Per la cronaca, la via in questione si trova nel quartiere Isola. Arrivando in piazza Fidia, provenendo da via Ugo Bassi, la via Cola Montano risulta essere la prima strada a destra, comunque la si guardi.. Si tratta di una lunga via che, al pari della Ugo Bassi, mantiene il medesimo nome anche dopo aver attraversato piazza Fidia.  La targa posta all’angolo di quella via, riporta che Cola Montano era un “filosofo umanista” vissuto nel XV secolo. Detta così, questa precisazione dice ben poco, ma sicuramente quel nome cela qualcosa di più intrigante …..

Chi era Cola Montano

Il suo vero nome era in effetti Nicola Capponi. Cola Montano è solo un appellativo, il modo con cui usava chiamarlo la gente.

A quei tempi, soprattutto nei piccoli paesi, si usavano raramente i veri cognomi, non sempre noti. Era pertanto più semplice attribuire, come elemento distintivo del soggetto, il luogo di provenienza dello stesso. Di Leonardo ad esempio, quasi contemporaneo di Nicola Capponi, nessuno conosceva il cognome effettivo, ma, essendo nato a Vinci, oggi piccolo comune della città metropolitana di Firenze, a tutti era noto come Leonardo ‘da Vinci’. Nel caso di Nicola Capponi, Cola sta naturalmente per Nicola e Montano, da Gaggio Montano, allora piccola borgata montana vicino a Bologna, dov’è nato.

I suoi primi anni

Non ci sono molti riferimenti su di lui. E’ incerta la data della sua nascita, probabilmente fra il 1430 e il 1440. Da alcuni documenti, si conosce solo il nome del padre, tal Morello Capponi, mentre rimane ignoto quello della madre. Si sa ben poco anche della sua infanzia e dei primi studi che, con ogni probabilità, fece a Bologna. Si presume che, per il solo fatto che si firmasse “chierico”, almeno inizialmente, stesse facendo studi classici per poter prendere gli ordini sacerdotali. In realtà non si fece mai prete e si dedicò principalmente all’insegnamento. Le prime notizie certe sul suo conto, risulterebbero da alcuni documenti, che confermerebbero nel 1462, il suo trasferimento a Milano, ove riuscì ad entrare, quasi subito, in contatto con lo scrittore Francesco Filelfo (1398 -1481), il filologo Bonino Mombrizio (1424 – 1478), l’umanista Gabriele Paveri Fontana (1420 – ????), all’epoca i più quotati protagonisti del mondo letterario della città.

La cattedra di latino a Milano

il Duca Galeazzo Maria Sforza, (1444 – 1476), subentrato giovanissimo al potere, alla morte (nel 1466) del padre Francesco, sembra avesse avuto in precedenza rapporti con Cola Montano, in quanto quest’ultimo venne chiamato a Corte dal padre come suo precettore del figlio, evidentemente dopo il 1462. Galeazzo Maria non ebbe quindi difficoltà, conoscendo già le sue capacità,e la sua eloquenza, ad affidargli nel 1468, la cattedra di lingua e lettere latine nella pubblica scuola della città, incarico molto ambito, che servì a conferire cosìparticolare lustro all’ancora poco noto Nicola Capponi. Pare che fra i suoi più brillanti allievi in quei primi anni di scuola, vi fosse il giurista Pietro Grassi, futuro accademico italiano della seconda metà del XV secolo.

Un soggetto “complesso”

Davvero un «maligno e scelerato maestro», dicevano i suoi denigratori. Dotato quasi certamente, dico io, di doppia personalità, se risponde a verità quanto riportato da alcune fonti, secondo le quali, mentre a Milano Cola Montano si presentava come “il colto e raffinato umanista che insegnava lettere latine”, quando rientrava nella sua nativa Gaggio, quasi a scrollarsi di dosso quella patina di perbenismo, il Montano professore, si trasformava in feroce capobanda di soldati di ventura, che terrorizzando la gente con le sue incursioni, s’impadroniva con la violenza delle loro terre e dei loro prodotti agricoli, entrando spesso, per questo, in conflitto con la giustizia di Bologna. 

L’arte della stampa

E’ proprio di quegli anni l’invenzione della stampa, destinata a rivoluzionare la diffusione della cultura, cosa questa, che avverrà compiutamente nei secoli successivi. Si era naturalmente ai primordi della stampa a caratteri mobili, rendendo finalmente possibile la riproduzione di testi in modo veloce ed economico. La cultura, e quindi anche il saper leggere e comprendere i testi, a quei tempi, erano privilegi riservati a pochissimi eletti. Cola Montano, rimasto affascinato dalle prime pubblicazioni, fu uno dei più ferventi promotori di questa nuova forma d’arte.

Ndr. – l’orafo Johann Gutenberg, pochi anni prima, inventata la stampa, nel febbraio 1455, aveva pubblicato la Bibbia a 42 linee per pagina. Essa si compone di due volumi in “folio” di 322 e 319 fogli (per un totale di 641 fogli, ovvero 1282 pagine). Riproduce il testo della Vulgata, la bibbia latina tradotta da san Gerolamo nel V secolo: l’Antico Testamento occupa il primo volume e una parte del secondo, che contiene anche tutto il Nuovo Testamento. Per la sua stampa ci fu necessità di 290 tipi di caratteri tipografici diversi. Si trattava dei primi caratteri tipografici latini mai realizzati

La bibbia di Gutemberg (1455)

Montano, socio di due tipografie

Vedendo in tale nuovo contesto, consistenti possibilità di guadagno, Cola Montano, unitamente all’umanista Gabriele Paveri Fontana, al sacerdote Gabriele Orsoni e ai fratelli Pietro Antonio e Niccolò Castiglioni fondarono, nel maggio 1472, due società assieme al tipografo milanese Antonio Zarotto: l’una rivolta alla stampa di edizioni umanistiche, l’altra, alla produzione di libri di diritto e di medicina.

Ndr. – Antonio Zarotto, fu il primo in Italia a pubblicare ben 176 edizioni di classici latini, oltre alle edizioni italiane del Decamerone  del Boccaccio (1476) e del Canzoniere del Petrarca (1494).

Marca tipografica di Antonio Zarotto

Il sodalizio non durò nemmeno un anno

Sebbene le due tipografie, già nei primi nove mesi di esercizio, cominciassero a dare qualche concreto risultato anche in termini economici, come la pubblicazione di un’edizione delle Partitiones oratoriae di Cicerone, curata da Paveri Fontana e uscita entro la fine del 1472, le società dovettero esser sciolte pochi mesi dopo, più o meno in coincidenza con la decisione dei soci, di espellere Cola Montano dalla compagine.

La motivazione che dette origine agli attriti fra i soci, fu sicuramente imputabile alle intemperanze caratteriali del Montano, forse poco interessato al tipo di pubblicazioni che le tipografie stavano producendo in quel periodo. Più plausibile e giustificata appare l’ipotesi che, invidioso del prestigio che il Paveri Fontana si era guadagnato presso gli Sforza, con quella pubblicazione da lui curata, avesse scritto e pubblicato degli epigrammi in versi, pesantemente denigratori nei confronti del Paveri Fontana. Questo gli costò una denuncia da parte dell’interessato, che gli intentò causa per diffamazione, dando così avvio ad un processo che si sarebbe concluso con l’incarcerazione del calunniatore.

Questi eventi, in ogni caso, segnarono per il Montano, la fine dell’esperienza societaria sopra richiamata.

Galeazzo Maria Sforza (1444-1467)
Galeazzo Maria Sforza (1444-1476)

I malumori del popolo e dell’aristocrazia nei confronti del nuovo Duca

Indubbiamente fin dai primi anni di governo di Galeazzo Maria, anche se contornato da fidatissimi ed esperti consiglieri, la situazione politica di Milano, era andata via via deteriorandosi. Ben lungi dall’incarnare la moderazione, la gentilezza e la temperanza dei suoi genitori nell’esercizio del potere, Galeazzo Maria dimostrò, fin da subito, di possedere sì, un carattere volitivo e testardo, ma con tratti di sadismo, brutalità e superbia. Insistendo nel voler agire di testa propria, nonostante il parere contrario dei suoi esperti e fidati collaboratori (Cicco Simonetta in primis), si era già inimicato gran parte della popolazione, da quando aveva sdegnosamente rifiutato la co-reggenza con la madre Bianca Maria Visconti, che per anni, in assenza del marito, aveva retto egregiamente le sorti del Ducato. Né lo aveva messo in miglior luce di fronte alla nobiltà milanese, il matrimonio, fortemente osteggiato dalla madre, che lui per pura convenienza economica, aveva deciso di fare per procura (tramite il fratello Tristano) con Bona, figlia del Duca Ludovico di Savoia, casata storicamente nemica giurata di Milano. Anzi, perché la madre non continuasse ad interferire nei suoi disegni, aveva provveduto a cacciarla da Palazzo, relegandola, per il resto dei suoi giorni, nei suoi possedimenti di Cremona. Nonostante questo, non si può dire che il suo operato sia stato del tutto negativo: con le somme portate, con la dote della moglie, alle casse del Ducato, si circondò di grande lusso ed avviò dei lavori di abbellimento nel Castello Sforzesco. Avviò inoltre i lavori  per consentire la navigazione del Naviglio della Martesana, introdusse il censimento civile e riorganizzò la Zecca di Milano.
La reputazione del Duca venne pesantemente compromessa dalla relazione, nel 1474, con l’amante Lucia Marliani (da tre anni moglie del conte Ambrogio Raverti). Lei divenne una “duchessa ombra”, ottenendo da lui tutte le rendite della navigazione della Martesana, il ricco feudo di Melzo e Gorgonzola, oltre a molti gioielli e pietre preziose quale parte, si disse, di un contratto mai ritrovato, che lo stesso Duca avrebbe siglato col marito della Marliani. In base ad esso, essendosi il conte Raverti jmpegnato a non avere rapporti con la moglie, lasciando campo libero al Duca, Galeazzo Maria gli ricambiò il favore, nominandolo podestà di Como e Capitano di Giustizia a Milano. Naturali quindi le gelosie interne alla Corte ed i malumori negli ambienti aristocratici. A chi osava opporvisi, Galeazzo rispondeva con la forza e con punizioni crudeli.
Anche i numerosi fallimenti in politica estera (i tentativi falliti o comunque incompiuti contro Venezia, Ferrara e Imola), contribuirono s renderlo sempre più inviso alla gente, per il carattere via via più autoritario ed assolutistico, che la sua reggenza stava assumendo.

Cola Montano portavoce del malcontento popolare

In questo clima politico, il Montano, interpretando i sentimenti della gente, divenne il portavoce del malcontento generale e il sostenitore della restaurazione dell’antica virtù romana, facendosi paladino dell’amore per la libertà e dell’odio nei confronti del tiranno.

E’ indubbio che Cola Montano fosse caratterialmente uno spirito piuttosto irrequieto: non riuscì a lungo a farsi ben volere dallo Sforza. Al posto suo, Gabriele Paveri Fontana, era stato chiamato a Corte per fare da precettore ad Ottaviano, fratello minore di Galeazzo Maria, nonché a Carlo, figlio naturale del duca (avuto dall’amante Lucrezia Landriani). Era pertanto diventato un personaggio importante a Palazzo. Il processo che il Paveri Fontana aveva intentato nei confronti del Montano e la conseguente pena comminata a quest’ultimo, aveva indubbiamente gettato una pesante ombra di discredito su di lui, da parte del Duca.

. Non era tutto: uscito dal carcere dopo aver scontata la pena per il processo intentatogli dal Paveri Fontana, l’anno successivo (1475) venne rinchiuso nuovamente nelle patrie galere, con l’ignominiosa accusa (non è dato sapere quanto fosse fondata) di aver stuprato una giovane donna, cosa questa che gli costò l’esilio dalla città. . Probabilmente sapendo a priori a quale condanna sarebbe andato incontro, non è del tutto escluso che l’abbia fatta di proposito, per avere un alibi inoppugnabile in caso di necessità. Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso e lo estromise definitivamente da Corte. Paolo Giovio (vescovo cattolico, storico,  medico e biografo italiano vissuto in quel periodo) descrivendo questi fatti, parla addirittura di una fustigazione sulla pubblica piazza, che il Montano avrebbe subito per ordine dello Sforza.

Probabilmente, a causa di tutti questi motivi, Cola Montano, ritenendosi perseguitato dagli Sforza, si offese mortalmente col Duca e se la legò al dito, attendendo il momento buono per fargliela pagare a caro prezzo e maturando l’idea dell’attentato.

Qualcuno lo definì «quello che fece il tractato de la morte dil duca de Millano» Galeazzo Maria Sforza. Non mi risulta abbia scritto alcun “tractato” in proposito, è comunque certo che sicuramente covò, nei suoi confronti, progetti di morte. Un aforisma antico che si fa risalire addirittura ad Eraclito, uno dei maggiori pensatori dei presocratici, cita testualmente “ferisce più la lingua che la spada”. Essendo Cola Montano un soggetto impulsivo, oltre che vendicativo, pare mise in pratica quel aforisma. Non volle sporcarsi direttamente le mani ma indusse altri ad agire per lui. Non ebbe difficoltà, durante le sue lezioni di latino, a trasmettere ai suoi discepoli, i suoi stati d’animo e l’odio verso il potere costituito. Lui, essendo anche un valido oratore, aveva notevoli capacità di persuasione. Una frase buttata lì ai suoi allievi, avrebbe potuto produrre, al momento giusto, effetti devastanti sui soggetti maggiormente influenzabili. Durante lo studio dei classici latini, la sua appassionata apologia del tirannicidio di Giulio Cesare operato con le famose 23 pugnalate inferte da Bruto e Cassio, fatti della storia di Roma effettivamente accaduti millecinquecento anni prima, equivaleva ad un velato invito ai suoi pupilli, ad imitare in prima persona quelle gesta infierendo sul tiranno di Milano, quell’odioso Duca Galeazzo Maria Sforza. Cola Montano, infamando il Duca pubblicamente, propugnò dalla sua cattedra ideali repubblicani e di libertà, istigando i suoi discepoli al tirannicidio. Girolamo OlgiatiGiovanni Andrea Lampugnani Carlo Visconti, suoi pupilli appartenenti all’aristocrazia milanese, non se lo fecero ripetere due volte. Alcuni di loro, spinti pure da rancori personali di astio nei confronti degli Sforza, accolsero quell’invito. Per raggiungere il suo scopo, Cola Montano, oltre che riuscire a convincerli, pensò anche ad istruirli sull’uso delle armi, inviandoli segretamente a fare tirocinio presso Bartolomeo Colleoni, il capitano di ventura, suo amico.

Il piano prese forma già diversi mesi prima dell’attentato

Cola Montano, la “mente” del gruppo aveva per anni seminato il terreno ed ora dal suo esilio dorato, attendeva che i suoi pupilli mettessero in pratica i suoi insegnamenti. Il Lampugnani, essendo il più anziano del gruppo, assunse il comando delle operazioni, mettendo a disposizione pure la propria casa, come base operativa. Lui e il giovane Olgiati studiarono a lungo i movimenti del Duca, le sue abitudini, la scorta di cui usava contornarsi quando si muoveva in città. Il giorno prescelto fu volutamente quello di una festività religiosa, consapevoli che il Duca, per non scontentate i sudditi, non sarebbe mancato all’appuntamento.
Tutto questo, naturalmente, nella assoluta convinzione che, come diceva il “maestro”, il loro gesto avrebbe scatenato l’immediata reazione del popolo, ormai insofferente dei continui soprusi, e sicuramente favorevole a maggiore libertà e all’instaurazione della repubblica.

Anche se in esilio, la “mente” del piano continuava a dare le direttive. Il suo “braccio” era rappresentato da un esiguo numero di soggetti: tre in tutto, Girolamo OlgiatiGiovanni Andrea Lampugnani Carlo Visconti oltre ad alcuni servi e sbirri alle loro dipendenze (sembra undici in totale).

Girolamo Olgiati (1453 – 1477)

Era figlio del gentiluomo milanese Giacomo Olgiati, molto fedele al duca e alla sua famiglia. Era il più giovane del gruppo,, ventitre anni appena l’unico a non avere motivi di astio o di rancore contro il potete costituito, comunque l’unico pronto ad immolarsi per un ideale: la tanto agognata repubblica.

Giovanni Andrea Lampugnani (1430 – 1476)

Fu sempre Cola Montano a presentare al giovane Girolamo, il nobile milanese Giovanni Andrea Lampugnani, uomo che come lui, era profondamente ostile al duca Galeazzo Maria, avendo il suo casato, a causa dello Sforza, perso prestigio e ricchezze. Pure lui era desideroso di vendicarsi nei confronti del duca, che, col suo fare odioso, lo aveva pubblicamente bistrattato in una causa riguardante l’abbazia di Morimondo.

Carlo Visconti (???? – 1477)

Era un politico alla Corte degli Sforza,. Non condivideva il modo di operare del Duca e lo sperpero di denaro pubblico per soddisfare i suoi piaceri. In particolare era al corrente del “vizietto” del Duca di essere un donnaiolo impenitente. A parte la moglie e le numerose amanti Lucrezia Landriani, Lucia Marliani, fra le tante donne, pare che anche sua sorella fosse stata oggetto delle attenzioni del Duca, per puro divertimento. Pertanto quando il Lampugnani e l’Olgiati glielo proposero, accettò di buon grado l’idea dell’attentato a Galeazzo Maria, unicamente per riscattare l’onore della propria famiglia,

L’assassinio del Duca

Come sopra accennato, fu Giovanni Andrea Lampugnani a proseguire l’organizzazione della congiura insieme al giovane Girolamo Olgiati.  Carlo Visconti subentrò più tardi.

Quel giovedì 26 dicembre 1476, ricorreva la festività del primo martire cristiano. Era una uggiosa giornata di pioggia. Mancò davvero un nulla, che l’intero piano fallisse, perché nessuno aveva previsto un piano ‘B’ in caso di brutto tempo qualora lo Sforza e il suo seguito, scoraggiati dall’imperversare del cattivo tempo, avessero deciso di rinunciare a presenziare alla cerimonia prevista. Per fortuna dei congiurati, il Duca, nel timore di deludere le aspettative dei sudditi, all’ultimo ci ripensò, ritenendo doveroso presenziare, quella mattina, alle celebrazioni del santo patrono nell’antica basilica di Santo Stefano Maggiore, una delle più importanti della città.

La Basilica di Santo Stefano Maggiore

La chiesa paleocristiana del V secolo, dedicata originariamente a San Zaccaria, finì distrutta da un incendio scoppiato al suo interno nel 1070.  Sulle fondamenta della precedente, la chiesa venne quindi ricostruita ex-novo in stile romanico nel 1075 e dedicata, questa volta, a Santo Stefano protomartire.
Nel 1112, la chiesa venne ulteriormente abbellita con la costruzione, davanti al portale d’ingresso, di un nartece di cui ancora oggi è possibile ammirare l’unica colonna superstite, davanti al campanile.

Ndr. – Nartece è la parte della basilica riservata ai catecumeni e ai penitenti, costituita da un vestibolo per lo più addossato all’esterno della facciata o, meno spesso, ricavato all’interno.

La chiesa di Santo Stefano Maggiore o in Brolo- (Foto di Giovanni Dall’Orto)

Appena entrato in chiesa col suo seguito, il Duca venne assalito da un manipolo di nobili e loro seguaci e brutalmente assassinato a coltellate. Approfittando della comprensibile confusione generata dagli astanti che, accorsi intorno al corpo accasciato a terra del Duca ferito, tentavano di soccorrerlo e di salvargli la vita, i congiurati , confondendosi fra la folla, riuscirono a fuggire eccetto uno, Giovanni Andrea Lampugnani che, essendo stato il primo a pugnalare Galeazzo Maria, venne finito sul posto, dalla reazione immediata di uno degli staffieri a protezione del Duca.

Nel Seicento, col rifacimento della chiesa e l’eliminazione del nartece, venne posta all’ingresso, nel punto preciso ove venne assassinato il Duca, una lapide commemorativa dell’evento, ancora oggi chiaramente visibile.

Lapide a ricordo dell’assassinio del Duca

Ndr. – Questa basilica, oltre che nota per l’assassinio di Galeazzo Maria Sforza, quasi un secolo dopo, il 30 settembre 1571, vide il battesimo del pittore Michelangelo Merisi, meglio conosciuto come il Caravaggio. Il ritrovamento del certificato di battesimo del pittore avvenne nel febbraio 2007, fra i documenti d’archivio della basilica, oggi conservati nel Museo Diocesano del capoluogo lombardo.

La sepoltura del Duca

Tornata una parvenza di calma, ma temendo che qualcosa di grosso si stesse preparando nell’aria, il cadavere di Galeazzo fu immediatamente trasportato in sacrestia, spogliato (contati 14 fendenti, di cui ben 8 mortali) e successivamente rivestito con una apposita veste cerimoniale fatta arrivare in fretta e furia dal Castello, dove intanto alla vedova Bona di Savoia era stato consigliato di asserragliarsi. per proteggere il figlioletto Gian Galeazzo di sette anni, legittimo erede del potere ducale. Non era ancora chiaro quale piega avrebbe potuto prendere gli eventi, e se la congiura fosse terminata o ancora in corso con altri obiettivi da colpire. Tutto era teoricamente possibile da parte dei nemici del ducato, primo fra tutti, il re di Francia. Stante il clima politico tesissimo e i rischi elevati, i funerali si tennero la notte stessa, e al termine il corpo fu portato in Duomo, dove venne tumulato prima che spuntasse l’alba del nuovo giorno. L’inumazione avvenne in una porzione di terreno compreso tra due colonne, evitando di segnalare il posto con indicazioni o altri segni, affinché nessuno potesse trovare il cadavere. Fu tanto ben nascosto che ancora ossi non si sa esattamente dove sia.

E in effetti del corpo del Duca, nel corso degli anni, si sono perse totalmente le tracce non essendo mai stato reclamato da qualcuno della famiglia e, a quanto pare, sembra non sia più nemmeno sepolto in Duomo.

Il mistero della sepoltura del Duca

A tal proposito, nel 1980, nella città di Melzo, feudo della Marliani, amante favorita del duca, durante i lavori di restauro della chiesa di Sant’Andrea (di origini medievali), venne rinvenuta nella pavimentazione della zona absidale, la sepoltura di un cranio con evidenti fratture e mal conservato. Dalle analisi eseguite al Carbonio 14, la datazione del reperto,  oscillerebbe tra il 1430 ed il 1480, la vittima, di sesso maschile, doveva avere un’età compresa tra i 32 ed i 39 anni. L’idea che questi resti potessero essere legati alla persona del Duca Galeazzo Maria è avvalorata dal fatto che le ossa proprio perché ritrovate nella zona absidale, la più sacra della chiesa, dovevano appartenere ad una personalità di grande rilievo, E poiché la Marliani innamorata gli aveva anche dato dei figli, poteva essere giustificato il suo desiderio di portare i resti dell’amato presso di sé.

La caccia ai fuggitivi

La fuga degli altri, a dire il vero, non durò molto. Un certo Franzone, uno dei servi che Lampugnani aveva portato con sé, fu catturato praticamente subito, essendo stato visto pugnalare il Duca ed assassinare con un altro fendente, uno dei suoi staffieri. Interrogato sotto tortura, non esitò a fornire l’identità degli altri cospiratori. Dopo qualche tempo la guardia ducale riuscì a catturare uno ad uno, vivi, tutti i congiurati rimasti, con l’eccezione del Visconti e dell’Olgiati che riuscirono a far perdere le loro tracce.

Intanto, svuotata la chiesa, un gruppo di giovani si impadronì del corpo esanime del Lampugnani, portandolo fuori dalla basilica. Dopo averlo legato per un piede ad un cavallo, lo trascinarono per le vie della città per tre giorni, finché il suo cadavere talmente straziato da risultare irriconoscibile, fu gettato nel fossato del Castello. Ripescato, venne appeso per un piede alla Torre Civica del Broletto Nuovo.

La fuga di Carlo Visconti non durò in tutto che poche ore; venne catturato e tradotto al Castello.

Rimaneva ancora latitante Girolamo Olgiati, che non riuscivano a trovare. Lui, infatti, si era rifugiato in casa del padre che abitava non lontano dal luogo dell’assassinio. Il padre però, venuto a conoscenza della sua partecipazione all’attentato, temendo le ovvie ritorsioni cui sarebbe sicuramente andato incontro se avessero scoperto l’assassino nascosto in casa sua, lo cacciò da casa, minacciandolo di ucciderlo. Girolamo si nascose allora nel solaio della vicina casa del cognato Domenico Calcaterra ma, all’arrivo del padrone di casa accompagnato dal padre, fu costretto a scappare anche da lì. La madre dell’Olgiati, convinta dell’innocenza, del figlio, implorò aiuto al prete Pietro Pellizone che, mosso a pietà, travestito il giovane con l’abito talare, lo ospitò a casa sua. Durante la permanenza in quella casa, il ragazzo scrisse alcune lettere a chi, lui sperava, avrebbe potuto appoggiare la rivolta armata contro il Duca, senza rendersi conto che il popolo non aveva alcuna intenzione di sollevarsi. Quella sera consumò un’ultima cena in casa del prete, poi si nascose nel sottotetto. Quando le guardie ducali, ispezionando casa per casa, fecero irruzione nella casa del prete e la perquisirono accuratamente, l’Olgiati, in maniera rocambolesca (travestito da facchino, portando in spalla un materasso) riuscì a scappare da lì, rifugiandosi altrove. Ma fu tutto inutile: dopo altri due tentativi di far perdere le proprie tracce, le guardie ducali lo scovarono e lo arrestarono, proprio l’ultimo giorno dell’anno.

Il processo ai congiurati

Dopo un processo sommario e ottenuta la necessaria confessione sotto tortura, l’Olgiati, insieme al Franzone e al Visconti, vennero condannati a morte. Secondo la deposizione dell’Olgiati poco prima di morire, furono lui e il Lampugnani ad ideare l’attentato, diversi mesi prima e solo quando avevano ormai deciso la data, il luogo e le modalità, i due coinvolsero anche il Visconti.

L’esecuzione

I tre congiurati vennero giustiziati il 2 gennaio 1477. La condanna fu “morte per squartamento”. Le cronache riferiscono che un attimo prima della sua esecuzione, il ventitreenne Girolamo Olgiati, continuando a sostenere che l’assassinio era moralmente giustificato, pare abbia gridato in latino: 

“Collige te, Hyeronime, stabit vetus memoria facti. Mors acerba, fama perpetua.”
tradotto : “Coraggio Girolamo, sarai a lungo ricordato. La morte è amara, ma la gloria eterna”.

I brandelli dei loro corpi smembrati vennero posti in bella mostra, a mo’ di trofeo, alle sei porte della città affinché fossero di chiaro monito per tutti. Le teste dei tre sventurati, infilzate sulla punta di tre lance, furono esposte in cima alla Torre Civica di Napo Torriani, nella piazza dei Mercanti (attuale via Mercanti).

E che fu di Cola Montano?

Tornando a Cola Montano che ho lasciato “uccello di bosco”, si scoprì poi che, scappato da Milano, aveva trovato riparo alla corte di Napoli, sotto re Ferdinando I (noto come don Ferrante d’Aragona). Quest’ultimo sfruttò l’eloquenza del Montano, inviandolo tra i governanti lucchesi per dissuaderli dall’alleanza con Lorenzo il Magnifico che il Montano riteneva un tiranno, tanto quanto Galeazzo Maria Sforza, ed indurli a passare dalla parte di don Ferrante.

Dopo alcuni anni dall’assassinio di Galeazzo Maria, essendosi ormai calmate le acque, Cola Montano, protetto dal re di Napoli era sicuro di essere riuscito fatta franca. Non fece i conti però con se stesso, anche per colpa del suo carattere «inquieto, maligno, cupo et capitalissimo nimico» di Firenze.
Lorenzo dei Medici, che qualche anno prima aveva ospitato Galeazzo Maria a Firenze, si tenne informato dello sviluppo delle indagini della magistratura milanese nei confronti dei responsabili dell’assassinio dello Sforza, venendo naturalmente a conoscenza del ruolo rilevante avuto dal Capponi nell’istigazione all’assassinio del Duca di Milano. Quando poi venne anche a sapere che lo stesso soggetto Cola Montano aveva pronunciato, con l’Oratio ad Lucenses, davanti ai governanti di Lucca, una fiera invettiva nei confronti dei Medici, nel tentativo di convincerli ad unirsi ai Napoletani abbandonando l’alleanza con i Fiorentini, il Signore di Firenze ne dispose la sua cattura. Cola venne scovato nel 1482 (sei anni dopo il delitto dello Sforza) tra le colline del bolognese, dove venne impiccato e lasciato in pasto agli uccelli.

Quasi certamente l’assassinio di Galeazzo Maria Sforza fu la base per la Congiura dei Pazzi, che si tenne in modalità e tempi strettamente analoghi a Firenze, a nemmeno due anni dal tragico evento di Milano.

Ndr. – La Congiura dei Pazzi, conclusasi il 26 aprile 1478, fu una cospirazione ordita dalla famiglia di banchieri fiorentini de’ Pazzi, avente lo scopo di stroncare l’egemonia dei Medici tramite l’appoggio del papato e di altri soggetti esterni, tra cui la Repubblica di Siena, il Regno di Napoli e il Ducato di Urbino. La congiura portò all’uccisione di Giuliano de’ Medici e al ferimento di Lorenzo il Magnifico, senza tuttavia condurre alla fine del potere mediceo su Firenze, come era nei piani. [rif. : Biblio Toscana]


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