Giuseppe Parini: il poeta che sfidò il suo tempo
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Toggle“Statura alta, fronte bella e spaziosa, vivacissimo grand’occhio nero, naso tendente all’aquilino. aperti lineamenti rilevati e candeggianti, muscoli del volto mobilissimi e fortemente scolpiti, voce gagliarda, pieghevole e sonora, discorso energico e risoluto, ed austerità di aspetto raddolcita spesso da un grazioso sorriso, indicavano di lui, l’uomo di animo straordinariamente elevato, e concigliavangli una riverenza singolare”
Così Francesco Reina (1766-1825), suo grande discepolo e geloso custode delle sue reliquie letterarie, ci descrive il “suo” Parini, non senza aver prima raccontato della sua “violenta striatura di muscoli” di cui cominciò a soffrire all’età di ventun anni. Tanto che “credevasi da principio che il suo andare lento e grave, fosse una filosofica caricatura. Ma presto si conobbe proceder ciò da malattia …. “.
Giuseppe Parini (1729-1799), poeta e abate italiano del XVIII secolo, è stato uno dei massimi esponenti dell’illuminismo e del neoclassicismo in Italia. Tra i suoi lavori più celebri, vi sono il poemetto “il Giorno“, opera caratterizzata da un linguaggio satirico ed ironico, attraverso cui critica la nobiltà e i costumi della sua epoca, le “Odi“ che esplorano temi civili e morali, nonché opere teatrali quali “L’amorosa incostanza” e vari dialoghi, come il “Dialogo sopra la poesia”, in cui esplora temi sociali e morali con grande acume ed ironia.
Poiché Milano, oltre ad avergli intitolato uno dei licei più antichi e prestigiosi della città, ricorda oggi Giuseppe Parini con un grande monumento in Piazza Cordusio, ed un altro, altrettanto imponente, a Brera, vediamo di approfondire maggiormente la conoscenza di questo poeta, scoprendo qualcosa di più sulla sua vita.
L’infanzia e le origini di un maestro della poesia
Ultimo di tre figli di Francesco Maria, un modestissimo mercante di stoffe, e di Angiola Maria Caspani, casalinga, Giuseppe Parino, (che solo in seguito, avrebbe cambiato il cognome in Parini), nacque il 23 maggio 1729, a Bosisio (un piccolo comune sulle sponde del lago di Pusiano, in provincia di Lecco).
Ebbe come precettori, per la sua prima formazione, due parroci del suo paese. Finite le elementari all’età di 9 anni, le difficili condizioni economiche della sua famiglia, appartenente alla piccola borghesia brianzola, gli avrebbero certamente impedito la prosecuzione degli studi per poter dare una mano ai suoi, se non gli fosse capitata l’opportunità di trasferirsi a Milano. Una sua anziana ed “agiata” prozia senza figli, rimasta sola dopo la morte del marito, si era offerta di aiutare la famiglia, addossandosi le spese per l’educazione del pronipote, a patto però che il ragazzo accettasse di seguire gli studi ecclesiastici, per poter prendere gli ordini sacerdotali.
La sua dimora natale, ancora oggi esistente nel centro storico di Bosisio, è stata trasformata in una casa-museo aperta al pubblico, dedicata alla memoria del poeta. Con la mostra degli arredi e degli utensili dell’epoca, offre un piccolo spaccato nel mondo contadino di allora, luogo affascinante per chi vuole conoscere meglio la vita e le opere di uno dei poeti più amati del Settecento italiano.
Tra ostacoli e sogni: la complessa adolescenza di Parini
Così, Giuseppe, nell’autunno del 1739, all’età di dieci anni, da Bosisio, giunse (a piedi) a Milano, ospite della prozia, Angela Maria Parino vedova Lattuada, per proseguire gli studi presso il collegio di Sant’Alessandro (ex scuole Arcimbolde), gestito dai Barnabiti.
I suoi primi tempi da giovanissimo chierico e studente da poco arrivato in città, furono molto pesanti, specie dopo che i genitori, versando sempre in gravi ristrettezze economiche, furono costretti a raggiungerlo a Milano per trasferirvisi definitivamente, nel settembre del 1741, a seguito della morte dell’anziana prozia, avvenuta nel marzo di quell’anno. Giuseppe andò ad abitare con i suoi, in una vecchia casa di via Pantano, non lontano dal suo collegio. Così, poco più che dodicenne, mentre continuava a frequentare le scuole dai Barnabiti, per non pesare in famiglia, cominciò a guadagnarsi da vivere, dapprima trascrivendo documenti legali, e in seguito, impartendo anche lezioni private, senza mai tuttavia, abbandonare i suoi interessi, per la cultura classica e la poesia.
Nel 1752, fra mille difficoltà dovute sia a problemi fisici che di famiglia, riuscì a completare gli studi in collegio. Nonostante la giovane età, aveva cominciato a soffrire di artrite alle gambe e in famiglia, l’anno precedente, dopo una breve malattia, gli era anche morto il padre.
Il suo ingresso nell’Accademia dei Trasformati (1753)
Don Ambrogio Fioroni, curato di Canzo (località vicina a Bosisio), conoscendo i Parino, la loro situazione economica e le potenzialità del più giovane dei loro figli, decise di aiutare Giuseppe a farsi conoscere, mettendolo in contatto con l’ambiente culturale milanese.
L’occasione si presentò, dopo che il giovane chierico, spinto dagli amici, aveva dato alle stampe, alla fine del 1752, la sua prima raccolta di rime. Si trattava di novantaquattro componimenti poetici di vario argomento (sacro, profano, satirico, pastorale), che rivelavano la sua precoce inclinazione per la poesia, ispirata allo stile dell’Arcadia e ai poemi cinquecenteschi. Quasi a voler celare la propria identità, il titolo di quel suo primo volumetto, era “Alcune poesie di Ripano Eupilino”, ove Ripano è l’anagramma di Parino, ed Eupili è il nome latino del lago di Pusiano, sulle cui sponde era nato.
Fu subito dopo l’uscita di questa sua prima pubblicazione, che Giuseppe Parino, decise, per motivi stilistici e di identità letteraria, di cambiare il suo cognome in Parini.
Grazie alla presentazione che don Ambrogio Fioroni fece di lui e della sua prima raccolta di poesie, all’assemblea dei Trasformati, agli inizi del 1753, il giovane poeta ebbe l’opportunità, in quell’occasione, non solo di entrare in contatto con il mondo degli intellettuali milanesi, ma anche, pur essendo di umili origini, di ottenere l’inatteso onore di vedersi accettata l’iscrizione a quella prestigiosa Accademia.
L’Accademia dei Trasformati, sorta a Milano nel 1743, sulle fondamenta dell’omonima Accademia cinquecentesca, fondata nel 1546, radunava, nei salotti del conte Giuseppe Maria Imbonati (1688 – 1768), in via Marino (zona Piazza San Fedele), i più illustri rappresentanti della cultura milanese del tempo, intellettuali come il poeta dialettale milanese Carlo Antonio Tanzi, il poeta ed abate Gian Carlo Passeroni, il giurista e filosofo Cesare Beccaria, lo storico e storiografo conte Giorgio Giulini, la matematica Maria Gaetana Agnesi, e moltissimi altri.
Costituita in prevalenza da nobili ed ecclesiastici di ceto alto, ma anche da intellettuali appartenenti alla classe media e di modeste condizioni economiche come lo stesso Parini o Domenico Balestrieri, proponeva una letteratura strettamente legata ai modelli del classicismo rinascimentale e al diretto insegnamento degli autori antichi, cercando di superare l’angustia del modello pastorale arcadico, e aprendosi ai temi della vita contemporanea. Fecero parte dell’Accademia dei Trasformati, lo scrittore, critico letterario e drammaturgo Giuseppe Baretti ed anche il filosofo, economista e storico Pietro Verri, fino a quando quest’ultimo non se ne distaccò per fondare la rivista “Il Caffè” e l’Accademia dei Pugni. Rispetto a quest’ultima, l’Accademia dei Trasformati, pur essendo aperta alle nuove istanze illuministiche, assunse posizioni più moderate, cercando di conciliarle con la tradizione classica.
Gli accademici dell’Accademia dei Trasformati usavano incontrarsi due volte al mese e tenevano alcune sessioni pubbliche annuali, per presentare opere di recente pubblicazione e discutere di vari argomenti d’attualità, mostrando così interesse per le problematiche contemporanee. [ rif. – Wikipedia ]
Proprio all’Accademia dei Trasformati, Giuseppe Parini avrebbe fatto nuove importanti amicizie assaporando una cultura più aperta di quella cinquecentesca acquisita dai Barnabiti, quasi cosmopolita e avrebbe anche conosciuto proprio lì, i suoi futuri datori di lavoro e protettori.
1754: l’anno in cui Parini abbracciò il sacerdozio
Aveva 25 anni, quel 14 giugno 1754, quando, a Lodi, accettò di ricevere gli ordini sacerdotali. Non era certo vocazione la sua, ma solo per poter accedere alla modesta eredità che, da testamento, la prozia gli aveva lasciato, a condizione che fosse diventato effettivamente un prete, professione questa che, allora, rappresentava la più comoda sistemazione sociale, per un letterato di modesta condizione, come lui. In pratica, vestire allora la tonaca, era un modo per sbarcare il lunario, Pare che l’ambita eredità lasciatagli dalla prozia, consistesse in: uno dei suoi materassi a scelta, e una rendita annua di 224 lire relativa alla costituzione di un beneficio ecclesiastico di una messa giornaliera (vita natural durante) per l’anima sua (della defunta), vitalizio, che gli avrebbe consentito di dedicarsi con serenità ai suoi studi letterari.
Fra l’altro, anche il contesto storico di quel periodo, gli era stato favorevole: le diverse guerre di successione si erano appena concluse, e l’ultima, quella di successione austriaca, aveva definitivamente inserito Milano nell’ambito dell’impero asburgico. dando inizio, con Maria Teresa d’Austria, ad un lungo periodo di prosperità e di pace. Giuseppe si stava introducendo nella società e nella cultura, in un’epoca in cui i giovani, delusi dalla situazione presente, aspiravano a un mondo migliore e più equo. Sono di quel periodo, infatti, le Accademie, che sorsero non solo come luoghi di ritrovo fra amici intellettuali, ma anche come manifestazione di un autentico desiderio di rinnovamento e trasformazione della società del tempo.
Dal salotto nobile alla satira sociale: gli anni di Parini con i Serbelloni
(1754 – 1762)
Appena ordinato sacerdote, resosi conto che la modesta rendita lasciatagli dalla prozia gli era insufficiente per poter vivere in maniera dignitosa, pensò di incrementare i suoi scarni guadagni, impartendo lezioni ai rampolli della nobiltà milanese. Quando nel 1754, gli venne offerto l’incarico di precettore del “giovin signore” Gian Galeazzo un ragazzino di 10 anni, figlio del duca Gabrio Serbelloni e della colta ed affascinante duchessa Vittoria Ottoboni Boncompagni di Fiano, accettò di buon grado, restando a servizio presso di loro, per gli otto anni successivi.
Ciò gli offrì fra l’altro, l’opportunità, da un osservatorio privilegiato, non solo di analizzare lo stile di vita e le usanze della nobiltà dell’epoca, ma anche il luogo ove poter conoscere diversi intellettuali usuali frequentatori di Casa Serbelloni. Fu proprio nel salotto della duchessa, che incontrò per la prima volta Pietro Verri, o il medico Carlo Giuseppe Cicognini (che sarebbe poi diventato suo amico personale), e così pure diversi altri. Questo fu per lui, un periodo abbastanza prolifico: scrisse diverse opere, tra le quali, nel 1757, il Dialogo sopra la nobiltà in cui, dal punto di vista ideologico, si ricollegava ai grandi pensatori dell’Illuminismo francese come Voltaire e Rousseau. Attraverso il dialogo tra due personaggi, il nobile e il borghese, l’autore mette in evidenza le ipocrisie e le vanità della nobiltà, contrapponendole ai valori della meritocrazia e delle virtù personali.
Ebbe modo di osservare il fenomeno tipicamente italiano del cicisbeismo (molto in voga in quell’epoca), così come i vizi, le debolezze, la decadenza e le vanità dell’aristocrazia settecentesca, i loro costumi preziosi e raffinati, le loro stravaganze e i comportamenti sui quali successivamente avrebbe avuto modo di ironizzare pesantemente ne “il Giorno“, la sua opera più rilevante. Scrisse in questi anni, pure diversi componimenti poetici e saggi su argomenti legati alla vita quotidiana di allora, come ad esempio “sulla salubrità dell’aria“ (confronto fra quella di Milano e quella del lago di Pusiano),o “L’innesto del vaiuolo” (per la prevenzione delle epidemie grazie ai progressi della scienza).
Nel 1759 l’ingresso di Parini nella Massoneria
Faceva ancora il precettore presso i duchi Serbelloni, quando, nel 1759, Giuseppe Parini, allora trentenne, fu iniziato nella Loggia massonica milanese “L’Oriente”. Vi aderì per ragioni legate al suo interesse per l’Illuminismo e alla sua critica alla nobiltà. La Massoneria, con i suoi ideali di uguaglianza, libertà e conoscenza, rispondeva bene ai suoi ideali illuministi, senza contare che gli offriva pure un diverso ambiente di discussione e scambio culturale con altri intellettuali e pensatori dell’epoca. Non tenne mai nascosta la sua appartenenza alla Massoneria; anzi, nel più famoso dei suoi lavori letterari, il poemetto “Il Mattino” del 1763, lo dichiarò apertamente, inserendovi pure alcuni riferimenti simbolici.
A tal proposito, in seguito, negli anni ’80, una volta diventato amico della giovane Paola Castiglioni-Litta (1751-1846) e di parte degli esponenti della classe riformatrice milanese, avrebbe frequentato il suo rinomato salotto letterario, legato alla Loggia “La Concordia”, associata all’Oriente lombardo. Avrebbe avuto così modo di incontrare, nel corso degli anni a venire, diversi giovani scrittori e intellettuali dell’epoca: uno fra tutti, Vittorio Alfieri (1749-1803).
Nel Palazzo Castiglioni-Litta di Corso Venezia 10, (l’edificio è noto oggi, come Casa Fontana-Silvestri), si svolgevano gli incontri de “La Concordia”, la Gran Loggia milanese aderente all’Oriente lombardo, la sola Loggia massonica ammessa con editto, dall’imperatore Giuseppe II d’Asburgo-Lorena.
Un licenziamento che cambiò tutto: Parini e la nascita del “Mattino”
Nell’ottobre del 1762, Giuseppe Parini lasciò Casa Serbelloni (più probabilmente fu licenziato dalla duchessa), in seguito ad un contrasto sorto proprio con lei. Aveva osato prendere le difese della figlia del maestro compositore Giovanni Battista Sammartini, schiaffeggiata dalla duchessa in un momento d’ira, a seguito di un comportamento della ragazzina, presumibilmente considerato inappropriato.
Anche se non aveva più da badare al sostentamento della madre, che da qualche mese gli era venuta a mancare, l’improvvisa mancanza dello stipendio percepito in Casa Serbelloni, si fece subito sentire. Quell’improvviso esonero, gli costò mesi di pesanti privazioni.
Ritornò a rivedere nuovamente la luce, l’anno successivo, grazie all’inatteso successo del “Mattino“, poemetto che, dato da lui alle stampe in forma anonima, nel marzo del 1763, lo rese improvvisamente celebre.
Due anni dopo, nel 1765, nuovo suo successo, questa volta, con la pubblicazione del “Mezzogiorno” (sempre stampato in forma anonima). Entrambi questi suoi scritti, rappresenteranno le prime due parti de “il Giorno“ (la sua opera principale), poema di denuncia dei vizi della nobiltà parassita e corrotta.
1763-1768 Il periodo in Casa Imbonati e l’evoluzione di Parini
Il mecenate conte Giuseppe Maria Imbonati affidò al Parini, nel 1763, l’educazione di Carlo, di dieci anni, l’unico maschio tra i suoi sei figli. Nel 1764, in occasione dell’undicesimo compleanno del giovane allievo, fortunosamente uscito indenne dal vaiolo, il Parini gli dedicò l’ode “L’educazione”. in cui, l’autore esorta i giovani a seguire la virtù e a sviluppare un carattere forte e retto, evidenziando i pericoli di un’educazione basata solo sull’apparenza e sullo sfarzo. Parini usa uno stile satirico e ironico per mettere in risalto le contraddizioni e le ipocrisie della società del suo tempo.
Carlo Imbonati, allievo del Parini, è lo stesso nobile che, nel 1792, conoscerà Giulia Beccaria, madre di Alessandro Manzoni e, dopo un breve soggiorno in Inghilterra, andrà a convivere con lei a Parigi- Morirà poi nel 1805, lasciandola erede di una cospicua fortuna.
Il favore del Governo austriaco verso Giuseppe Parini
Il successo ottenuto dalla pubblicazione dei primi due poemetti satirici sulla nobiltà decaduta e corrotta, richiamò l’attenzione sul Parini da parte del conte Carlo Giuseppe di Firmian, Ministro plenipotenziario dell’Austria in Lombardia, promotore e fervido sostenitore delle scienze e delle arti. Avendo questi intuito le sue potenzialità poetiche, lo nominò, nel 1768 “poeta ufficiale” del Regio Ducale Teatro, incaricandolo subito di adattare per la scena lirica, la tragedia Alceste del poeta librettista Ranieri de’ Calzabigi.
Avendo il Governo centrale di Vienna, deciso di avocare a sé il controllo della stampa, Firmian pensò al Parini affidandogli, all’inizio del 1768, per quasi due anni, la direzione del settimanale “La Gazzetta di Milano“, giornale governativo, che usciva il mercoledì. Questo impegno, decisamente più interessante e remunerativo di quello di precettore, lo indusse a dimettersi dall’incarico assunto in Casa Imbonati.
Verso la fine del 1769, il conte di Firmian gli assegnò la cattedra di “eloquenza”, alle Scuole Palatine, in piazza Mercanti.
Tra il 1770 e il 1771, in occasione di due cerimonie di corte, Parini scrisse il testo di alcune opere teatrali come l’Amorosa incostanza e l’Iside salvata. In previsione poi dei festeggiamenti per le nozze (che si sarebbero celebrate il 15 ottobre 1771, in Duomo) tra l’arciduca Ferdinando Carlo Antonio d’Asburgo-Lorena (uno dei 16 figli dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria) e Maria Ricciarda Beatrice d’Este, gli venne arichiesta la stesura del libretto Ascanio in Alba, una “serenata teatrale” in due parti, musicata da Wolfgang Amadeus Mozart.
Nel 1773, quando, in seguito allo scioglimento della Compagnia del Gesù, le Scuole Palatine vennero trasferite nel palazzo di Brera (fino ad allora utilizzato dai Gesuiti), assumendo il nome di Regio Ginnasio di Brera, Giuseppe Parini, divenne titolare della cattedra di “Principi generali di Belle Lettere applicate alle Belle Arti”. Per rendergli meno difficoltosi gli spostamenti per tenere le sue lezioni, in seguito al riacutizzarsi della sua artrite alle gambe, nel 1777 si trasferì in un appartamento, messogli a disposizione addirittura nello stesso palazzo di Brera, abitazione che non avrebbe mai più cambiato. Questo gli permise di essere anche vicino all’Accademia di Belle Arti di Brera, luogo di grande importanza culturale e intellettuale.
Quello stesso anno, venne pure accolto nell’ Accademia dell’Arcadia di Roma con il nome pastorale di Darisbo Elidonio. Diventò in quegli anni, anche membro della Società patriottica di Milano, un’associazione fondata nel 1781, durante il periodo delle rivoluzioni giacobine, con l’obiettivo di promuovere idee patriottiche e riforme sociali.
Nel 1791 infine, gli fu assegnata anche la Sovrintendenza delle Scuole pubbliche di Brera, con un compenso finalmente adeguato che gli permise di superare le difficoltà economiche che fino ad allora lo avevano sempre angustiato.
L’impegno di Parini nella letteratura e nella critica sociale
Da quando iniziò l’insegnamento alle Scuole Palatine, fino al 1796, Giuseppe Parini, oltre ad onorare i vari impegni assunti, continuò sempre a dedicarsi alla letteratura e alla critica sociale. Durante questo periodo, scrisse diverse opere, tra cui
- Le Odi: una raccolta di 25 poesie che trattano vari temi, tra cui questioni sociali, morali e politiche. Iniziò a scriverle fin dal 1757, e solo nel 1791 pubblicò una prima edizione con 22 delle sue “Odi“, curata dal suo discepolo Agostino Gambarelli, non essendone rimasto soddisfatto, quattro anni dopo pubblicò una seconda edizione comprendente le precedenti 22 odi più altre tre scritte in quegli ultimi anni.
- Il Giorno: un poema satirico in endecasillabi sciolti, (ritenuto il suo capolavoro, rimasto incompiuto) in cui l’autore presenta un quadro parlante della nobiltà italiana del Settecento, ridicola, frivola, superba, oziosa, in netta contrapposizione con la vita operosa dei contadini e degli operai. Il giorno può essere anche interpretato come una riflessione sul significato della vita. Il poema mostra come la vita possa essere vuota e senza senso, se non è vissuta con intelligenza e consapevolezza.
Entusiasmo e disillusione di Parini nella sua lotta per una Milano più giusta
Giuseppe Parini, sentendo necessario il rinnovamento della società, predicava uguaglianza e giustizia, frequentando il salotto letterario della Paola Castiglioni-Litta e partecipando attivamente alla vita intellettuale della Milano illuminista.
Attento agli accadimenti di Oltralpe, inizialmente aveva riposto le sue speranze nella Rivoluzione francese condividendo i suoi ideali, ma , da moderato qual era, fin da subito ne condannò gli eccessi.
All’arrivo dei Francesi a Milano il 12 maggio 1796, il poeta accettò di buon grado di far parte della nuova Municipalità, sperando che i suoi ideali sociali e civili finalmente stessero per realizzarsi: fu in realtà una vana illusione! Rimase ben presto disgustato per i soprusi e il malgoverno dei demagoghi, oltre che per i pressanti controlli che gli impedivano il concretizzarsi di qualunque suo tentativo d’innovazione.
Il 21 luglio 1796, davanti alla municipalità di Milano, lesse una nobilissima dichiarazione, ma ingenuamente impolitica, con la quale rivendicava il diritto di dare una Costituzione alla Repubblica Cisalpina, senza attendere gli ordini di Parigi. La sua proposta non venne accolta, e per il suo moderatismo e la volontà di difendere l’autonomia della città a dispetto del nuovo occupante, venne giudicato pericoloso e quindi esonerato.
Quando, sconfitti i francesi, gli austro-prussiani, durante la Campagna Italiana di Suvorov, rioccuparono Milano quel 29 aprile 1799, egli li salutò, sperando riportassero un po’ di ordine e pace. Accettò quindi con piacere l’invito a commemorare la loro vittoria con uno dei suoi componimenti. Lo fece la mattina del 15 agosto 1799, dettando a un amico il sonetto “Predàro i filistei l’arca di Dio”. In questo suo scritto, manifestando la sua preoccupazione per la corruzione e l’egoismo dilaganti nella società, condanna senza riserve il malgoverno dei transalpini, (paragonati ai filistei), per le loro rapine e la pessima gestione. Salutando con simpatia, i nuovi vincitori, li ammonisce, con la sua consueta saggezza, ad amministrare la città con giustizia, in modo che i cittadini non abbiano a pentirsene.
La morte di Parini e l’eredità poetica
Incredibilmente quello stesso giorno, un paio d’ore dopo aver dettato questo suo ultimo sonetto, Giuseppe Parini spirò. Sebbene le fonti non indichino la causa della sua morte, è probabile che sia stato colpito da un infarto. Pochi mesi prima, aveva compiuto settant’anni.
Come da sua stessa esplicita richiesta, gli venne fatto un funerale modestissimo, di terza classe, e venne tumulato in una fossa comune nel cimitero della Mojazza (oggi non più esistente) fuori Porta Comacina. Le sue ceneri andarono così disperse. Tra i pochi partecipanti alla cerimonia vi fu Calimero Cattaneo, abate e professore di rettorica presso Brera, che pose sulla sua tomba l’epitaffio, ancora oggi conservato a Brera.
Non essendosi mai sposato, né avendo avuto figli naturali, furono i suoi nipoti, i parenti più prossimi a mettere mano fra i suoi documenti ed i preziosi appunti. Con testamento redatto l’anno prima di morire, aveva lasciato loro in eredità i suoi averi, inclusi i suoi manoscritti. Tuttavia, per incuria o disinteresse, molti di questi suoi manoscritti andarono dispersi, altri, venduti all’asta, per realizzare qualcosa. Probabilmente non comprendendone il valore, tutti i suoi carteggi (cioè gli scambi epistolari con gli altri intellettuali di quel periodo), tanto apprezzati oggi dagli storici, furono cestinati. Probabilmente Giuseppe Parini, sarebbe oggi totalmente dimenticato, se un suo fedelissimo allievo, letterato Francesco Reina (1766-1825), diventato letterato e uomo politico durante la Repubblica Cisalpina, riuscendo ad acquistare diversi dei suoi manoscritti messi all’asta, non avesse deciso di pubblicare lui stesso, tra il 1801 e il 1804, un’edizione integrale in sei volumi, delle “Opere” del Maestro.
Alla morte di Reina, nel 1825, i manoscritti e le carte passarono allo scrittore e poeta milanese Felice Bellotti (1786-1858) ed in seguito alla Biblioteca Ambrosiana, dove si trovano tuttora.
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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