Costumi e società nella Milano del Settecento
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ToggleIl cicisbeismo
A voler fare un’indagine sugli usi e costumi della società milanese, dai tempi del Ducato ai nostri giorni, uno degli aspetti più curiosi che risalta subito dall’analisi, è quello del “cicisbeismo”. Si tratta di un fenomeno tipicamente nostrano che vide la sua massima espressione nel Settecento, in una società dei Lumi (da cui il termine “illuminismo”), che, rispetto all’“oscurantismo” dei secoli precedenti, era molto più aperta a comportamenti libertini, a scopo ludico.
Cicisbeo era il gentiluomo che, nel Settecento, accompagnava una nobildonna sposata in occasioni mondane, feste, ricevimenti, teatri e l’assisteva nelle incombenze personali, quali toeletta, corrispondenza, compere, visite, giochi. Passava con lei gran parte della giornata; doveva elogiarla, sedersi accanto a lei nei pranzi e nelle cene, nelle passeggiate o nei giri in carrozza. [rif. -Wikipedia ]
Cicisbeo, cicisbeismo, cicisbeato – Tutte parole di origine incerta, probabilmente onomatopeiche, che cominciano a ricorrere con frequenza fra gli scrittori del primo Settecento. Per esempio il poeta satirico Niccolò Forteguerri (1674 – 1735), considera il cicisbeismo come il “nuovo male” della società. Il padre della storiografia italiana, Ludovico Antonio Muratori (1672 – 1750), nella sua “Filosofia morale”, chiama il cicisbeato, una “lacrimevole invenzione di questi ultimi tempi”, come di una funesta eredità della dominazione francese.
Il significato del cicisbeismo allude quindi al valore che assumeva in quell’epoca il matrimonio, ovvero una semplice facciata sfruttata per convenienza.
Si sono fatte diverse ipotesi sulla nascita del fenomeno. Vi è chi ne attribuisce l’origine ai cugini francesi ai tempi della monarchia assoluta del re Luigi XIV, il famoso “Roi Soleil” (Re Sole) e chi viceversa, come lo stesso Stendhal, che è convinto (e quasi sicuramente ha ragione) che quest’usanza, sarebbe nata ancora prima, già nella Spagna del Cinquecento, e importata da noi durante il periodo della dominazione spagnola. Ad avvalorare questo suo convincimento, cita Matteo Bandello che, nelle sue novelle (1540), raccontava che le donne della nobiltà italiana dovevano disporre di un “braccere”, cioè di un uomo che, in assenza del marito, “fosse disposto a porgere loro il braccio in pubblico”. Le famiglie ricche erano disposte a pagare i “bracceri” perché prestassero questo servizio alle loro dame.
Probabilmente comunque la verità sta nel mezzo, nel senso che nel Settecento, il grande sviluppo della vita mondana e dell’emancipazione femminile in Italia, dirette conseguenza del cicisbeismo, si realizzarono qui da noi, “attingendo” da queste corti europee, “spunti” delle nuove mode che lì si stavano via via affermando [Ndr. – ad esempio i “salotti culturali di Parigi”].
Milano, quasi sempre “prima”, nella sperimentazione di novità di qualunque tipo, faceva da capofila anche in questa tendenza, peculiarità tipica, dei ceti sociali più abbienti: essenzialmente nobiltà ed aristocrazia.
Non era tuttavia infrequente, l’assunzione di questa pratica anche da parte di famiglie borghesi, sufficientemente benestanti da potersi permettere un cicisbeo, magari solo per un giorno alla settimana, usualmente la giornata della domenica per poter accompagnare la signora alla messa (era il cosiddetto Domenichino).
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Di questa novità, beneficiarono soprattutto le donne sposate, che, fino ad allora, erano state confinate fra le mura domestiche. Da quel momento, la vita mondana femminile iniziò a svilupparsi proprio grazie alla grande diffusione del cicisbeismo.
Il cicisbeismo visto come “professione maschile”
Secondo quanto riferisce il Parini nei suoi scritti, in quel periodo, ogni donna sposata, appartenente al ceto nobiliare, aveva diritto ad avere un “cavalier servente”. Poiché il marito non sempre era disposto a prestarsi a servire la propria moglie, si ricorreva ad una seconda persona che, di professione, facesse quel tipo di attività. La realtà era che questa “moda” celava, fondamentalmente, una forma di adulterio quasi legalizzato.
Si è già detto che, compito del cicisbeo, o “cavalier servente” che dir si voglia, era essenzialmente quello di accompagnare la nobildonna in assenza del marito di lei. Formalmente infatti il loro rapporto era basato sulla concezione risalente all’amor cortese dell’età feudale. Spesso, questo “servizio” veniva eseguito stipulando un regolare contratto col marito dell’interessata. Questi, liberandosi in tal modo degli impegni nei confronti della propria moglie, grazie a tale stratagemma, aveva la possibilità di dedicare la propria giornata a rivolgere le sue attenzioni ad altra nobildonna sposata.
Era in pratica una sorta di catena di Sant’Antonio molto originale che permetteva ai nobili, di stare con le “amanti”, alla luce del sole! E il tutto, sia ben chiaro, assolutamente lecito, in quanto ufficialmente riconosciuto, essendo regolamentato da contratto. Parini condannò aspramente questa pratica, vedendo in essa la disgregazione della famiglia, ente naturale di crescita morale e civile.
Profilo del cicisbeo tipo
Normalmente celibe, doveva essere di pari ceto sociale della nobildonna che serviva. Non era tuttavia infrequente,, come detto, trovare un cicisbeo già sposato. per conto suo, Usavano dedicarsi a quest’attività, in genere, i figli cadetti delle famiglie nobili che, non potendo usufruire delle ricche rendite assicurate ai primogeniti, accedevano al mondo delle armi o delle lettere accontentandosi degli scarsi introiti, comunque non sufficienti al mantenimento di una famiglia. Naturalmente quest’attività, da un lato serviva ad arrotondare i loro bassi redditi. dall’altro, di fruire di un lusso e un’agiatezza che altrimenti non avrebbero mai potuto goderei.
Questo “lavoro”, non richiedendo particolari specializzazioni, veniva visto un po’ come un gioco, spesso pure piacevole, soprattutto se lei, l’assistita, era giovane e avvenente. Era diventata prassi che, in accordo col futuro marito, all’atto della stipula del contratto matrimoniale con la giovane nobile, venisse scelto un cicisbeo che potesse accudirla.
Requisiti indispensabili
Requisiti essenziali, erano la buona educazione, una bella presenza, l’essere possibilmente giovane, il portare un abbigliamento curato e sempre alla moda. Doveva essere una persona di fiducia, un soggetto spiritoso, un ottimo affabulatore. Indispensabile pure la conoscenza delle lingue straniere, nonché l’avere una cultura generale, capace di spaziare nei vari campi dello scibile.
Quali erano i suoi compiti
In una società chiusa come quella del Seicento, questa “professione”, nata fra i ceti più elevati della popolazione, era inizialmente solo funzione di guardiano (l’attuale “body guard”) assunto dal marito di lei, per “controllare” i movimenti della moglie, e per proteggerla nella sua onorabilità da malintenzionati, in sua assenza. Attività questa, che, aumentando la confidenza fra il cicisbeo e la sua assistita, si tramutò ben presto, in quella di accompagnatore ufficiale ovunque la dama intendesse andare: quindi a passeggio, in carrozza, a teatro, a feste, a balli, a serate di gala, a salotti culturali, ad incontri con le amiche, a ritrovi per giochi a carte, a cerimonie ecc. Comportandosi con lei col dovuto rispetto e affabilità, praticamente doveva fare le veci del marito, quando il consorte era effettivamente assente o magari diversamente impegnato a corteggiare altre donne.
Era naturale che, a voler fare coscienziosamente il proprio “lavoro”, prima o poi, la cosa finisse col degenerare, diventando spesso molto labile la corretta interpretazione del ruolo marito-non marito. Il fatto che quell’attività sfociasse in rapporti intimi fra lui e la nobildonna, faceva naturalmente parte del gioco ed era del tutto prevedibile, considerato che, fra le sue incombenze, oltre a presenziare alla toeletta mattutina della signora, lui spesso l’aiutava a vestirsi e a pettinarsi. La cosa, essendo praticamente istituzionalizzata, non destava il minimo scandalo fra i pari-ceto.
A causa di questa intima, quanto promiscua vicinanza tra il “cavalier servente” e la dama che lui serviva, il pettegolezzo regnava sovrano.
Fra amiche, le nobildonne si controllavano a vicenda. Ogni nuovo “stato interessante” era salutato con gioia perché scatenava fra loro una ridda di ipotesi sulla reale paternità del nascituro, tenendo banco nei salotti, per intere settimane. Le maligne (cioè praticamente tutte), lunario alla mano, e calcolando a ritroso la data del probabile concepimento, giocavano a scommettere sulla legittimità del futuro figlio della coppia sposata. Per evitare che il buon nome della famiglia venisse compromesso e per garantire nel contempo, la legittimità del nascituro, alla donna, una volta nato il nuovo pargolo, era assolutamente proibito continuare a fare vita mondana (almeno per un certo periodo).
I rapporti del cicisbeo col marito della nobildonna
Assolutamente civile e pacifico, era il rapporto fra il cicisbeo e il marito della dama, che lui accompagnava. E’ ovvio che il consorte fosse al corrente delle sue tresche con la propria moglie, ma gli conveniva stare zitto e lasciar fare. Il marito, dunque, non poteva ostentare scortesia nei confronti del servitore personale della consorte, anche perché, essendo il cicisbeismo un’istituzione socialmente accettata, egli sarebbe apparso solamente ridicolo. Del resto, se si fosse lamentato o, peggio ancora, avesse reagito, sarebbe stato deriso da tutti, e tacciato d’ ingenuità, essendo assolutamente logiche, e naturalmente prevedibili, le possibili conseguenze di quel lavoro istituzionalizzato. Così, spesso, addirittura facendo buon viso a cattivo gioco, il datore di lavoro diventava persino amico di colui che “si divertiva” con sua moglie!
Triangolo amoroso ufficializzato
La cosa era talmente istituzionalizzata, che. ad esempio, gli inviti a feste e spettacoli vari venivano addirittura rivolti non solo alla coppia marito e moglie, ma pure all’accompagnatore di lei. Il “cavalier servente” quindi, spesso accompagnava i suoi datori di lavoro a cene di gala, sedendo naturalmente di fianco alla nobildonna che assisteva, partecipando, sempre con loro, ad eventi vari, oppure in palco, a teatro, sempre con loro, come fosse persona di famiglia. Era quindi una sorta di triangolo amoroso ufficializzato, e in quanto tale, non considerabile come adulterio, anche se formalmente condannato dalla Chiesa ufficiale.
Le cause del fenomeno
A ripensarci, questo “menage à trois” trovava giustificazione quale diretta conseguenza della pratica secolare di imparentamento combinato fra famiglie nobili. La promessa di matrimonio fra il rampollo dell’una, con la figlia dell’altra (magari ancora in tenerissima età) veniva decisa ovviamente non dai diretti interessati, che ne avrebbero avuto ben diritto, bensì dalle loro famiglie, a fronte di motivi di pura convenienza economica (interessi di casta, finanziari, patrimoniali ecc.). E’ chiaro che a tali condizioni, un matrimonio fra soggetti obbligati a stare insieme per forza, non poteva offrire la minima garanzia di stabilità coniugale. A quei tempi, l’istituto del matrimonio era davvero una scommessa al buio: appena lei era in grado di aver figli, veniva fatta accoppiare ad uno sconosciuto, sulla base di un contratto stipulato fra le famiglie magari diversi anni prima. Per non dire poi, della pratica del matrimonio per procura, in cui uno dei contraenti si faceva sostituire da un amico o un parente, per cui la conoscenza col vero marito o moglie, avveniva solo successivamente. Per una ragazza quindi, la probabilità che il partner potesse essere di proprio gradimento, era decisamente molto scarsa, senza contare che il divario d’età fra i due superava spesso i vent’anni. Probabilità quasi nulla quindi, che da quell’unione sarebbe potuto sbocciare un amore vero, al massimo solo affetto!
Pertanto, l’instaurarsi di legami affettivi esterni al vincolo coniugale, fra nobildonne con uomini di pari ceto, trovava giustificazione col consenso degli stessi mariti, essendo spesso questa pratica per la donna, una forma di compensazione nella sfera degli affetti, che il marito si rifiutava di darle o non era in grado di garantirle. .
Sviluppo dell’emancipazione femminile
L’eco della lussuosa vita della nobiltà francese alla corte di Versailles, sotto il Re Sole, dilagò ben presto, come onda impetuosa, oltre confine, diffondendo la nuova moda in Europa. Una ventata questa, da cui la condizione femminile nel Lombardo-Veneto trasse indubbio giovamento in termini di libertà di movimento rispetto ai secoli precedenti, in cui la donna era sempre vissuta rinchiusa entro le mura domestiche. Diverse di loro, sulla scia di quanto stava avvenendo Parigi, cominciarono a creare dei salotti culturali, con la partecipazione delle personalità più in vista del momento, modo questo che consentì loro una ancora maggiore forma di emancipazione.
E’ della prima metà del Settecento, il celebre salotto milanese della contessa Clelia Borromeo Arese del Grillo che si tenne nel palazzo Borromeo di via Rugabella, salotto successivamente trasformato nell’Academia Cloelia Vigilantium. Le cronache del tempo riferiscono che la contessa parlasse correntemente almeno otto lingue e si dilettasse particolarmente di geometria e materie scientifiche, conoscenze insolite per una nobildonna della sua epoca. Dopo un periodo in cui fu confinata in esilio, a Gorizia, per motivi politici (ce l’aveva a morte con gli austriaci), tornata a Milano, riaprì il suo salotto questa volta però, più legato alla storia, alla poesia e al teatro.
Il manuale del “perfetto cicisbeo”
Pare che nel 1770, fosse stato addirittura pubblicato a Milano un foglio con un compendio di “Règles et statuts de la compagnie des petits-maitres” (Regole e statuti della compagnia dei bellimbusti) riportante, molto probabilmente in chiave scherzosa, l’elenco dei requisiti indispensabili, per poter aderire alla compagnia dei bellimbusti. Questo dimostra quanto presa facesse sui giovani la figura del cicisbeo e quanto evidentemente la gente s’informasse per tentare di proporsi per questo tipo d’attività.
Fra le principali regole previste, era indispensabile: avere eleganza nel portamento, portare un abbigliamento sempre all’ultima moda, saper ballare, giocare d’azzardo, saper giocare a carte giochi di società, essere all’occorrenza un gran bevitore senza ubriacarsi, bere tanta cioccolata afrodisiaca, non perdersi un solo spettacolo teatrale, essere informato leggendo i giornali e soprattutto le riviste più frivole, … il tutto ovviamente, senza trascurare l’instancabile corteggiamento fatto al gentil sesso.
In tal proposito, accennando all’ elenco di regole riportate nel foglio, Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi, I’economista e storico ginevrino, si dilungò parecchio sul cicisbeismo, come fenomeno italiano.
Ecco, qui di seguito, una sintesi dei suoi commenti;
I diritti e i doveri dei cicisbei si basano su due leggi create dall’alta società (a proprio uso e consumo) secondo le quali:
1°- Nessuna donna può decentemente apparire in pubblico da sola
2°- Nessun uomo può, senza apparire ridicolo, accompagnare la propria moglie
Di conseguenza:
Nessun uomo potrebbe vedere la propria sposa come una compagna fedele per tutta la vita: non potrebbe più trovare in lei una consigliera ai suoi dubbi un supporto nelle avversità, un aiuto nel pericolo, una consolatrice nella sua disperazione. Nessun padre potrebbe essere certo che i figli nati dal suo matrimonio fossero realmente suoi.
La conclusione di Sismondi sintetizza efficacemente il suo pensiero in proposito:
Non perché le donne avevano amanti, ma piuttosto perché una donna non poteva apparire in pubblico senza un amante, gli italiani hanno smesso di essere uomini.
L’illuminista Cesare Beccaria, una voce fuori dal coro
Lascia perplessi, dopo quanto detto, lo scoprire che fra i cicisbei capitava di trovare, di tanto in tanto, pure dei prelati, segno evidente che nemmeno la Chiesa, formalmente contraria al dilagare di questo costume “amorale”, riusciva in realtà, a controllare totalmente il fenomeno nemmeno fra il proprio clero. Uno fra i detrattori più accaniti di questo costume, e direi, in controtendenza rispetto al pensiero illuminista generale del periodo, fu Cesare Beccaria, l’autore di “Dei delitti e delle pene“, che si dichiarava “scandalizzato” per la legge che tutelava i “cavalier serventi”, esimendoli da ogni responsabilità genitoriale in caso di procreazione. La sua comunque era una posizione derivante da una serie di esperienze familiari che lo avevano segnato profondamente.
Fenomeno visto come tipicamente italiano
Il cicisbeo non era, a rigore, una figura esclusivamente nostrana: se guardiamo bene, c’era quella analoga del cortejo in Spagna, o quella del gallant in Inghilterra, eppure nel Settecento, l’Italia veniva vista, nell’immaginario collettivo del resto d’Europa, come un paese estremamente libertino.
Perché questo fenomeno era così evidente da noi e non altrove?
– Un’ipotesi plausibile, largamente condivisa, potrebbe essere l’onda lunga della reazione della nobiltà nostrana alle restrizioni dei costumi per la moralizzazione della società, imposte della Chiesa (regole indicate dalla Controriforma del Concilio di Trento e applicate per tutta il periodo della dominazione spagnola).
– Altra giustificazione possibile potrebbe essere che qui da noi, la figura del cicisbeo era garanzia di “controllo” della donna anche nella vita pubblica, cosa che all’estero se c’era, era certamente molto meno evidente.
I commenti dei visitatori stranieri
Furono gli stessi intellettuali stranieri che, venendo a visitare il Bel Paese, riportarono nei loro appunti di viaggio, questa singolare figura, presente nelle corti italiane. Sono numerosi i loro commenti critici a questo fenomeno che, in Europa, evidentemente non era così marcato come da noi, tanto da vedere in questo rapporto impudico, l’emblema dell’indecenza italiana.
Charles de Brosses, magistrato, politico e filosofo francese notò, evidentemente scandalizzato, che, ad esempio, le dame milanesi non passeggiavano in carrozza fra di loro, ma sempre in compagnia di diversi uomini, fra cui non compariva mai il marito.
Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, storico, giurista e filosofo francese, che visitò l’Italia nel 1728, parlando del popolo italiano scriveva: «Non vi ho parlato dei cicisbei. È la cosa più ridicola che un popolo stupido abbia potuto inventare: sono degli innamorati senza speranza, delle vittime che sacrificano la loro libertà alla dama che hanno scelto».
Jacques di Campredon, un diplomatico francese, scriveva nel 1737, che il cicisbeismo è il motore principale degli intrighi politici delle città italiane, tesi questa condivisibile, vista la rilevanza politica dei nobili del tempo.
L’abate M. Richard (per citare uno dei tanti viaggiatori stranieri) nel primo volume della sua Description historique et critique de l’Italie (Parigi 1766) ci offre molti particolari sul cicisbeismo. “In casa, il marito sta poco: i negozî, gli uffici, il servir dama lo tengono lontano; mentre vi è assiduo il cicisbeo, la scelta del quale è un affar di famiglia. Stipulandosi il contratto matrimoniale d’una giovine nobile, si pensa, d’accordo col marito, a sceglierle un cicisbeo (ma talvolta se ne scelgono fin quattro!). Il cicisbeo deve aiutar la dama ad abbigliarsi, accompagnarla da per tutto, alla messa, alla passeggiata, al pranzo, alle conversazioni, al teatro, al giuoco: egli è sempre vicino alla dama”.
Si arriva dunque alla legalizzazione per contratto del cicisbeismo. Questo il fatto novissimo, cui accennano, fra gli altri, G. A. Costantini nelle Lettere critiche, il Parini in notissimi versi del Mattino, il Foscolo nel Gazzettino del bel mondo, Vittorio Alfieri nella commedia Il divorzio, del 1803.
Però, anche senza ripetere le difese che Vittorio Imbriani fece dell'”ultimogenito della fantasia erotica italiana”, si potrebbe, senza taccia di paradosso, sostenere che, rispetto alla corruzione seicentesca coperta dal manto dell’ipocrisia, il cicisbeismo fu, in certo senso, un progresso morale: se non altro, generò nei migliori il desiderio della ricostituzione della famiglia. [rif. – Treccani]
Decadenza del fenomeno
Storicamente, il periodo napoleonico in Italia d’inizio Ottocento, la successiva Restaurazione col conseguente scoppio dei moti del Risorgimento, determinarono a lenta progressiva decadenza di questo fenomeno tutto nostrano.
Indubbiamente tutto iniziò proprio con l’avvento della rivoluzione francese, apertamente ostile sia ai nobili che ai privilegi della classe sociale da loro rappresentata, nonché alle loro consolidate abitudini. Uno ad uno, vennero eliminati i benefici della nobiltà, le loro usanze più assurde, a cominciare da quelle ritenute un “costoso inutile orpello”.
Nello stesso periodo il movimento dell’illuminismo (inteso come superamento dell’ignoranza e della superstizione grazie all’uso della critica, della ragione e delle scienza) che aveva dominato per tutto il Settecento, veniva soppiantato dalla nuova corrente del romanticismo.
A differenza di quanto era accaduto fino ad allora con lo stesso movimento illuminista, non era possibile in quello romantico individuare un insieme di idee di riferimento, che potesse definirlo in maniera compiuta, ma esso piuttosto si riferiva alla riscoperta e all’esaltazione di un sentimento, di un “modo di sentire” a cui poeti ed artisti di quel periodo, ispirarono il loro modo di esprimersi. (Ndr. – vedi ad esempio Hayez e il suo famoso Bacio).
Leggi “il Bacio” di Francesco Hayez
Pure il Risorgimento, visto come un male necessario, giocò un ruolo importante in questo contesto, perché dando peso diverso a certi valori, contribuì a cambiare il modo di pensare della gente. L’impegno civile e il sacrificio per il raggiungimento di un ideale, trasposti nel piano coniugale, significavano speranza in una vita migliore, fiducia nel proprio coniuge, prospettiva di amore reciproco, la riscoperta di quel “modo di sentire” suggerito dal Romanticismo. Non più infatti, l’amore viene inteso come esperienza, spesso tragica, vissuta sulla base di uno sterile contratto matrimoniale fra un uomo e una donna benestante, deciso da altri (accordo fra le famiglie), bensì come un qualcosa di spontaneo, naturale, che viene dal cuore, una forza travolgente e appassionante, capace di superare qualsiasi ostacolo e, cosa impensabile fino ad allora, persino d’infrangere le secolari consolidate regole degli ordini sociali, facendo unire fra loro anche soggetti appartenenti a ceti diversi.
Questo studio prosegue con l’approfondimento sulla vita di Cesare Beccaria. Per leggere la seconda parte, cliccare sul seguente link: “Costumi e società nella Milano del Settecento: focus su Cesare Beccaria“
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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