Cristina Trivulzio di Belgiojoso (seconda parte)
Sommario
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Cristina Trivulzio di Belgiojoso (prima parte)
Il salotto parigino di Cristina
Per essere iniziata a questa società parigina, la Belgiojoso aveva dovuto però necessariamente superare l’esame di un altro salotto, quello di Juliette Récamier, una sorta di oasi fuori dal tempo, «dove i grandi signori e le grandi dame si improvvisavano poeti e letterati … dove se si fosse osato coniare delle nuove parole, tali parole nuove sarebbero entrate senza difficoltà nel dizionario dell’Accademia»
Quì, Cristina organizzò un suo salotto frequentato da esiliati italiani e da elementi della borghesia europea. Nel giro di poco, divenne uno dei più frequentati ed importanti di Parigi, luogo d’incontro per grandi artisti, affascinati dall’intelligenza e dalla competenza della padrona di casa, capace di sostenere qualsiasi tipo di conversazione.
Vincenzo Bellini
Uno dei primi habitué di questo salotto, fu Vincenzo Bellini (1801-1835), il compositore catanese che amava esibirsi al pianoforte suonando le proprie musiche. Era stata la madre di Cristina, Vittoria, a farle conoscere il compositore. Lei lo aveva già incontrato precedentemente tramite il suo nuovo compagno (il conte di Sant’Antonio) compaesano del musicista. L’autore della Norma, sognatore e amato dalle dame dell’alta società, rimase ammaliato dalla sua intelligenza e dal suo stile. Lei a sua volta. conservò sempre un ottimo ricordo del musicista.
Heinrich Heine
Il poeta tedesco Heinrich Heine (1797 – 1856) pure lui frequentatore del salotto, provò per lei un’ammirazione spirituale, un’attrazione che si traduceva in pura contemplazione. Era l’espressione del suo viso a confonderlo, «rubato a qualche quadro del Quattrocento, a qualche affresco della scuola lombarda, forse al vostro Luini o persino alle poesie dell’Ariosto». Cristina viene paragonata, nelle Notti fiorentine, a una Madonna lombarda, per essere poi adombrata in un altro personaggio, la Diana dell’Atta Troll. Ancora una volta, fu la natura intellettuale del legame ,a determinare una lunga amicizia con la Principessa.
Franz Liszt
Sette anni più anziano di lei, Franz Liszt (1811-1886) provava per la Trivulzio una grande attrazione, suscitando le gelosie di Marie d’Agoult, probabilmente invidiosa anche per la rivalità che il salotto di Cristina rappresentava per il suo, visto che molti ospiti li frequentavano entrambi. La principessa amava indubbiamente essere corteggiata come tutte le donne del resto ma, a differenza di quanto avrebbero pensato in tanti, manteneva sempre una certa distanza con gli ospiti, non andando in cerca dell’avventura, bensì prediligendo un’unione intellettuale. Lei nutriva per il compositore ungherese un’assoluta venerazione artistica, ma il tutto si limitava lì e non andava oltre.
Alfred de Musset
Altro soggetto decisamente infatuato di lei, che, nei suoi scritti, espresse i propri sentimenti nei confronti della Principessa, fu un viveur quale Alfred de Musset (1810-1857), che ebbe modo di conoscere, nel 1833. Pare che nella commedia I capricci di Marianna, che lui stava scrivendo proprio in quel periodo, l’avesse assunta a modello. Le velate avances che l’autore le fece in seguito, nelle sue Confessioni di un figlio del secolo, divennero più esplicite dopo la conclusione della sua tempestosa relazione con George Sand, che lo tradì col medico Pietro Pagello durante il loro soggiorno a Venezia nel 1834. Ma Cristina, era per nulla interessata ad avventure galanti “leggere”: così De Musset, viste le sue profferte infrante contro il muro della ritrosia della principessa, vendicò il proprio orgoglio ferito, rappresentandola, qualche anno dopo, nel 1842, nella poesia Sur une morte.
Honoré de Balzac
Pare fosse molto controverso il legame di amicizia di Cristina con Balzac (1799-1850): conosciuta sin dal suo arrivo a Parigi, mentre sparlava di lei nelle lettere alla futura moglie, la contessa polacca Eveline Hanska, ben diversi complimenti le riservava quando si incontravano o nelle lettere che scriveva agli amici più intimi. Pure per lui, uno dei tanti spasimanti respinti e delusi, Cristina divenne quasi un’ossessione che traspare nei suoi scritti: qualche somiglianza con la principessa, presentano la Fedora de La pelle di zigrino e la Massimilla Doni del romanzo omonimo (1837).
Cosa dicevano di lei
«Un intelligenza rara, lo spirito appassionato e dominatore, uno sguardo potente, un coraggio dal sangue freddo notevole e soprattutto l’arte di piacere come parte essenziale del bisogno di essere adorata“
Andava cercando bramosamente di scuotere la propria freddezza mediante gli omaggi che le venivano dal mondo, ed essendo ciò impossibile, doveva rimaner sempre malcontenta”
Ai suoi occhi gli uomini venivano divisi in tre classi: è, lo è stato e deve esserlo (innamorato)
»Caroline Jaubert (“Souvenirs de Madame C. Jaubert”)
«Fra i volti che mi hanno lasciato un’impressione più forte c’è quello della principessa Belgiojoso. Nessuna poteva non essere colpito dal pallore bizantino della sua carnagione; dalla sua chioma nera come un’ala di corvo; dai suoi begli occhi luminosi, grandi finestre sulla facciata di un piccolo palazzo. Qualcuno obbiettava ( giocando sul significato del suo nome): “bella e gioiosa perché né bella né gioiosa”. No, non allegra; ma certamente bella per coloro che la miravano con gli occhi dell’arte. Madame de Girardin era la decima Musa, ma la principessa Belgiojoso era la Musa romantica.
Arsène Houssaye (“Les Confessions, souvenirs d’un demi-siècle”)
Come si sa, allora ogni donna romantica vantava un pallore spettrale: una carnagione rosea era fuori moda, e come tale lasciata alla vecchia scuola, con il sottinteso canzonatorio che il possessore non potesse mai sapere cosa significasse la passione; ma tutti coloro che erano ossessionati dalla visioni di Shakespeare, Hugo o Dumas, non si avventuravano mai in società senza l’ornamento di qualche mescolanza di tinta azzurro-verdastra. Si diceva che la principessa Belgiojoso stimolasse il cervello per mezzo di un veleno di moda, datura stramonium. Non usavano veleno per i topi a quell’epoca. La principessa era una devota entusiasta delle abitudini notturne e stupiva Parigi per l’originalità dei suoi modi. Ogni donna è più o meno come un libro letto troppo spesso. Costei era, tuttavia, veramente un volume nuovo: uno lo prendeva ma a poco a poco e dopo le prima pagine scritte in francese o in italiano inciampava nell’ebraico.
Molto generosa con gli esuli italiani
Nel 1834, ad esempio, aveva donato 30 000 lire (su un suo budget complessivo di centomila) per finanziare il colpo di mano mazziniano nel Regno di Sardegna. Per l’occasione, la nobildonna aveva persino ricamato con le proprie mani, le bandiere degli insorti. Nonostante la prodigalità della Belgiojoso nei confronti di tantissimi esuli italiani riparati in Francia fosse riconosciuta da tutti, l’astio di una parte degli immigrati nei suoi confronti aumentava e qualunque suo comportamento era l’occasione buona per denigrarla, al punto da essere addirittura chiamata una Messalina, per la sua moralità. La causa? Da una parte, l’invidia di alcune dame italiane i cui salotti non godevano a Parigi della stessa sua fama (vedi la marchesa Margherita di Collegno); dall’altra, gli aderenti alla Giovine Italia, a causa delle divergenze che lei ebbe con Mazzini, criticando l’avventatezza della sua politica, cosa questa, che la indusse a rifiutargli la sovvenzione richiesta per una seconda spedizione mazziniana in Savoia (visto che la prima era miseramente fallita).
La nascita della figlia Maria (1838)
Al di là dei pettegolezzi, talora deliranti, sui presunti amori cercati dalla principessa per appagare la propria frustrazione, (vi era chi ipotizzava addirittura un rapporto saffico tra Cristina e George Sand), sono tutti concordi nell’asserire che vi fu un’unica reale storia d’amore nel periodo francese della Belgiojoso: quella con François August Mignet (1796-1884), assurto a fama di insigne storico, grazie alla sua Histoire de la Révolution française depuis 1789 jusqu’en 1814, in dodici volumi editi nel 1824.
Il 23 dicembre 1838, nacque Maria, l’unica figlia della principessa. La paternità fu sempre mantenuta segreta, lasciando ai biografi il compito di risolvere l’arcano. Tra la ridda di ipotesi ancora oggi irrisolte, vi è chi, dopo infinite ricerche, maligna, asserendo trattarsi di un incontro occasionale avuto col marito, chi di un rapporto avuto col Pietro Bolognini, il suo segretario, e chi viceversa, vede in François Mignet, il vero padre di Maria, basando la convinzione sul fatto, che il nome Marie, assai poco diffuso nelle famiglie dell’aristocrazia lombarda, fosse lo stesso della madre di Mignet. Tutte supposizioni queste, indotte dalla mancanza di una effettiva registrazione della nascita della bimba presso gli archivi anagrafici di Versailles, dove Cristina sicuramente partorì avendo fatto lì, vita ritirata sia nei mesi precedenti all’evento, che in quelli immediatamente successivi.
Necessità di tacitare lo scandalo
Era certamente inaccettabile che la figlia di un’aristocratica fosse illegittima: lo scandalo che ne sarebbe derivato, superava i limiti della tollerabilità. D’altra parte, nel caso François Mignet fosse stato realmente suo padre, cosa molto probabile, essendo lui figlio di un fabbro, non sarebbe stato onorevole per una Principessa, farlo sapere in giro.
La legittimazione della figlia
Da ricerche effettuate, pare che in effetti il Bolognini fosse estraneo alla presunta paternità di Maria, ma che la principessa si servì di lui e della sua nuova moglie solamente per legalizzare Maria, facendola registrare in un primo momento, come figlia loro. Cristina però, preoccupata per la dignità della neonata, fece pressioni su suo marito Emilio, affinché la legittimasse. Lui, dopo un iniziale netto diniego, finì per accettare di riconoscerla come sua figlia, solo dietro lauto compenso. Proprio in conseguenza di questo, il Bolognini avrebbe chiesto grosse cifre di denaro alla principessa, probabilmente come sorta di ricatto o compenso per questo servizio resole.
La nascita di Maria indubbiamente provocò una svolta nella vita di Cristina. Da brava mamma, volle giustamente dedicarsi alla piccola, tralasciando i salotti che era abituata a frequentare e rinunciando ai ricevimenti cui di solito partecipava, per trascorrere alcuni anni in semi-isolamento. A quanto pare, viveva con Mignet e il loro amore brillava di luce propria, cosa che nessuno dei due tentò mai di dissimulare. Visti dall’esterno, lei era il maschietto di casa, dall’atteggiamento virile e intraprendente, lui, la femminuccia, tutta dolcezza e pazienza, cose queste, incomprensibili per la Parigi del tempo e quindi, inevitabili le maldicenze della gente, per il rovesciamento di ruoli nella coppia.
. Questo amore sincero, difeso solo da pochi intimi, quali Thiers, durò per tutto il decennio, finché un evento lo indirizzò in un senso diverso, ma sempre venato da un profondo affetto.
Il viaggio in Inghilterra (1839)
Nel 1839, con il fratello e le sue sorelle, Cristina si recò per alcuni mesi nel Regno Unito andando a trovare Luigi Napoleone Bonaparte, il futuro Napoleone III (lì in esilio dopo il suo primo tentativo di colpo di Stato del 1836, contro suo padre). In quell’occasione, lei riuscì a strappargli la promessa, che, una volta acquistato il potere in Francia, avrebbe operato a favore della causa risorgimentale italiana. Promessa da marinaio, perché dieci anni dopo, in occasione dei moti della Repubblica Romana, la storia lo avrebbe sconfessato totalmente, lasciando in lei un senso di profonda delusione ed amarezza.
Al rientro dall’Inghilterra, dopo una lunga sosta a Parigi, tornò in Italia assieme alla figlia passando da Ponte Tresa. Ad accoglierla al confine era venuta l’unica amica su cui poteva ancora fare affidamento: Ernesta Bisi. Sua madre Vittoria, era morta già da tre anni.
Il ritorno in Lombardia (1840)
Il primo impatto con la terra d’origine fu tutt’altro che positivo: l’atmosfera lombarda, nel 1840, era molto dimessa. Trasudava un senso di rassegnazione e tristezza, l’eco dei moti carbonari era lontano negli anni e nello spirito.
La principessa trentaduenne fu particolarmente delusa anche dall’accoglienza di alcune personalità: in particolare dalla freddezza dimostratale da Alessandro Manzoni, che, alla notizia della gravidanza avvenuta fuori da un rapporto matrimoniale, l’aveva emarginata come peccatrice. Arrivò non solo a non volerla fare entrare nella sua casa milanese, perché ritenuta donna eccessivamente anticonformista e progressista, di condotta inopportuna e scandalosa, ma addirittura a negarle la possibilità di recare l’ultimo saluto al capezzale della madre Giulia Beccaria (morta nel 1841), a cui Cristina era legata da sincera amicizia.
Ndr. – Con tutta probabilità, oggi il Manzoni si rivolterà nella sua tomba, sapendo che, il monumento a quella Cristina Trivulzio di Belgiojoso che lui non voleva nemmeno vedere, si trova ora collocato esattamente a pochi metri dall’ingresso principale della sua casa!
Non era unicamente Cristina ad avere simile sensazione: a sua parziale consolazione, la stessa era condivisa pure da Niccolò Tommaseo, deluso come lei del clima italiano in generale. Vi fu tra loro un fitto scambio di lettere in proposito, e pure riguardo alle iniziative sociali che Cristina aveva in animo di intraprendere.
Il suo impegno sociale e gli aiuti umanitari
Ripresa la politica attiva, a Locate, la Trivulzio malgrado le maldicenze e lo scetticismo generali, si spese per aiutare i contadini del paese, ed i poveri, organizzando una distribuzione di abiti per i mendicanti, di medicinali per i malati, donando doti alle sposine meno abbienti, creando mense a prezzi stracciati, un asilo, una scuola elementare, una scuola professionale femminile, corsi di formazione per maestre, una scuola agraria per uomini.
Trasformò il suo palazzo di Locate in un falansterio, cioè il centro di una comunità come idealizzata da Fourier, con alcune modifiche che lei volle apportare. Riservò pure una grande sala a funzione di scaldatoio pubblico, cioè un luogo in cui si offriva riparo, un pasto caldo, e un letto su cui dormire, a mendicanti e senza tetto. Nei suoi intendimenti, Cristina avrebbe voluto modificare anche gli insegnamenti religiosi, che non riteneva del tutto esatti, ma non osò tanto, per paura di inimicarsi anche la Chiesa.
Con il termine falansterio il filosofo e politologo francese Charles Fourier, agli inizi del XIX secolo, indicava la struttura abitativa in cui si svolgeva la vita dei membri dell’unità sociale di base, prevista nelle sue teorie e da lui denominata “falange”. Falansterio è, nell’utopia di Fourier, città-edificio destinata ad accogliere le abitazioni e le attività produttive di un’intera comunità.
Secondo il pensatore politico francese, ogni “falange” avrebbe dovuto essere costituita da un minimo di 1600 a un massimo di 2200 individui, comprendendo circa 450 famiglie.
L’attività economica della “falange” sarebbe stata fondata sulla proprietà societaria, in grado di garantire a tutti, la partecipazione agli utili, in proporzione dei conferimenti fatti al patrimonio comune. Tutti al suo interno, sarebbero stati, al tempo stesso, produttori e consumatori, partecipando agli utili sulla base di quelli che Fourier riteneva essere i tre fattori della produzione: capitale, lavoro e talento.
Il falansterio era formato da due corpi centrali, destinati ad abitazioni e a luoghi di riunione, e da due ali, nelle quali si svolgevano tutti i lavori di carattere artigianale e manifatturiero.
Nel falansterio l’attività giornaliera di ogni individuo sarebbe stata scandita in modo rigoroso da un regolamento interno: ora per ora, sarebbero stati fissati i compiti da svolgere, e anche i contatti e le interazioni personali sarebbero stati disciplinati da un preciso cerimoniale, spontaneamente accettato da tutti i componenti perché corrispondente agli interessi, alle esigenze e alle passioni di ognuno.
[rif. – Wikipedia]
Nel 1843, ritornò nuovamente a Locate, accolta con tutti gli onori dalla popolazione del luogo. Per alcuni anni, passerà una parte dell’anno in Lombardia e una parte in Francia, occupata a dare sviluppi ulteriori al suo impegno sociale e dedita alla stesura di importanti saggi. Nel 1842, ad esempio, aveva pubblicato l’Essai sur la formation du dogme catholique (Saggio sulla formazione del dogma cattolico), cui seguì un lungo e approfondito studio sulla Lombardia, prodromo all’azione politica in favore della causa risorgimentale.
Cristina tentò, senza molto successo, di estendere il proprio programma sociale ed umanitario, agli altri proprietari terrieri della Lombardia, inviando loro una circolare, nella speranza che avessero attenzioni particolari per gli orfanelli, presenti nella regione «in una proporzione assai maggiore […] che altrove». Tuttavia, la circolare non riscosse adesioni, e le intenzioni della principessa furono completamente disattese, al punto che invitò il celebre abate Ferrante Aporti a visitare le proprie strutture, ottenendo una valutazione molto positiva. Nemmeno questo fu sufficiente per riuscire ad esportare il modello di Locate, ma il giudizio dell’abate e gli sviluppi successivi di questa avventura sociale e umanitaria avrebbero conferito al lavoro della Belgiojoso, un’importanza non trascurabile, tanto più che lei arrivò ad organizzare associazioni fra lavoratori, anticipando il sindacalismo.
Nel 1844 si aggiunse per Cristina un ulteriore onere: il 10 giugno moriva a Parigi Julie de Quérengal, moglie di Augustin Thierry, lasciando alla Belgiojoso il compito di prendersi cura del filosofo ormai cieco e semi–invalido.
Nel frattempo non era cessato il contatto con gli amici d’oltralpe: Franz Liszt, Alfred de Musset e la sua amante Caroline Jaubert (scrittrice), intrattenendo in particolare con lei, un carteggio estremamente fitto. Mignet, invece, lasciò, a quanto pare, per un anno senza risposta le lettere di Cristina. Poi, tramite un amico, si rifece vivo rintrecciando il rapporto, finché le chiese di recarsi in Francia. La principessa accettò, e nell’estate del 1842 ritrovò, per lo spazio di qualche mese nell’ambiente che non aveva dimenticato, ma che rivedeva con occhi nuovi, sempre più lontana dalle distrazioni mondane.
Nuove frequentazioni in casa Belgiojoso a Parigi
Fu inoltre tempo di nuove conoscenze: a Parigi venne in contatto con l’esule tarantino Giuseppe Massari, che dividerà le proprie frequentazioni tra casa Belgiojoso e il salotto della marchesa Costanza Arconati (e la cui «malaugurata passione» per la Belgiojoso, non ricambiata, lo porterà spesso a parlarne male alle spalle), e con Victor Considerant, personaggio il cui influsso sulle idee della nobildonna sarà alquanto significativo. Conosciuto all’inizio del 1844, il discepolo di Fourier diventò presto un caro amico, come caro e fedele amico sarà Gaetano Stelzi, giovane malato di tubercolosi che aiuterà la Trivulzio nella fervente attività giornalistica degli anni appresso.
La visita a Luigi Napoleone, in carcere (1845)
Nell’autunno 1845, andò in Piccardia, per rendere visita a Luigi Napoleone, il futuro Napoleone III, imprigionato dal 1840 nella fortezza di Ham in seguito al suo secondo tentativo di colpo di stato per rovesciare il padre Luigi Filippo di Orléans (fratello minore di Napoleone Bonaparte). Constatato l’assoluto disinteresse che la monarchia allora al potere, nutriva nei confronti del nostro paese, Cristina sperava di trovare in Luigi Napoleone un alleato, disposto a spendersi per la liberazione dell’Italia.
Ndr. – Il 25 maggio 1846, con l’assistenza del suo medico e di altri complici, Luigi Napoleone si travestì da operaio ed evase dal carcere; prese una carrozza e poi una nave che lo portò in Inghilterra. Un mese dopo la sua fuga, il padre Luigi morì, rendendo Luigi Napoleone l’erede incontestato della dinastia Bonaparte.
La convinzione da “repubblicana” di Cristina, era l’instaurazione in Italia di una repubblica simile a quella francese; ma se per realizzarla, era prima necessario unificare l’Italia cacciando gli austriaci, solo i Savoia sarebbero stati in grado di farlo. Secondo lei, era quindi necessario sostenere re Carlo Alberto e la sua monarchia.
L’attività giornalistica
L’attività giornalistica di Cristina, diventò in effetti preminente dal 1845 fino alla insurrezione di Milano del 1848. Le sue prime prese di posizione furono moderate. Quando a Parigi venne fondata la Gazzetta italiana, intenzionata a patrocinare un regno nell’Italia centrale affidato a un discendente di Bonaparte, alcune traversie rischiarono di far già chiudere i battenti della testata, ma Cristina si impegnò finanziariamente per salvarla, accettando la richiesta di aiuto del direttore Marino Falconi. Fu lei a prendere il timone del giornale, andando alla ricerca di collaboratori illustri e scrivendo articoli di suo pugno. La testata si avvalse di firme importanti come quella di Massari e di Pier Silvestro Leopardi.
Quando, nell’autunno del 1845, la Trivulzio tornò in Italia, promosse la diffusione clandestina della Gazzetta in patria – soprattutto grazie all’impegno del suo giovane collaboratore Gaetano Stelzi, raccogliendo i consensi e i contributi di Giuseppe Montanelli e Angelo Brofferio. Tuttavia, la forte opposizione che i patrioti mazziniani mostrarono in Francia nei confronti della Gazzetta e la severa censura esercitata dagli austriaci in Italia convinsero Cristina ad abbandonare il progetto, ma solo per dare vita a un periodico di più ampio respiro, l’Ausonio, il cui primo numero uscì il 1º marzo 1846.
Fra i suoi scritti, il “Della presente condizione delle donne e del loro avvenire”, è uno dei suoi studi sociologici più rigorosi, che contiene gli elementi essenziali per comprendere la realtà dell’epoca. Lei afferma che “la società si è formata sulla base della supposta inferiorità delle donne”, lamentando la difficoltà di cambiare la situazione, perché sono le donne stesse a contribuire, sbagliando, a sottovalutare le proprie doti naturali; in un Paese dove sopravvivono pregiudizi medioevali, e tradizioni sociali che impediscono di raggiungere un piano sociale più elevato, ogni sforzo, in questo senso, viene frustrato.
Le Cinque Giornate di Milano (1848)
Era a Napoli quando, nel 1848, scoppiò l’insurrezione delle Cinque Giornate di Milano. Non ci pensò un momento: s’imbarcò su una nave diretta a Genova pagando il biglietto di viaggio a circa 200 volontari napoletani che decisero di seguirla, per dare manforte ai milanesi sulle barricate. In effetti arrivarono in ritardo, quando gli austriaci si erano già, da qualche giorno, ritirati da Milano. Indipendentemente dal tipo di governo che sarebbe seguito, l’obiettivo principale di Cristina era l’espulsione definitiva degli odiati stranieri dal suolo italiano. Il popolo milanese, scrive la principessa, si preparò a salutare il nostro arrivo con dimostrazioni di sostegno alle quali il Governo Provvisorio stimò prudente associarsi. I miei duecento volontari, scrive al principessa, furono i primi Italiani, dopo i Piemontesi a venire in Lombardia per prendere parte a quella che veniva allora chiamata la “Crociata” o la “Guerra Santa”. La presenza di volontari napoletani dava la sensazione che la guerra contro l’Austria, non fosse solo una questione piemontese-lombarda, ma italiana.
Fu in questa occasione che ebbe modo di conoscere la contessa Clara Maffei, diventando regolare ospite del suo salotto, luogo d’incontro non solo di compatrioti, ma pure di numerosi intellettuali europei (alcuni dei quali già conosciuti, perché già abituali frequentatori del salotto di Cristina a Parigi): fra questi, Honoré de Balzac, Franz Liszt, Giuseppe Verdi, Daniel Stern, Alessandro Manzoni, e molti altri.
La ritirata degli austriaci dalla città, dette ai milanesi , per qualche mese, l’illusione della libertà riconquistata. Quando tornarono in forze il 6 agosto di quello stesso anni , dopo l’incredibile disfatta di Novara subita dalle truppe piemontesi di Carlo Alberto, ci fu un fuggi-fuggi generale dalla città: tantissimi, per aver salva la vita, preferirono espatriare (in Piemonte o nella Confederazione Svizzera) prima che le forze d’occupazione entrassero fisicamente entro le mura della città. Pure Cristina, umiliata e scoraggiata, ma indomita come sempre, il giorno prima che loro entrassero, fu costretta a riprendere la via dell’esilio: con la figlia di 10 anni, si diresse in Francia, confidando nell’appoggio alla sua causa da parte delle amicizie di un tempo, e sperando in un intervento militare francese a fianco dei patrioti italiani. Andò prima a Grenoble, poi a Parigi ma, nonostante i suoi contatti con personaggi influenti per convincere il governo, come Mignet ed Edgar Quinet, (storico e politico francese), non riuscì ad ottenere nulla.
Il 6 agosto 1848, gli austriaci rientrarono in città. Una volta reinsediatisi, iniziarono subito le perquisizioni, casa per casa, alla ricerca di documenti compromettenti per poter incriminare gli sventurati patrioti che, a fine Marzo, avevano temporaneamente liberato la città, costringendo gli austriaci alla ritirata. Fu proprio in quest’occasione che Cristina Belgiojoso (assente) fu oggetto di particolare indagine da parte degli inquirenti, per uno strano caso di omicidio.
Durante una perquisizione della villa della principessa, la polizia rinvenne il cadavere di un uomo vestito di nero nel guardaroba del suo appartamento privato. Naturalmente il primo pensiero fu che si trattasse di un delitto. Il guardiano della villa fu arrestato e si diede l’avvio ad un’indagine. Il corpo fu subito identificato come quello du un tal Gaetano Stelzi, un giovane collaboratore della principessa per il suo giornale “il Crociato” e, in quanto tale, ospite frequente in casa sua, sia a Milano che in campagna. Ma secondo i registri parrocchiali, Gaetano Stelzi era stato sepolto nel cimitero di Locate, alla presenza di numerosi testimoni, il 19 giugno 1848! Eppure sull’identità del corpo che ora si trovava di fronte agli atterriti spettatori, non c’era possibilità di nutrire alcun dubbio; accuratamente imbalsamato, era in perfetto stato di conservazione. Una ricognizione della tomba presso il piccolo camposanto del paese, rivelò che la bara là sepolta, conteneva solo un pesante tronco di legno. Fu poi acclarato che Stelzi, un ventisettenne affascinante e pieno di talento, ma già tisico all’ultimo stadio, era morto all’improvviso per una emorragia polmonare e ciò era accaduto il 16 giugno 1848, nella casa milanese della principessa, alla presenza di lei, terrorizzata. Per qualche inspiegabile ragione aveva fatto in modo che il corpo venisse parzialmente imbalsamato, mentre la bara era stata seppellita a Locate, nel giro di tre giorni. Resta però irrisolto il mistero che avvolge il trasferimento segreto del cadavere in un armadio della sua villa e quel funerale fittizio, celebrato per un pezzo di legno!
[tratto da : La Principessa rivoluzionaria di H. Remsen Whitehouse]
La Repubblica Romana (1849)
Nel 1849, Cristina Trivulzio si ritrovò a Roma, in prima linea, nel corso della battaglia a difesa della Repubblica Romana, durata dal 9 febbraio al 4 luglio. Le assegnarono l’organizzazione degli ospedali, compito che nonostante la mancanza di strumenti chirurgici , tentò di assolvere al meglio. Fu lei, infatti, a dirigere e ad organizzare gli ospedali, creando la figura dell’infermiera laica, nonostante le critiche per aver permesso a donne di dubbia moralità di occuparsi dei feriti, al pari delle nobildonne e delle popolane.
Pure lì, le cose andarono male. La rivolta venne sedata e per di più, proprio con l’aiuto dei francesi sui quali Cristina aveva tanto contato. Sentendosi tradita proprio dal Napoleone III su cui aveva riposto tutte le sue speranze di libertà. La fase più irruente ed appassionante del suo impegno politico, poteva dirsi conclusa: a Roma aveva raggiunto il massimo del suo fervore patriottico.
L’esperienza in Asia Minore (1850 – 1855)
Da Roma, da esule, si mise in viaggio verso Malta, poi da lì, in Grecia, per finire poi a Costantinopoli (oggi Istanbul) e quindi in Asia Minore, in Anatolia, nella sperduta e desolata valle di Ciaq Maq Oglù, (località esistente a quell’epoca nell’odierno distretto di Kadıköy) vicino ad Ankara, in Turchia.
Lì, con pochi soldi (in realtà era una cifra esorbitante per i turchi, totalmente fuori mercato), riuscì ad acquistare un vasto terreno sulle rive di un fiume, con casa, mulino e persino una segheria, e soprattutto l’impagabile protezione dei padroni di casa in quella zona semi desertica e abbastanza inospitale. Con la figlia Maria tredicenne e pochi altri esuli italiani, impiantò un’azienda agricola dove riqualificò le colture agrarie, dando lavoro a molte persone del luogo e dimostrando capacità di validissima imprenditrice, illuminata, sempre vicina ai lavoratori, sensibile alle loro esigenze, pronta ad aiutarli nella soluzione delle loro problematiche quotidiane. Fece costruire dei piccoli canali per l’irrigazione dei campi, acquistò del bestiame, fece fare delle stalle, una casa, dei granai, fece piantare dei vitigni sulla collina.
Nei momenti di tranquillità, scriveva le sue esperienze nel suo libro Asie Mineure et Syrie, capitoli pubblicati per la prima volta nel 1858, sulle colonne della Revue des Deux Mondes. Mentre era lì, nel gennaio del 1852, assieme alla figlia e ad altri pochi fidati, fece pure un viaggio a cavallo sino a Nazareth, e Gerusalemme, per visitare i luoghi santi. Ritornò nella sua tenuta nel dicembre di quell’anno.
L’attentato (1853)
Durante la lunga assenza, la mancanza della supervisione della padrona sul personale dipendente, non aveva certamente migliorato la situazione economica dell’azienda appena avviata. Nel tentativo di rimettere ordine fra i dipendenti, scartando chi aveva provocato guai durante la sua assenza, Cristina fu oggetto di un attentato da parte di un membro della sua servitù, un italiano che, doveva essere stato licenziato di recente per la sua pessima condotta. Furibondo per il ben servito, il domestico comparve furtivamente alle sue spalle e la assalì selvaggiamente, pugnalandola ripetutamente (pare sette coltellate). L’avrebbe sicuramente finita, se non fosse arrivata all’improvviso la figlia, la cui presenza provocò la fuga dell’assalitore, abbandonando la sua vittima in una pozza di sangue. Cristina si salvò grazie alle nozioni apprese a Roma, nel periodo in cui aveva assunto la direzione dell’ospedale per il ricupero dei feriti nel periodo dell’insurrezione romana. Si curò da sola, ma alcuni fendenti, avendo evidentemente leso qualche organo interno, le crearono alcuni problemi permanenti nella postura.
Restò in Asia Minore, esule, per cinque anni in tutto: sfruttando poi un’amnistia del 1855, ottenne dalle autorità austriache non solo il permesso di tornare in Italia, ma pure il dissequestro di tutti gli immobili di sua proprietà.
Nuovamente in Italia (1856)
Subito dopo il rimpatrio a Locate, nella residenza di famiglia, desiderosa di un’esistenza più tranquilla e lontana dei clamori di una ribalta che esercitava su di lei un fascino sempre minore, Cristina ebbe modo di rilevare la drammatica situazione umana delle famiglie contadine del suo paese. Mentre infatti i genitori e i figli più grandicelli lavoravano tutto il giorno nei campi, i più piccini restavano per ore, soli in casa totalmente abbandonati mentre le malattie contratte in mezzo alle paludi e l’aria malsana, falcidiavano la popolazione.
Cristina non esitò a spendersi in favore dei poveri del luogo: malgrado le maldicenze e gli scetticismi generali, creò un nuovo asilo, riducendo significativamente il tasso di analfabetismo tra i bambini.
Spinta dall’amico Tommaseo a continuare su questa strada, la Belgiojoso aprì anche una scuola elementare per ragazzi e ragazze, una scuola professionale femminile e una scuola di tecnica agraria maschile, dei laboratori artigianali per pittori, rilegatori, restauratori. Si diede pure da fare per riportare l’ordine sociale in quella comunità. Imponendo restrizioni, come la chiusura delle osterie, la sera dopo le 21 e nei giorni festivi, durante le celebrazioni religiose, ottenne una drastica riduzione degli episodi di violenza in paese.
I suoi ultimi anni
Il 17 Febbraio 1858 venne a mancare nel palazzo dei suoi antenati, in piazza Belgiojoso a Milano, il principe Emilio (suo marito), per complicanze dovute alla sifilide.
Nel 1860, presenziò il matrimonio di sua figlia con il marchese di Fresonara, Ludovico Trotti Bentivoglio, un patriota e politico che sarebbe poi diventato senatore del Regno d’Italia nella XVII legislatura.
Nel 1861, Cristina ebbe modo di gioire vedendo finalmente costituita l’Italia unita, da lei tanto agognata. Minata nel fisico, a cinquant’anni, era prematuramente molto invecchiata. Pochi anni dopo, camminava talmente incurvata, che una persona alle sue spalle, non avrebbe potuto vederne il capo. Da quel momento verrà dimenticata da tutti, quasi non servisse più. Abbandonata la politica, si ritirò a vita privata tra la casa di Milano, il palazzo di Locate e una villetta che aveva acquistato a Blevio, sul lago di Como, accompagnata dal fidato Budoz, il servo turco che l’aveva seguita ormai da un decennio al suo rientro dal periodo in Asia Minore e da Miss Parker, la governante inglese che aveva vissuto con lei fin dal suo primo viaggio (1839) in Inghilterra.
Continuerà ad organizzare ancora pranzi salotti, rivedendo non solo i vecchi amici, ma pure i nuovi interessati a conoscerla per quanto avevano sentito parlare di lei. Ormai comunque, non era più quella di un tempo, si sentiva come svuotata, senza più alcun interesse, tanto che, riferiscono i maligni, spesso si addormentava mentre gli ospiti parlavano …
La morte (1871)
Morì a Milano, di polmonite, la sera del 5 luglio 1871, all’età di soli 63 anni. Aveva vissuto abbastanza da assistere al coronamento della grande opera cui aveva dedicato tutte le sue energie: l’Italia finalmente unita, governata da una monarchia costituzionale, con capitale a Roma.
Aveva sofferto di varie malattie, subito moltissime peripezie, tutte cose queste, che le avevano lasciato diverse ferite, non solo nel corpo ma pure nell’animo. Aveva chiesto di farsi seppellire a Locate, paese che sentiva come fosse la sua casa, il luogo dove amava tornare, quando si sentiva fragile. La sua malattia le aveva impedito il consueto trasferimento estivo a Locate o nell’altra residenza di Blevio. In suo onore, e per gratitudine nei suoi confronti, Locate, già nel 1862, (quando lei era ancora in vita), aveva deciso di cambiare denominazione assumendo parte del suo cognome e diventando così ufficialmente “Locate di Triulzi”. Questo paese era la sua casa, qui c’era la sua gente e, nonostante i suoi numerosi viaggi, vi ritornava quando poteva. Fu sepolta in un sarcofago nel parco del cimitero di Locate di Triulzi, dove la sua tomba si trova tuttora.
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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