Giuseppe Grandi
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Chi è, o meglio, chi era costui? Uno scultore! Indubbiamente un soggetto importante, se l’Amministrazione Comunale , per ricordarlo, gli volle dedicare persino una grande piazza di Milano, lungo Corso XXII Marzo. Fu uno degli artisti della Scapigliatura milanese, uno degli scultori lombardi di maggior rilievo del XIX secolo, che, pur nella sua breve esistenza, seppe distinguersi per aver lasciato alla città alcune testimonianze rilevanti del suo operato. Mi soffermerò soltanto su alcune opere fra le più significative, dopo aver tracciato una sua breve biografia.
I suoi primi anni
Terzo di sei fratelli, Giuseppe Domenico Grandi nacque a Ganna, in Valganna, nel Varesotto, il 17 ottobre 1843, da famiglia modesta: il padre Francesco Giuseppe, falegname, e la madre Marianna Cerutti, casalinga.
A tredici anni, iniziò il suo apprendistato presso il laboratorio di un artigiano di Bisuschio, un paese vicino, dove cominciò ad apprendere le tecniche di base per il trattamento del marmo. Scoprendosi portato per quell’attività, fu quindi inviato a Milano, ancora adolescente, per poter proseguire la pratica del mestiere di scultore, sotto la guida di altri maestri, nello studio del conterraneo Francesco Pelitti e i fratelli Boni, che avevano pure una fornace di terrecotte. Lavorò anche con Lorenzo Vela, uno scultore italo-svizzero, allora docente aggiunto alla scuola di ornato presso l’Accademia di Brera. Nel 1860, Giuseppe, ormai diciassettenne, venne iscritto infatti ai corsi di figura dell’Accademia, dove frequentò la sala delle Statue dal 1862 al 1864. Si trasferì quindi a Torino, per proseguire i suoi studi all’Accademia Albertina presso la cattedra di scultura, tenuta da Vincenzo Vela (pure lui scultore, più famoso del fratello maggiore Lorenzo Vela) e frequentando il laboratorio di Odoardo Tabacchi. Sarebbe rimasto lì, fino al 1866.
I suoi primi lavori
Nel 1861 e 1862, a Milano, ebbe modo di distinguersi nella sezione di plastica (cioè di scultura) della scuola d’ornamenti e in quella della scuola di disegno di figura dell’Accademia di Brera. Nel 1864 esordì a Brera con l’esposizione di un medaglione in marmo, rappresentante “il birichino di Parigi”,
Non mancò di primeggiare anche quando si trasferì a Torino, dove, nel 1865, ricevette delle menzioni speciali e pure una medaglia d’argento, al concorso annuale di scultura dell’Accademia Albertina, per un bassorilievo sul soggetto “L’incontro di Giacobbe con Rachele“, da lui donato poi alla stessa Accademia. Le prime influenze stilistiche nella scultura di Grandi, si devono al verismo di Vincenzo Vela.
Tornato a Milano nel 1866, presentò a Brera un altro bassorilievo in marmo, avente per soggetto “l’Otello“. Lo stesso anno, vinse il premio di scultura per la Fondazione Canonica dell’Accademia di Brera, con un’opera dedicata ad “Ulisse, in atto di tender l’arco“.
Tornato nuovamente a Torino, finiti i corsi di studio, Giuseppe Grandi iniziò a lavorare con lo scultore verista Odoardo Tabacchi.
Ndr. – il monumento a Cavour, nella piazza omonima a Milano, è opera proprio di Odoardo Tabacchi (1831 – 1905), con la collaborazione di Antonio Tantardini
Totalmente incurante delle necessità quotidiane, nessuno sembrava essere più spensierato di lui: se gli pagavano un lavoro, non metteva mai il denaro in tasca, ma lo teneva stretto in pugno come se avesse avuto paura che scappasse, e correva all’osteria a berlo cogli amici; né, finché l’aveva finito, c’era verso si rimettesse al lavoro: così veniva descritto da Carlo Romussi, giornalista e studioso di storia milanese.
Il monumento a Cesare Beccaria
Nel 1868, Giuseppe Grandi, allora venticinquenne, partecipò al concorso per un monumento da erigersi a Milano in onore di Cesare Beccaria, iniziativa questa, a sostegno della proposta di abolizione della pena di morte, promossa nel 1865 dalle pagine della Cronaca grigia, la rivista della Scapigliatura milanese, diretta da Cletto Arrighi.
Ndr. – La pena di morte venne abolita in tutto il Regno d’Italia nel 1889, con l’approvazione, quasi unanime da parte di entrambe le Camere, del nuovo codice penale di Giuseppe Zanardelli. allora ministro della Giustizia del governo Crispi
La commissione del concorso deliberò nella seconda selezione, ristretta a due soli bozzetti, di assegnare la realizzazione del monumento al progetto di Giuseppe Grandi, che portava l’epigrafe “Essere o non essere, questo è il problema“. Con quella didascalia, il giovane scultore intendeva significare che dall’esito di quel concorso, sarebbe dipeso il suo futuro.
Completata l’opera nel dicembre del 1870, con qualche lieve modifica rispetto al bozzetto originario, il Monumento a Cesare Beccaria, venne inaugurato ufficialmente domenica 19 marzo 1871 nella piazza omonima. La statua in marmo del giurista, rappresentato in atteggiamento quotidiano, in veste da camera, è oggi sostituita In piazza Beccaria, da una analoga scultura in bronzo. Quella originale, fa oggi bella mostra di sè all’interno del Palazzo di Giustizia. Al suo basamento, vi sono i bassorilievi allegorici della Civiltà, seduta su un ampio scranno in atteggiamento austero, e del Tempo, che si leva in volo, coprendosi il volto, su un paesaggio tutto distruzione e morte.
Commesse da parte della Fabbrica del Duomo
Stava ancora lavorando sul Monumento a Beccaria, quando ottenne la commissione per la statua di Santa Tecla per il Duomo di Milano, collocata nel 1869 nel braccio di croce meridionale . Qualche anno dopo, nel 1877, la Veneranda Fabbrica gli commissionò la statua di Sant’Orsola, sistemata poi sul quarto pilone a destra della navata centrale, all’interno della Cattedrale.
Contatti con la Scapigliatura milanese
Con la vita da bohémien che conduceva, Giuseppe Grandi non ebbe difficoltà ad entrare in contatto con l’ambiente della “Scapigliatura milanese”, movimento artistico letterario creato proprio in quegli anni, da Carlo Righetti (noto con lo pseudonimo di Cletto Arrighi). Si guadagnò la stima di Giuseppe Rovani, noto scrittore e giornalista, e fece amicizia con i musicisti Benedetto ed Enrico Junck, il violinista e direttore d’orchestra Vespasiano Bignami, Domenico Induno e Tranquillo Cremona, entrambi validissimi pittore e ritrovando pure Daniele Ranzoni, compagno che aveva frequentato l’Accademia Albertina di Torino, negli stessi anni del Grandi.
La “Scapigliatura milanese” prende nome da una libera traduzione del francese bohème, che si riferiva alla vita scapestrata e anticonformista degli artisti parigini.
Le caratteristiche degli artisti “Scapigliati” erano la tecnica di sfumare le figure, la concezione cittadina della vita e dell’arte, una volontà di rinnovamento dell’arte e della politica, la critica del potere e delle convenzioni borghesi.
Gli artisti che meglio interpretarono questi sentimenti, furono principalmente Tranquillo Cremona (Pavia 1837- Milano 1878), Daniele Ranzoni (Intra 1843-1889) e Giuseppe Grandi (Ganna 1843-1894), la cosiddetta “trinità dei nani giganti”, come ironicamente amavano definirsi, per la bassa statura del terzetto.
In seguito, furono tra i suoi amici ed estimatori, poeti come Carlo Borghi e Carlo Dossi, l’architetto Luca Beltrami e i pittori Luigi Conconi e Giuseppe Mentessi, che si occuparono anche delle sue opere dopo la scomparsa dell’artista; ma anche il pittore Gaetano Previati, il quale subentrò nello studio che Grandi abbandonò negli anni Ottanta, quando si trasferì nel nuovo, più grande, costruito appositamente nella zona dell’Acquabella, per la realizzazione del Monumento alle Cinque giornate.
Commesse per monumenti funerari
Indubbiamente il talento dimostrato nella realizzazione del monumento a Cesare Beccaria, fruttò a Giuseppe Grandi non solo una buona notorietà ma anche ulteriori commesse. Ebbe diverse richieste da committenti privati, tra cui quella di un monumento funerario per la famiglia Noseda da erigersi al al cimitero Monumentale di Milano., mai compiuto dall’artista. per incomprensioni col committente. Eseguì invece il Busto di Vincenzina Noseda, per la sua tomba.
Lo scultore realizzò diversi ritratti, busti e sculture funerarie per committenti privati tra i quali il musicista Benedetto Junk.
Giuseppe Grandi era uno scultore molto pignolo, per sua natura. Si narra che, dovendo eseguire una scultura funeraria dal titolo “la disperazione”, decise di prendere come modella, la moglie. Non riuscendo però ad ottenere da lei l’espressione desiderata, un giorno, rincasando, le annunciò che se ne sarebbe andato da casa, perché innamorato di un’altra donna.
La moglie, che lui sapeva innamoratissima, udendo le sue parole, scoppiò in un pianto disperato. Lui ne approfittò immediatamente per buttar giù degli schizzi in carboncino. Aveva ottenuto quello che voleva! La fuga con un’altra donna, era solo una messa in scena, per riuscire a far assumere alla moglie quell’espressione “disperata al punto giusto” che gli serviva!
Statuette varie
Il paggio di Lara
Nel 1873 presentò all’Esposizione annuale di Brera una statuetta di Alessandro Volta, della quale esistono, in collezioni private, la versione in gesso e quella in bronzo, e Kaled, al mattino del conflitto di Lara, poi detta Il paggio di Lara, soggetto ispirato al testo di George Byron nel quale, la giovane Lara si traveste da paggio suscitando l’amore ambiguo del protagonista.
La statuetta suscitò reazioni fortemente negative da parte della critica che vedeva in quest’opera, un carattere confuso e baroccheggiante. In ogni caso, si nota in questa scultura, l’influenza che su di lui, ebbe Tranquillo Cremona, dal cui modo di dipingere, Grandi riprese in scultura, sia la tendenza a sfaldare contorni e superfici, che il ricorso a temi romantici, in un’arte alla continua ricerca di nuove strade per scostarsi dalle tendenze più recenti.
Beethoven giovinetto
Motivi romantici ispirano anche il Beethoven giovinetto, esposto a Brera nel 1874 (gesso, nella Galleria d’arte moderna di Milano; bronzo, nella Civica Galleria d’arte moderna di Torino), eseguito su richiesta di Benedetto Junck, per lo studio del quale il Grandi. aveva realizzato anche una scultura raffigurante Wagner e decorazioni per un camino.
Maresciallo Ney
La ricerca di un plasticismo innovativo, libero da ogni forma di romanticismo retorico e lontano dai caratteri monumentali e celebrativi della scultura più convenzionale, si può cogliere nel “Maresciallo Ney“, statuetta che il Grandi espose a Brera nel 1875 senza indicazione dell’autore per sottrarsi alle polemiche sorte due anni prima a proposito del “Paggio di Lara.”
Il Maresciallo Ney costituisce una delle opere con cui meglio il Grandi dimostrò la strada intrapresa nel ricercare nei motivi scultorei, una dimensione intima, fondata sulle possibilità espressive e plastiche per evidenziare la similitudine con la contemporanea pittura. Venne realizzato in marmo, per essere poi ripreso, in dimensioni ridotte e con leggere variazioni, in più versioni (due, una in gesso e l’altra in bronzo, nella Galleria d’arte moderna di Milano). La versione originale in marmo finì nelle collezioni di Carlo Borghi – giovane letterato e giornalista, fondatore dell’Italia e del Guerin meschino, che dimostrò stima per l’opera del Grandi – e passò poi ai suoi eredi.
Garibaldino ferito
Il ricordo degli episodi risorgimentali trovò una concreta testimonianza anche nel Garibaldino ferito, che Grandi presentò come Rimembranze della campagna del 1860, all’esposizione di Brera del 1876, nel quale i contemporanei videro l’autoritratto dell’artista da giovane.
Giuseppe Grandi partecipò ai principali bandi di concorso per i numerosi monumenti ritenuti di maggior prestigio pubblico, che in quel periodo, venivano promossi in molte città. Dopo la morte di Vittorio Emanuele, ad esempio, egli partecipò a concorsi sia a Torino, che a Milano, ed anche a Venezia, per monumenti dedicati al re, senza riuscire comunque ad accaparrarsi alcuna commessa.
Wildt, allievo di Grandi
Allievo di Grandi, in questo periodo, fu lo scultore Adolfo Wildt (1868 – 1931).
Wildt aveva fatto la terza elementare serale. A nove anni, era stato già garzone da un barbiere, poi da un orafo e in seguito da un artigiano marmista. A undici anni (1879) entrò nella bottega di Giuseppe Grandi, dove svolse per anni mansioni di fatica, prima di andare a Brera a frequentare nell’anno 1885-1886 il corso accademico di Disegno e Figura.
Il monumento alle Cinque Giornate
Da anni era in corso una sottoscrizione pubblica per la realizzazione di un monumento per le vittime dell’insurrezione della città contro le truppe austriache, in quelle famose Cinque Giornate di Milano del 18-22 Marzo 1848.
Nel 1860, in attesa della costruzione di un monumento definitivo che onorasse i Caduti, venne assunto come Monumento alle Cinque Giornate, la Colonna del Verziere (nell’attuale Largo Augusto) che, da allora, cambiò nome in Colonna della Vittoria.
Le salme dei Caduti avevano trovato provvisoria collocazione nel sepolcreto della Ca’ Granda. A loro ricordo, fin dal 1861, erano state collocate, alla base della Colonna della Vittoria, delle lapidi con i nomi dei 352 Caduti di quelle tragiche giornate di sangue.
Nel 1879, il Comune indisse un primo concorso per il Monumento alle Cinque giornate in piazza di Porta Vittoria (ex Porta Tosa). Nella primavera del 1880, ebbe luogo la valutazione dei bozzetti presentati, tutti di carattere architettonico; la commissione approvò quello presentato da Luca Beltrami, ma all’esposizione al pubblico dei progetti pervenuti, la critica fu categorica nel giudizio negativo, al punto da costringere il Comune, a promuovere un nuovo bando di concorso, sperando che altri concorrenti presentassero nuove idee.
Fu così che, la primavera del 1881, Giuseppe Grandi, il quale non aveva partecipato al precedente concorso, decise di presentare il suo progetto, riuscendo a farlo pervenire alla commissione giudicante, sul filo di lana, proprio il giorno di chiusura dell’accettazione dei bozzetti. Il suo, fu l’unico progetto, fra quelli pervenuti, ad avere un’impostazione molto più scultorea che architettonica, cosa questa che fu molto apprezzata e gli valse l’incondizionata approvazione della commissione giudicante; approvazione che non tardò ad arrivare nemmeno dalla critica, nelle successive settimane di esposizione al pubblico, dei vari elaborati pervenuti. Così, Grandi riuscì ad ottenere la prestigiosa commissione, incarico che avrebbe dovuto essere portato a termine entro il 1886 e al quale si dedicò invece corpo e anima, fino a tutto il 1894. Il motivo di tutto questo ritardo, era dovuto alla sua convinzione che, dalla realizzazione di quest’opera, sarebbe dipeso il ricordo del suo nome per le generazioni a venire. Questo monumento risulterà essere pertanto il suo capolavoro!
Il suo, fu un lavoro davvero maniacale, non badando a tempo e spese, pur di realizzare i suoi obiettivi. Perse anni, solo per la ricerca dei materiali più adatti per la realizzazione dell’opera. Provò a fare un obelisco in pietra, ma non gli piacque e finì col sostituirlo con uno di bronzo fuso da lui stesso. Scelse accuratamente una pietra grigia di Biella per realizzare un piano smussato alla base del tutto, che porta a cinque gradini in granito di Svezia, pietra rosso bruno che somigliasse al porfido e che andò a scegliersi personalmente sul posto; al di sopra di questo il plinto di bronzo color verde antico e più in su ancora l’obelisco. E così operò analogamente per tutto il resto.
Come lo si vede oggi
Un obelisco imponente di 22,26 metri, è la cosa che balza subito agli occhi, guardando questo monumento da Corso di Porta Vittoria, all’altezza del Palazzo di Giustizia. in direzione di Corso XXII Marzo . Avvicinandosi poi a Piazza Cinque Giornate, l’obelisco che poggia su uno zoccolo di granito di Svezia, risulta essere circondato da cinque figure femminili, tutte modelle scelte volutamente di estrazione popolare, a rappresentare allegoricamente ognuna delle Cinque Giornate, con atteggiamenti ed espressioni, che fanno riferimento ai vari stati d’animo di quei momenti. Senza contare poi la rappresentazione simbolica di singoli episodi occorsi durante la sollevazione della popolazione milanese, dal suono delle campane che chiamò la popolazione all’insurrezione, al dolore per i Caduti e all’incitamento ai difensori sulle barricate; completano il tutto pure un leone e un’aquila reale- elementi figurativi, simboli questi ultimi, della difesa orgogliosa e dell’aggressività dei cittadini sulle barricate per la conquista dell’agognata libertà. Alla base del monumento, sotto il livello stradale, inaccessibile al pubblico, vi è la cripta, ove sono conservati i resti dei 352 caduti delle Cinque Giornate di Milano.
Per rendere l’opera più realistica possibile, cioè un monumento vivo, il Grandi perse tantissimo tempo a fare approfonditi studi dal vero, utilizzando addirittura animali vivi, ospitati in un piccolo serraglio, nell’ampio studio, dotato anche di piattaforme girevoli di varia dimensione, che lui stesso aveva fatto realizzare sotto i bastioni di Porta Vittoria, vicinissimo all’erigendo monumento. Aveva collezionato di tutto nel suo studio: galli, oche, tacchini, gatti, un’infinita serie di uccelli, un’aquila reale viva, fatta venire dalle Alpi e che chiuse in un gran gabbione sempre nel suo studio, [nell’attuale via Corridoni], ed anche Borleo, un vecchio leone africano acquistato, in svendita, da uno zoo di Anversa. Era andato lui stesso fino lì a cercarlo e lo fece trasportare a Milano, per poterne studiare meglio i particolari, per la scultura che intendeva realizzare. Naturalmente simili “originalità” dell’artista, non sfuggirono ai cronisti della carta stampata e furono pesantemente stigmatizzate nei periodici del tempo, facendo fiorire tutta una serie di aneddoti intorno al monumento che, ancora nel 1886, anno in cui avrebbe dovuto essere ultimato, non era praticamente ancora iniziato. Uno degli aneddoti che andava per la maggiore, era quello che riguardava proprio “el pòer Borleo” (il povero Borleo).
Sembra infatti che Borleo, fosse un leone troppo mansueto, per aver voglia di ruggire. Al Grandi, per il suo monumento, serviva una belva che, col suo ruggito, avrebbe dovuto rappresentare, l’idea del coraggio e della aggressività dell’insurrezione popolare. Non riuscendo a riprendere con veloci tratti di carboncino sulla carta un suo ruggito alla Metro Goldwyn Mayer, al colmo della rabbia, sperando di stimolare la belva ad una maggiore aggressività, le lanciava contro di tutto, pennelli, carta, scaglie di creta, pezzi di gesso, matite, e quant’altro gli capitasse sotto mano. Il leone, tranquillissimo, quasi divertito per il nuovo gioco, non solo non ruggiva ma non faceva una piega e regolarmente ingoiava tutto, finché un bel giorno gli venne una prevedibile occlusione intestinale e fu li lì per andarsene. A questo punto, a Grandi non restò che chiedere aiuto sul da farsi ai suoi amici scapigliati, Emilio Praga, Carlo Dossi e Luigi Conconi. Dopo un rapido conciliabolo, decisero di fare un serviziale al povero leone. Con un complicato marchingegno da loro stessi ideato, riuscirono coraggiosamente in quattro, a fare un mega-clistere al povero Borleo, che alla fine, una volta liberatosi, li gratificò con un clamoroso e liberatorio ruggito, da far tremare i vetri, squassando la gabbia e mettendo in fuga tutti!
Non vedendo ancora nel 1886, progredire l’opera commissionata, il pubblico cominciò a fare pressioni sul Grandi, soprattutto i veterani che, trentotto anni prima, avevano vissuto quella tragedia e che ora intendevano, prima di morire, vedere realizzato quel monumento. Così scriveva di lui Carlo Dossi:
< Giuseppe Grandi scultore, seccato dai veterani delle patrie battaglie del 48 (o sedicenti tali) che volevano dargli consigli mentre attendeva al suo monumentale gruppo delle 5 giornate, e venivano a seccarlo nel suo studio, diceva “sti veterani, sti veterani! on quai dì, metti un barettin de croat su un pal, e scappen tucc” – Si vantava a Grandi, una statua del D’Orsi di Napoli e gli si domandava se fosse andato a vederla. Rispose “g’hoo mandaa el me pontador”.
< Grandi, parlando di certi scultori che avevano bottega di statue fabbricate col braccio de’ loro puntatori, diceva “quand moeuren, va inanz la vedova”.>
Di certe cattive scolture che non valevano il marmo in cui erano fatte, Grandi diceva che si sarebbero dovute rompere in minuti pezzetti “per faa disimparà ai can el vizi de mangià el zuccher”.
Nel 1887, per tacitare gli animi, Grandi presentò alla commissione presieduta dall’amico Luca Beltrami e insediata su richiesta del Comune per controllare il suo operato, il bozzetto definitivo del monumento, a dimensione pari alla metà di quella definitiva, ultimo passo questo, prima della realizzazione dei calchi per la fusione.
Nonostante l’impegno profuso nella realizzazione di questo progetto, non disdegnò di partecipare con dei bozzetti, ad altri concorsi quali ad esempio un Monumento a Giuseppe Garibaldi e uno a Dante.
Non vinse nessuno dei due, anche se francamente ci sperava molto, al punto che la cosa gli procurò un profondo stato di depressione.
Il bozzetto del Monumento a Garibaldi venne giudicata troppo simile a quella del Monumento alle Cinque giornate e, seppur lodato dalla critica, non ottenne il successo, che fu invece attribuito al bozzetto di E. Ximenes
. L’altro suo bozzetto, il Monumento a Dante che pure venne selezionato unitamente a quelli di Cesare Zocchi e Ximenes, per un secondo giudizio ristretto, seppur lodato da critici di fama, non venne prescelto e ad a esso venne preferito quello presentato da Zocchi..
Amareggiato da tali insuccessi, e minato nel fisico da continue e ricorrenti crisi respiratorie, il Grandi tornò al lavoro attorno al suo monumento e, grazie anche all’acquisizione di un’ulteriore notevole porzione di terreno, trasformò lo studio addirittura in fonderia. Compose, modellò i vari calchi, operando lui stesso in prima persona le fusioni delle varie parti del monumento, delle singole figure e dei vari motivi ornamentali. L’obelisco, ad esempio, fu fuso da lui stesso, in un pezzo unico!
Nell’autunno del 1894, l’opera finalmente conclusa, venne collocata nella sua sede definitiva. Tuttavia, un ritardo del Comune nei lavori di sistemazione della piazza e della relativa viabilità tutt’intorno al monumento, unitamente al contemporaneo scoppio di una crisi politica al governo, costrinsero le autorità a rimandare l’inaugurazione del monumento all’anno successivo.
Ndr. – Il 22 Ottobre 1894, Il 22 ottobre 1894, in base a leggi di emergenza “antianarchiche” proposte dal governo guidato da Francesco Crispi, e approvate dalla Camera nel luglio dello stesso anno, venivano sciolte organizzazioni del movimento operaio, circoli e sezioni socialiste e lo stesso Partito socialista. [ rif. Critica Sociale ]
La morte prematura dello scultore
Caduto in uno stato di profonda depressione, a causa del rifiuto del suoi progetti per i monumenti a Garibaldi e a Dante e colpito da crisi respiratorie (tubercolosi), di cui soffriva da tempo, Giuseppe Grandi si ritirò, come era solito fare ultimamente, nella sua casa di montagna a Campobella di Valganna, per affidarsi alle cure della sorella maggiore Erina. Monsignor Pietro Bignami del dicembre 1894 raccontava di lui:
L’ultima frase caratteristica che Giuseppe Grandi disse, due giorni prima di morire, fu al suo infermiere, un mezzo contadino di Ganna “i dottor hin tutti asen. Se guarissi, te faroo on monument; se mo[eu]ri, te faroo fà vescov dal Signor”. L’ultima persona che riconobbe fu Monsignor Bignami, allora a Bregazzana, che andava a visitarlo quotidianamente. Grandi, il dì prima di morire, non ripeteva che il suo solito intercalare “già… già…”. Chiamato ad alta voce da Bignami “Peppin!” Grandi aperse gli occhi e tosto li rinchiuse. – Le cure dei medici furono savie ed affettuose, ma la malattia era mortale. Ed anche se fosse quella volta guarito, la morte l’avrebbe poco dopo vinto, perchè aveva polmoni tubercolotici. La famiglia sua era tutta di rachitici. Grandi prese dalla famiglia circa lire 30/m. che teneva in un libretto comune di risparmio. La scienza scultoria di Grandi, fondata sul solo suo genio. Grandi non aveva fatto alcun studio. Il genio lo creò scultore in marmo e fonditore in bronzo.>
Si spense in pochi giorni, il 30 novembre 1894, all’età di soli 51 anni, senza riuscire a vedere l’inaugurazione della sua opera maggiore.
L’inaugurazione del monumento alle Cinque Giornate
Il monumento, scoperto in suo onore, solo per mezza giornata, il 6 dic. 1894, all’indomani delle esequie dello scultore, venne poi ufficialmente inaugurato il 18 marzo 1895, in occasione delle celebrazioni del quarantasettesimo anniversario delle Cinque Giornate. In quell’occasione, avvenne pure la solenne traslazione dei caduti del 18-22 Marzo 1848, dal sepolcreto della Ca’ Granda, ove erano stati sepolti provvisoriamente, alla nuova cripta, sotto il monumento stesso.
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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