Il caso Gucci
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E’ un fatto di cronaca nera avvenuto a Milano nel 1995, talmente eclatante da suscitare l’interesse persino di Ridley Scott, gigante di Hollywood, che, nel 2021, ha voluto fare su questo caso, addirittura un film dal titolo “House of Gucci”, avendo come protagonista Lady Gaga, nei panni della vedova di Maurizio Gucci.
Prima però di riparlare di questo “caso”, che ha fatto tanto clamore sui giornali di mezzo mondo, sarà bene ricostruire a brevi linee, per quanto possibile, la storia della famiglia Gucci, nome questo, che tutti oggi conosciamo come simbolo del lusso e della ricchezza, associato, ormai da oltre un secolo, all’inconfondibile stile, al fascino e all’eleganza tutte italiane di prodotti dell’alta moda.
Il fondatore della casa
Guccio, il capostipite della famosa casa di moda fiorentina, era nato a Firenze il 26 marzo 1881, da Gabriello Gucci, un modesto artigiano di cappelli di paglia di San Miniato (PI), e da Elena Santini, una casalinga di Lastra a Signa (FI). Era il 1898, quando, dopo aver polemizzato col padre per la sua scarsa intraprendenza a non essere stato in grado di salvare dal fallimento la sua piccola bottega artigiana, a soli 17 anni, decise, per non pesare ulteriormente sulla famiglia, di emigrare all’estero, in cerca di fortuna. Partito con tanti sogni, un briciolo di speranza e una valigia di cartone tenuta insieme con lo spago, dopo una prima breve esperienza a Parigi, trovò impiego come facchino d’albergo nel prestigioso Hotel Savoy di Londra. Questo, che per chiunque sarebbe stato un lavoro di ripiego in attesa di trovare qualcosa di meglio, per lui, ragazzo decisamente sveglio e capace ben oltre la media, rappresentò un’esperienza incredibilmente istruttiva.
Sfruttando il fatto che si trovava a lavorare in un albergo di lusso, quindi a servire una clientela molto raffinata, osservava attentamente ognuno degli ospiti di cui prendeva il bagaglio, desideroso di imparare ad imitare ogni suo gesto. Studiava il “bon ton” (cioè i comportamenti educati e le buone maniere dei clienti “di livello”, con cui veniva a contatto), imparava il linguaggio forbito col quale si rivolgevano sia a lui che al personale di camera o di servizio, scimmiottava persino la postura dei clienti, per il desiderio di imparare a comportarsi adeguatamente nell’alta società, quasi volesse diventare uno di loro. Ma soprattutto quel periodo gli servì per capire la fattura e la qualità dei bauli e delle eleganti valigie che i ricchi proprietari gli affidavano. Imparò ben presto a distinguere quelli più resistenti e robusti, dai bagagli magari di qualità inferiore, ma più alla moda, tutti colli rigorosamente griffati. Giorno dopo giorno, imparava ad apprezzare anche i tipi di pelle usata, la loro qualità e persino il loro profumo (a seconda del tipo di concia). Lavorando a stretto contatto con il lusso e la ricchezza, rimase affascinato dagli eleganti bagagli di marca H.J. Cave & Sons, oltre alle borse e agli altri accessori di lusso, che sfoggiavano i facoltosi ospiti di quell’albergo. Addirittura, si era fatto l’occhio, per cui, guardando unicamente il bagaglio del cliente, capiva se il suo proprietario era un vero “ricco” o un “parvenu” (uno cioè che non lo era, ma che voleva apparire tale). Iniziò così a sviluppare uno spiccato gusto per la qualità e lo stile e ad accarezzare l’idea, una volta tornato in Italia, di voler creare qualcosa di simile, di gusto e stile italiano, naturalmente. Da giovane sveglio qual era, si rese conto che sicuramente anche a Firenze, città turistica per eccellenza, essendo visitata da una vasta clientela internazionale facoltosa, il turista avrebbe pagato volentieri cifre anche consistenti, pur di avere prodotti di pelletteria italiani di alta qualità.
Appena rientrato in Italia nel 1901, Guccio, allora ventenne, si sposò con Aida Calvelli (1879-1955), di due anni più vecchia di lui. Ebbe in tutto cinque figli suoi ed uno adottato: nell’ordine di età, Ugo (1899-1973) da lui adottato, in quanto figlio di Aida avuto da una precedente relazione della moglie, Grimalda (1903-1989) l’unica femmina, Enzo (1904 -morto nel 1913 a soli nove anni), Aldo (1905-1990), Vasco (1907-1974) ed ultimo Rodolfo (1912-1983).
Nel 1904 quindi, Guccio, trovò lavoro presso laboratori artigianali di pelletteria, a Firenze, per imparare il mestiere. Successivamente, si mise in proprio, aprendo un piccolo laboratorio in via del Parione. Cominciò a produrre articoli da viaggio, bauli, ed eleganti valigie da carrozza. In seguito, visto che la risposta del mercato era positiva, man mano ampliò la produzione a guanti, cinture, portafogli, valigie, stivali, e pure ad articoli da equitazione (selle e finimenti da cavallo). Lo stile dell’equipaggiamento ippico influenzò largamente la produzione successiva e i motivi del morso e della staffa entrarono quindi nel marchio della casa fiorentina.
Nel 1921, aprì il suo primo negozio di pelletteria in via della Vigna Nuova 7, (di fianco a Palazzo Strozzi, in pieno centro) col nome di “Azienda Individuale Guccio Gucci”.
Quando anche i figli furono in grado di aiutare, la sua attività individuale, si trasformò in attività di famiglia. Aldo, il suo primo figlio maschio, dopo aver frequentato un collegio privato, ancora giovanissimo, iniziò a lavorare nella ditta paterna; man mano che anche i suoi fratelli crescevano, aiutavano tutti facendo la spola in bicicletta tra la bottega di via della Vigna, il laboratorio di via del Parione, la clientela e i fornitori. Quando erano in bottega, i figli maschi aiutavano a tagliar le pelli, mentre Grimalda stava alla cassa. Crescendo i ragazzi, mentre Aldo si concentrava principalmente sulla gestione economica della ditta, assumendo un ruolo via via crescente nell’amministrazione, i fratelli lo affiancavano, partecipando all’attività paterna con responsabilità diverse. Non tutti comunque parevano ugualmente interessati a seguire quell’attività e questo era, ovviamente, un cruccio per il padre. Già fin da allora, raccontava molti anni dopo, il nipote Paolo, figlio di Aldo, fra papà e gli altri fratelli cominciava a serpeggiare il seme della discordia: “Il nonno, tutte le volte che poteva, metteva i figli l’un contro l’altro, per dimostrare che avevano sangue in corpo”.
Le cose non andarono sempre a gonfie vele: fu proprio la fantasia di Guccio a far sopravvivere la sua azienda durante l’autarchia (autosufficienza economica) in periodo fascista, utilizzando materiali come lino, canapa, juta e bambù, meno costosi del pellame.
Anche se non tutti i figli erano propensi a seguire le orme paterne, l’azienda stava fiorendo ed anche gli affari stavano andando oltre ogni più rosea previsione. Aldo era l’unico fra i fratelli, veramente interessato a portare avanti l’azienda di famiglia, Vasco non si pronunciava, gli altri erano tutti più restii, lasciandosi facilmente attrarre da altri interessi.
- Ugo, ad esempio, il maggiore, si era fatto ammaliare dalle camicie nere, e nell’ottobre del 1922 non aveva esitato a partecipare alla marcia su Roma.
- Rodolfo, il belloccio della famiglia, era stato “scoperto” dal regista cinematografico danese Alfred Lind. Allora si era ancora al cinema muto: alla ricerca di un nuovo volto, il regista gli aveva affidato la parte maschile, nella pellicola Ragazze non scherzate, accanto alla diva dell’epoca, Leda Gloria. Nel 1929, Mario Camerini, lo aveva prescelto per il film Rotaie, girato ed uscito come film muto e poi, nel 1931, ridistribuito sonorizzato. Quello sarà l’inizio di una buona carriera di attore, attività che intraprenderà sino alla fine della seconda guerra mondiale. A Cinecittà, sotto lo pseudonimo di Maurizio d’Ancora, fece una cinquantina di film con un discreto successo. Sul set, durante le riprese di Al buio insieme, aveva conosciuto l’attrice Sandra Ravel, che avrebbe sposato a Venezia nel 1944. Quattro anni dopo, dalla loro unione, era nato Maurizio, il loro unico figlio (chiamato così, dal nome d’arte del padre).
- Grimalda si era sposata, nel 1926, con un certo G. Vitali, direttore esecutivo dell’azienda di suo padre.
Aldo si sposò nel 1927, con l’inglese Olwen Price (ex cameriera personale di lady Francis Hope). Dal matrimonio nacque l’anno successivo Giorgio, seguito poi, nel 1931, da Paolo e, nel 1932, da Roberto.
I primi negozi Gucci
Firenze (1932)
La ditta Gucci, consolidando a Firenze la propria notorietà e reputazione soprattutto nell’ambiente dell’aristocrazia locale e del turismo internazionale d’élite, nel corso degli anni Trenta, decise di creare dei locali più eleganti e consoni all’ampliato giro d’affari: il negozio in via della Vigna Nuova, venne ampliato ed riaperto nel 1932, mentre il nuovo stabilimento produttivo di via Guicciardini venne attivato nel 1937. Non furono comunque anni facili quelli: ad esempio, durante la guerra d’Etiopia nel 1935-36, l’applicazione di sanzioni economiche all’Italia, e quindi le restrizioni nella disciplina delle importazioni di materie prime e di semilavorati, avevano costretto la ditta Gucci a contenere l’uso del cuoio, obbligando a sperimentare per necessità, la lavorazione e l’uso di materiali alternativi.
Roma (1938)
Nel 1938, per estendere il suo giro d’affari, Guccio, aiutato da Aldo, il più intraprendente dei suoi figli, aprì il suo primo negozio a Roma nella celeberrima via Condotti. Volle affidare la gestione di quel negozio a lui che, per seguire più da vicino l’attività, decise di trasferirsi a Roma con tutta la famiglia. Di lì a poco, scoppiò la guerra.
Durante il conflitto, i negozi e lo stabilimento produttivo fiorentino risentirono del crollo della domanda ma soprattutto della mancanza di personale e della scarsità di materie prime. La continuità produttiva dell’azienda, in quel periodo, venne comunque assicurata da commesse per la fornitura di scarpe e stivali per l’Esercito Italiano.
Dopo il giugno 1944, furono proprio i soldati dell’esercito di liberazione, con i loro acquisti di borse ed accessori, a gettare le basi della ripresa dell’azienda. La Gucci, riorganizzata nel 1945 come S.r.l., riprese a pieno ritmo l’attività produttiva dei tempi di pace.
L’uscita definitiva dalla società di Ugo (che scambiò il proprio pacchetto azionario con alcune proprietà immobiliari della famiglia), e l’ingresso di Rodolfo (ritiratosi dal mondo del cinema), sancirono il rinsaldarsi del family business (azienda familiare), concetto questo, su cui Guccio Gucci aveva sempre creduto, basando su esso, nel corso degli anni, la propria filosofia imprenditoriale.
Milano (1951) e New York (1953)
Gli anni Cinquanta segnarono l’inizio di una grande espansione nella storia di Gucci. Nel 1951, vi fu l’apertura di un primo negozio a Milano, in via Montenapoleone, la cui gestione venne affidata a Rodolfo.
Guccio Gucci morì improvvisamente il 2 gennaio 1953, a soli 72 anni, lasciando un’azienda avviata, che si stava imponendo come una delle Maison di maggiore successo del made in Italy , nel mondo.
La sua morte imprevista, gli impedì, per questione di un paiodi settimane, di poter presenziare all’inaugurazione ufficiale (nel gennaio 1953) del primo negozio Gucci fuori d’Italia, nella prestigiosa Fifth Avenue, a New York.
Non ebbe, purtroppo, neppure la soddisfazione di vedere la borsetta col manico di bambù (la Gucci bamboo bag) che aveva ideato proprio lui, al braccio di Ingrid Bergman, nel film Viaggio in Italia (1954) di Roberto Rossellini, borsa che, portata da lei, grazie anche agli elevati standard qualitativi nella scelta delle materie prime e nella manifattura artigianale, aveva reso, dall’oggi al domani, il nome Gucci, un autentico status symbol.
Il 1953, comunque, segnò un giro di boa, nell’attività della società. Dopo anche la scomparsa della madre Aida nel 1955, i tre fratelli maschi (Aldo, Vasco e Rodolfo) si divisero in parti uguali il capitale azionario della Maison, estromettendo praticamente del tutto la sorella Grimalda dalla gestione dell’azienda di famiglia; beghe queste, fra i fratelli e la sorella, che non tardarono ad arrivare.
Risale al decennio successivo l’ampliamento della produzione che si estese anche all’abbigliamento. I prodotti della griffe (l’ormai inconfondibile marchio a doppia G in omaggio al fondatore): dalla borsetta con il manico di bambù (1947) al mocassino con il morsetto (1952-53), fino al foulard Flora (1966) dedicato a Grace Kelly, su un disegno del pittore Accornero e riprodotto in 85 differenti gradazioni di colore, sono diventati dei classici senza tempo.
Altra cosa, che indubbiamente catalizzò l’attenzione degli acquirenti internazionali dei ceti più elevati particolarmente sui prodotti in pelle della Gucci, fu una leggenda (non si sa quanto vera) secondo la quale la famiglia avrebbe origini da un ceppo di sellai, impiegati presso le corti toscane nel Medioevo, storia questa che, con abile mossa marketing, servì ad Aldo a giustificare l’antica tradizione toscana dei Gucci nella manifattura del cuoio (specialmente nel campo dell’equitazione).
Furono quelli gli anni in cui la frase «Quality is remembered long time after, price is forgotten» (la qualità si ricorda a lungo, il prezzo si dimentica) ebbe la sua giustificazione. L’azienda ricevette ordini persino da John Fitzgerald Kennedy.
La crescita commerciale della società negli anni Sessanta, si fece impetuosa: cominciarono a prolificare le aperture di nuove boutiques a Londra, Palm Beach, Parigi, Chicago, Beverly Hills, Tokyo e perfino ad Hong Kong.
Non riuscendo più la fabbrica di via Guicciardini a soddisfare le richieste di un mercato così vasto, all’inizio degli anni Settanta, fu avviata la costruzione di una nuova fabbrica, più grande, a Scandicci.
Tensione fra i fratelli
Nonostante gli affari andassero bene, per tutti gli anni Sessanta e Settanta la gestione societaria, mantenne a fatica un andamento unitario. Fu minata da crescenti tensioni fra Aldo, Vasco e Rodolfo. Nel 1972, Aldo, vedendosi respinta dai fratelli la proposta di quotare parte della società, convinto dell’importanza di una diversificazione produttiva, costituì una nuova società, la Gucci Parfums per la produzione di profumi con conferimento di quote di azioni ai propri figli.
Quando nel 1974, Vasco morì, rimasero gli altri due fratelli con il 50% dell’azienda a testa, almeno fino al 1983, quando anche Rodolfo passò a miglior vita. Per coinvolgere i suoi tre figli nella gestione dell’azienda, Aldo tenne per sé il 40% delle quote, distribuendo il restante 10% fra i figli. Le cose in quegli anni comunque non andarono bene; Aldo e Rodolfo litigavano spesso furiosamente fra di loro, sempre per problemi legati alla gestione dell’azienda. E anche fra Giorgio, Paolo e Roberto, i tre figli di Aldo, e il cugino Maurizio, figlio di Rodolfo non correva buon sangue.
La tensione fra i fratelli dipendeva soprattutto da una visione diversa del business. Mentre Rodolfo, al pari di quanto aveva fatto suo padre, puntava alla qualità del prodotto, Aldo prediligeva fare utili giocando sulla quantità. La libera concessione di licenze di vendita in franchising aumentava sicuramente il fatturato a scapito però della qualità del prodotto Gucci, favorendo le contraffazioni particolarmente nei mercati orientali, e facendo così scadere il prestigio del marchio.
Il lancio nel 1982, da parte di Paolo, di una propria linea di prodotti indipendente usando il brand Gucci, senza essere preventivamente autorizzato dal padre e dallo zio, gli costò il licenziamento e una causa per sfruttamento illegittimo del marchio (innescando una diatriba decennale col padre). Questa fu una delle tante guerre intestine che segnarono, negli anni Ottanta e Novanta, le relazioni all’interno della famiglia.
Quando Maurizio, nel 1983, alla morte di Rodolfo, ereditò in toto le quote di suo padre, essendo lui il maggior azionista della Gucci, ne divenne il presidente. Paolo estromesso dalla Maison, innescò una faida familiare, chiedendo aiuto al cugino, per buttare fuori dall’azienda il proprio padre Aldo.
Maurizio Gucci, dopo una serie di azioni legali, estromise dallo staff manageriale lo zio Aldo a cui fece non solo causa, accusandolo di aver sottratto alle casse aziendali diversi milioni, ma addirittura denunciandolo anche al Fisco statunitense, per un’evasione di circa sette milioni di dollari. Aldo venne arrestato nel 1986, rimanendo in carcere negli Stati Uniti per un anno e un giorno.
Rientrato a Roma nel 1989, fortemente contrariato per la nomina del nipote Maurizio a presidente della compagnia, dopo circa sei anni di faida familiare per il controllo dell’azienda, decise nel 1990, di vendere la sua parte delle azioni Gucci, alla finanziaria anglo araba Investcorp International. Aldo morì l’anno successivo (1991), per un cancro alla prostata.
Indipendentemente dalla presidenza che aveva assunto già nel 1983, alla morte del padre Rodolfo, Maurizio Gucci, nel 1990, avendo pure completato l’acquisizione delle quote societarie del cugino Paolo (definitivamente estromesso dalla società), era diventato lui, l’unico vero padrone dell’azienda.
Avrebbe dovuto essere felice e invece era in crisi, una crisi profonda che si trascinava da anni: sapeva di non avere competenze adeguate, né esperienza alcuna nel settore finanziario e si rendeva conto che l’azienda stava attraversando un momento difficile e che avrebbe dovuto crescere molto di più. Non sapendo come risolvere il problema, aveva deciso di sostituire in toto il vecchio consiglio d’amministrazione nominato dal padre, tutte persone capaci e di consumata esperienza, con nuovi amici non altrettanto validi. Ma anche questa mossa si rivelò totalmente fallimentare.
Spaventato per le perdite finanziarie consistenti, incapace di trovare diversa soluzione, aveva deciso di mollare tutto, di fare tabula rasa del passato, per creare qualcosa di nuovo, qualcosa di suo.
Aveva così deciso nel 1993, di vendere le sue quote per 270 miliardi di vecchie lire (circa 140 milioni di €) alla stessa finanziaria anglo-araba Investcorp International, che, avendo, due anni prima, acquisito le quote di Aldo, aveva completato l’acquisizione del 100% del capitale della società, estromettendo definitivamente l’ultimo dei Gucci dall’azienda di famiglia.
Cosa accadde quel 27 marzo 1995
Come si svolsero i fatti
L’omicidio di Maurizio Gucci avvenne nell’androne del palazzo milanese sede della Viersee, la società che lui stesso aveva da poco fondato, una volta vendute le sue quote della Gucci, dopo i 10 difficili anni passati alla presidenza del gruppo di moda della famiglia. La Viersee stava progettando l’apertura di un casinò a St. Moritz e la costruzione di un porto turistico a Palma di Maiorca.
Quel lunedì mattina 27 marzo 1995, Maurizio Gucci, 47 anni, era uscito dalla sua casa di corso Venezia 38 a Milano verso le 8.30 e come al suo solito, attraversata strada sotto casa, aveva percorso a piedi il breve tratto che lo separava dal suo ufficio, in via Palestro 20, (il palazzo che si affaccia sui Giardini di Porta Venezia all’angolo fra via Palestro e via Marina), in pieno centro città.
L’imprenditore non si era accorto che, sullo stesso marciapiede, un uomo benvestito, ad una quindicina di metri da lui, lo stava seguendo. Maurizio Gucci, salutato il portiere Giuseppe Onorato, che in quel momento stava spazzando delle foglie secche davanti al portone del palazzo, si era infilato nell’androne accingendosi a salire la piccola rampa di scale per raggiungere la porta a vetri.
Fu in quel momento che il sicario che lo stava seguendo, estrasse da sotto il paltò una pistola Browning 7,65 con silenziatore, sparando contro di lui tre colpi: il primo andò a vuoto, il secondo colpì Gucci alla spalla ed il terzo al gluteo. Mentre Maurizio stava girandosi d’istinto, fu raggiunto da un quarto colpo, sparato a bruciapelo alla tempia, che lo uccise all’istante. Quindi l’assassino, rivolta la pistola contro Onorato, gli sparò altri due colpi, che ferirono il portiere al braccio sinistro. L’assassino salì quindi sul sedile del passeggero di una Renault Clio verde in attesa a motore acceso, guidata da un complice e scappò.
Questo fu il racconto del portiere alla polizia appena arrivò sul posto:
«Arriva il dottor Gucci. Lo saluto, è elegantissimo come sempre. Sale i sette gradini fino alla porta a vetri, che avevo aperto per pulire. Dietro di lui entra un uomo, altrettanto elegante, abbronzato con un giaccone di cammello. Sembrava un altro dottor Gucci, insomma nulla che facesse presagire qualcosa…senonché apre la giacca e io rammento perfettamente queste mani enormi da cui spunta solo il silenziatore di una pistola. Era davvero come un film, pensavo a uno scherzo, non c’era niente di vero. Invece spara i colpi, poi si gira, mi vede. Sgrana gli occhi, come se non se l’aspettasse, e spara anche a me. Io alzo un braccio istintivamente, sento qualcosa, poi mi siedo sui gradini. Pensavo, giuro, che a quel punto dovessi morire, proprio come in un film».
Nel coro di voci, si fa notare quella “stonata” dell’ex moglie Patrizia Reggiani, di cui il Corriere della sera, il giorno stesso del delitto, riporta queste parole: “Umanamente mi dispiace, ma dal punto di vista personale non posso dire la stessa cosa”.
Le indagini della polizia
Come è immaginabile, l’omicidio assolutamente inatteso, scatenò un clamore mediatico internazionale: una delle più longeve dinastie della moda italiana era stata distrutta.
Data la notorietà della vittima, le attenzioni del pubblico ministero Carlo Nocerino (di turno quella mattina), e degli altri investigatori, si concentrarono su un doppio binario: da un lato, poiché l’omicidio era avvenuto in via Palestro 20, sede degli uffici della Viersee (la società che Maurizio Gucci aveva fondato da poco), venne studiata a lungo la situazione economica della nuova azienda; dall’altro, venne fatta un’indagine approfondita sul patrimonio di famiglia, nella convinzione che la pista finanziaria internazionale fosse quella che avrebbe, quasi certamente, portato alla soluzione del caso. Le indagini, condotte anche con l’aiuto dell’Interpol, portarono alla luce debiti in giro per il mondo, ma niente di realmente utile o di comunque sospetto, da giustificare un movente plausibile per un omicidio. Il lavoro degli investigatori non portò a nulla.
La pista familiare
Dopo circa due anni di ricerche infruttuose sulla pista finanziaria internazionale, l’attenzione degli inquirenti si orientò sui rapporti familiari, indagine questa che si sarebbe potuta avviare molto prima esistendo fin dall’inizio, sufficienti elementi per poter mettere chi di dovere, sulle tracce della ex-moglie della vittima.
Maurizio Gucci e Patrizia Martinelli Reggiani si erano conosciuti ad una festa, a Milano nel 1970, quando avevano entrambi 22 anni. Le origini di lei sono decisamente meno fiabesche di quelle di lui: inizialmente cresciuta in povertà, con la madre lavapiatti, non ha mai conosciuto il padre, ed è stata poi adottata dal nuovo compagno della madre Silvana Barbieri, l’imprenditore dei trasporti. Ferdinando Reggiani.
Da allora, i due ragazzi cominciarono a frequentarsi: ricchissimo, bello e timido lui, ambiziosa, furba e disinvolta lei. Nell’ottobre 1972, si sposarono nella chiesa di San Sepolcro, a Milano.
Doveva aver intuito qualcosa Rodolfo, il padre di Maurizio, se si era rifiutato di partecipare alla cerimonia, assolutamente contrario a quelle nozze, ritenendo la futura nuora un’arrampicatrice sociale, interessata unicamente ai soldi della famiglia. Fu per questo che, fra i 500 invitati alla cerimonia nuziale (matrimonio da favola), non si presentò nessun membro della famiglia Gucci. Anzi Rodolfo, per far pesare maggiormente la sua contrarietà, il giorno della cerimonia, era partito per New York, il più lontano possibile da loro. Solo anni più tardi, dopo la nascita, nel 1977 della prima nipotina Alessandra, nonno Rodolfo manifestò l’intenzione di riconciliarsi con il figlio e con la nuora (allora residenti a New York) regalando loro un lussuoso attico all’Olympic Tower a Manhattan. Ben presto, Patrizia diventò attiva nei circoli sociali di New York, facendo apparizioni regolari a feste ed eventi di moda e diventando addirittura amica di Jacqueline Kennedy Onassis e dei coniugi Trump.
Il matrimonio pareva avviato nel migliore dei modi, allietato dalla nascita di due figlie, Alessandra (1977) ed Allegra (1981). Quando era a Milano, la coppia viveva in un bellissimo attico in piazza San Babila, con giardino pensile, un intero piano adibito a salone per le feste. La loro vita scorreva tra ricevimenti, party, banchetti, appartamenti di lusso a New York e a St. Moritz (CH), vacanze a Santo Domingo . Giravano naturalmente in Ferrari …… un sogno che durò in tutto 13 anni, contraddistinti da un tenore di vita ben sopra le righe, spese folli, viaggi da sogno, regali da capogiro e lusso sfrenato. Finì ad esempio su tutti i giornali. l’acquisto da parte della coppia del Creole (pare che lui avesse intenzione di regalarlo a lei), un lussuosissimo veliero a tre alberi di 65 metri pagato 7 miliardi di vecchie lire (oltre 3.500.000 €), appartenuto all’armatore greco Stavros Niarchos.
Il Creole, assieme a molte altre proprietà immobiliari (come lo Chalet di St. Moritz), finì poi al centro delle dispute fra coniugi, al momento del divorzio.
Fu sicuramente la morte del padre, nel 1983, a cambiare la vita a Maurizio, costringendolo ad “aprire finalmente gli occhi”. Rodolfo, nel suo testamento, aveva lasciato tutto a lui. Era lui, suo figlio, all’epoca trentacinquenne, il nuovo delfino della famiglia Gucci! Sarebbe spettato ora a lui portare avanti la “Maison”, verso nuovi obiettivi e prestigiosi altri traguardi: responsabilità questa però, forse troppo pesante per lui da sopportare, cui sicuramente sapeva di non essere preparato.
Appartenente ad una generazione che, nata fra gli agi, non conosceva cosa significhi rimboccarsi le maniche per vivere, né aveva mai conosciuto obblighi o compromessi di alcun genere: il trovarsi a dover fare, dall’oggi al domani, non solo il già gravoso compito di marito e di padre, ma ora anche il dover gestire un’azienda di tale fama internazionale, era decisamente troppo per lui. Ogni accenno da parte di Patrizia, su quanto erano stati in grado di realizzare suo nonno Guccio e suo padre Rodolfo, nel tentativo di spronarlo a superare quel difficile momento, suonava per lui insopportabile, quasi un fallimento. I suoi frequenti sfoghi con la moglie negli ultimi periodi, avevano finito col minare il loro rapporto di coppia. A causa delle preoccupazioni per le sue nuove responsabilità era evidente il suo senso di disagio, uno stato di nervosismo incontrollabile; si sentiva incompreso persino dalla moglie dalla quale non si sentiva più amato e che, a volte, percepiva quasi ostile perché tentava di dissuaderlo da decisioni che evidentemente lei non condivideva.
La separazione
Visto dall’esterno, il matrimonio con Patrizia Reggiani era finito a dire il vero, nel 1985, forse per stanchezza, forse per l’incapacità di entrambi a tentare di appianare i piccoli inevitabili dissapori di coppia. Maurizio aveva deciso di separarsi da lei, avendo iniziato a frequentare un’altra donna, tale Paola Franchi. Sparì una mattina e non tornò più a casa. Dopo la separazione, la moglie ottenne un assegno di mantenimento mensile di circa un miliardo di vecchie lire (oltre 500.000€)
Il divorzio
Le cose viceversa cambiarono radicalmente, quasi nove anni dopo (nel 1994), quando lui, avendo deciso di sposare la donna con cui conviveva ormai da anni, intentò le pratiche di divorzio nei confronti della moglie. Se per anni lei aveva apparentemente accettato la separazione, il divorzio non lo accettò mai.
Il 24 dicembre 1993 i due, a Sankt Moritz, avevano firmato un “promemoria d’intenti” in cui lui si impegnava a versare a lei 1,1 milioni di franchi svizzeri l’anno per tutta la vita.
Più di una volta, dopo il divorzio, Patrizia era stata diffidata, a voler continuare a fregiarsi del cognome Gucci, che ormai non le spettava più. Ma lei, facendo orecchio da mercante, intendeva mantenere quello status: continuando a farsi chiamare Patrizia Gucci, era diventa famosa come Lady Gucci, cosa questa che, fra l’altro, creava pure problemi di omonimia con l’altra Patrizia, la figlia del cugino di Maurizio, Paolo Gucci (uno dei figli di suo zio Aldo).
«L’unica vera Gucci sono io», insisteva a dire a tutti Patrizia Reggiani, confidando poi ad amici e parenti la sua viva preoccupazione per il patrimonio che l’ex marito stava dilapidando (con la sua nuova fiamma) e che andando avanti di questo passo, Alessandra ed Allegra, le sue due figlie avute dal suo ex-marito, sarebbero rimaste senza eredità. Lei aveva “provato” la povertà e non voleva che le figlie sperimentassero la sua stessa esperienza.
Come venne poi evidenziato nel corso dei processi, Patrizia Reggiani, in realtà, non aveva mai accettato la nuova relazione del suo ex-marito con Paola Franchi, anche se all’inizio, aveva cercato di non darlo a vedere. Di cinque anni più giovane dell’imprenditore, Paola, modella e arredatrice di interni, aveva alle spalle già due matrimoni falliti ed un figlio, Charly. La separazione di Maurizio dalla moglie avvenuta già nel 1985 era stata proprio per ‘via’ della Franchi, che lo aveva “stregato”.
A dire il vero, i due già si conoscevano fin dall’infanzia, e lei aveva addirittura presenziato, nel 1972, al matrimonio di Maurizio con la Reggiani. Nel 1983, Paola aveva sposato, in seconde nozze, Giorgio Colombo, un industriale del rame: dal loro amore, nel 1985, era nato Charly. [Ndr. – Nel 2001, all’età di 16 anni, Charly Colombo si suicidò]
Ma l’idillio con Giorgio Colombo finì subito dopo la nascita del pargolo. E fu così che lei e Maurizio rincontratisi casualmente nel 1985 in un club privato a Milano, cominciarono a frequentarsi, entrambi sconvolti dai rispettivi matrimoni infelici. Nel 1991, Patrizia Reggiani aveva subito un intervento al cervello per l’asportazione di un tumore benigno: a sua detta, in quell’occasione il marito andò a trovarla una o al massimo due volte dimenticando di prendersi cura delle figlie ancora minorenni. Poi, a fine 1993 Maurizio avviò la causa di divorzio dalla moglie, per potersi risposare con Paola (anche lei del resto era in attesa di divorzio dal suo marito).
Fu dopo il divorzio che la Reggiani, cominciò a covare particolare risentimento nei confronti di Maurizio, rancore talmente forte al punto da chiedere in giro se qualcuno sarebbe stato disposto, dietro pagamento, ad ammazzare suo marito. Duro il suo commento sulla decisione dell’ex-marito di chiudere totalmente con la Gucci: “La rinuncia a un marchio così prestigioso è dovuta solo all’inettitudine e al fallimento manageriale di Maurizio”.
Forse, quando faceva in giro quella domanda, Patrizia non intendeva parlare sul serio: sono cose che, a volte, si dicono in uno sfogo di rabbia …. la sua sete di vendetta era forse solo un’illusione. Il grave della cosa è che lei aveva preso l’abitudine di ripetere queste sue richieste a chiunque incontrasse, persino al suo salumaio, con una leggerezza davvero disarmante. Sicuramente a fare scattare la sua “estrema voglia di vendetta”, era l’odio irrefrenabile scaturito sia da ragioni sentimentali e dal dispiacere nel vedere le figlie, a suo dire, abbandonate dal padre, ma soprattutto per il risentimento che, avendo l’ex-marito deciso di sposare Paola, secondo le clausole del divorzio, lei si sarebbe vista dimezzare gli alimenti che le sarebbero spettati.
Paola Franchi, interrogata dalla polizia al momento dell’omicidio, aveva raccontato agli investigatori che nei mesi precedenti, quando conviveva con Maurizio, aveva ricevuto diverse ripetute minacce (anche allarmanti) da parte della Reggiani, rivelandosi la sua, come una presenza ingombrante nella loro quotidianità. Maurizio poi, a cui lei raccontava delle minacce ricevute, cercava sempre di tranquillizzarla minimizzando le stesse, adducendo al fatto che con Patrizia si erano amati e che, avendo con lei avuto due figlie, gli sembrava impossibile potesse mettere in pratica quei deliranti propositi di morte. Lui quindi non aveva preso precauzioni di alcun tipo, a salvaguardia della propria persona.
Aveva raccontato pure agli inquirenti che la mattina stessa dell’assassinio, qualche ora dopo il fatto, la Reggiani si era presentata assieme ad un avvocato in casa sua con un ordine di sfratto immediato dall’abitazione di Corso Venezia 38 dove dal 1994 era andata ad abitare con Maurizio Gucci, intimandole di andarsene subito. Aveva anche preteso che ogni cosa, compresi gli abiti di Maurizio e la biancheria della casa, fossero lasciati dov’erano. Il giorno seguente la Reggiani, con le due figlie, si era già trasferita lì. Il rancore di Patrizia nei suoi confronti era tale, che era persino riuscita ad impedirle che potesse partecipare al funerale del compagno.
La svolta nelle indagini
Fu un cuoco , tale Gabriele Carpanese, uno spiantato, informatore della polizia, a dare, nel gennaio del 1997 (a quasi due anni di distanza dall’assassinio), una svolta nelle indagini sul caso Gucci. Costui riferì a Filippo Ninni, all’epoca capo della Criminalpol milanese, di aver avuto notizie interessanti relativamente all’omicidio Gucci, da tale Ivano Savioni, portiere dell’albergo a una stella Adry di via Lulli, che lui si era fatto amico. Questi asseriva di aver preso parte a quell’omicidio e, riferendosi alla Reggiani, di essere stato da lei pagato per il suo operato, 50 milioni di lire. Ninni decise di affiancare a Carpanese uno dei suoi ispettori sotto copertura, di madrelingua spagnola, che fingendosi Carlos membro di un cartello di narcotrafficanti colombiani e raccontando di avere già compiuto oltre un centinaio di omicidi, avrebbe potuto tornare comodo al Savioni, in caso di necessità. Dopo qualche tempo che si frequentarono, il portiere cominciò a fidarsi di lui e riparlando dell’omicidio Gucci, gli raccontò tutti i particolari del suo coinvolgimento.
Nel frattempo erano state disposte dalla polizia cimici ovunque nell’hotel Adry, e attivate le intercettazioni telefoniche. Fu proprio l’intercettazione di una telefonata dai toni allarmati, ricevuta dal Savioni da parte di tale Giuseppina Auriemma di Somma Vesuviana, detta Pina, a mettere all’erta gli investigatori della polizia. Costei, maga dilettante e organizzatrice di sedute spiritiche, ex proprietaria di due boutique Gucci a Portici e a Napoli, era molto amica della ex-moglie di Maurizio. Era preoccupata per una notizia apparsa sui giornali relativa all’inchiesta Gucci che, a distanza di anni dall’omicidio dell’imprenditore, stava battendo nuove piste nel tentativo di risolvere il caso. Questa telefonata fu sufficiente agli investigatori a chiudere il cerchio ricostruendo, dopo qualche interrogatorio, la dinamica dei fatti e assicurando alla giustizia i responsabili.
Non avendo trovato a Milano nessuno disposto a prendere sul serio le sue stravaganti richieste di omicidio, Patrizia Reggiani aveva incaricato Pina Auriemma (che aveva conosciuto nel 1977 ad Ischia e da allora erano diventate grandi amiche) di trovare lei qualcuno (in quel di Napoli) che provvedesse ad uccidere suo marito. Pare che anche l’Auriemma (51 anni) non fosse intenzionata a seguire i propositi dell’amica, comunque, per non indispettirla, le fece vedere che si era data da fare e che aveva contattato un suo conoscente di Milano, tale Savioni che si era dimostrato disponibile a trovare un sicario.
A questo punto, una volta informata dall’amica, fu la Reggiani, pare, a voler personalmente prendere accordi col Savioni e trattare il prezzo dell’operazione. Da lì s’innescò la catena che non fu più possibile arrestare. Savioni, sollecitato dalla Reggiani, contattò l’amico Orazio Cicala, un pregiudicato siciliano di 58 anni, ex titolare di una pizzeria e di una pasticceria ad Arcore, fallito per i debiti accumulati con il vizio del gioco. Questi, a sua volta, assoldò il sicario, tale Benedetto Ceraulo, un siciliano di 35 anni, pure lui con una fedina penale non immacolata. Per compiere il delitto, rubarono persino un’auto che però, la sera prima dell’omicidio, era stata rimossa dalla polizia locale perché lasciata in divieto di sosta. Così Cicala la mattina dell’assassinio, era stato costretto ad usare l’auto del figlio, una Renault Clio verde.
A quanto pare, l’omicidio dell’ex marito costò alla Patrizia Reggiani, in tutto qualcosa come 600 milioni di lire: 50 per l’amica maga Pina, 50 per Savioni, 350 per Cicala (che intanto era finito in carcere per droga) e 150 per il sicario Ceraulo, che negò sempre ogni addebito. Anche Patrizia Reggiani non lo confessò né agli inquirenti né in tribunale, anche se poi, in varie interviste, ammise di essere stata la mandante dell’omicidio.
Patrizia Reggiani offrì persino 2 miliardi di lire all’amica Pina Auriemma perché quest’ultima si addossasse tutte le colpe. Vistasi negare dall’amica l’allettante offerta, la accusò apertamente di essere stata lei l’ispiratrice del delitto. L’Auriemma a sua volta, durante il processo, confessò di essersi convinta a fare qualche ricerca, solo perché la Reggiani le aveva promesso che si sarebbe addossata lei tutte le colpe. A nulla valsero ovviamente le richieste da parte degli avvocati di Patrizia, nel tentativo di scagionarla, di far sottoporre la loro assistita a due distinte perizie psichiatriche, sostenendo che in seguito alle cobaltoterapie a cui si era sottoposta dopo aver subito nel 1991 un intervento per la rimozione di un tumore al cervello, era “incapace di intendere e volere, e soprattutto incapace di organizzare un delitto”.
Le pene comminate in I° grado di giudizio (3 nov. 1998)
Nel novembre 1998 la Reggiani e Orazio Cicala furono condannati a 29 anni di carcere, rispettivamente come mandante dell’omicidio e autista dell’assassino; a Benedetto Ceraulo, come esecutore materiale, fu comminato l’ergastolo; per Pina Auriemma la pena stabilita fu di 25 anni di reclusione per favoreggiamento, mentre Ivano Savioni ricevette una condanna a 26 anni, come organizzatore dell’assassinio.
Le condanne dopo il II° grado di giudizio (17 marzo 2000)
Nel processo d’appello la condanna a Patrizia Reggiani scese a 26 anni. Nel 2014, dopo 17 anni trascorsi in carcere a San Vittore il “Victor’s Residence” come lo chiamava lei, “mi sono trovata benissimo lì”, diceva, “sono stati anni di pace: dormivo, mi lavavo e scendevo giù in giardino, avevo un trattamento speciale”, spiega Patrizia Reggiani nel documentario Lady Gucci, alla Reggiani venne concesso di continuare a scontare il resto della pena ai servizi sociali, iniziando a lavorare per la Caritas.
Oggi gli imputati sono tutti liberi: Patrizia Reggiani, è libera dal 2017 avendo scontato praticamente in tutto, una ventina d’anni di carcere; Pina Auriemma uscì nel 2010, per buona condotta, scontando alla fine, 13 anni; Ivano Savioni è libero dal 2012, facendosi in tutto, 15 anni di galera; Orazio Cicala, l’autista, scontata quasi del tutto la pena, è morto. Quanto a Benedetto Ceraulo, non ho trovato notizie circa il periodo di detenzione effettivamente scontata.
Perché questo delitto?
Dopo due anni di indagini, si scoprì finalmente la verità e si capì il reale movente di quel delitto assurdo.
L’omicidio di Maurizio Gucci era stato passionale e il denaro fu solo uno degli aspetti che entrarono in gioco quella mattina del 27 marzo 1995.
Incredibili, a ripensarci, le conclusioni del pm Carlo Nocerino, nella sua requisitoria finale:
“Ho pensato molto anche a quella morte assurda e incredibile. La morte di un uomo che mai nessuno, qui, ha tratteggiato con luce chiara. Quell’uomo è stato ammazzato perché Orazio Cicala voleva soldi da giocare al casinò; Benedetto Ceraulo voleva portare la figlia in una casa più grande; Ivano Savioni per pochi spiccioli; Pina Auriemma per poter continuare ad essere la dama di compagnia che era.
Ecco, queste sono le ragioni per le quali è morto Maurizio Gucci“.
Giuseppe Onorato, il portiere di via Palestro 20 rimasto ferito nello scontro a fuoco, è morto nel novembre del 2020. Un paio di mesi prima della sua morte, dopo oltre vent’anni di attesa, era riuscito ad avere finalmente il risarcimento dei 100mila euro, che Patrizia Reggiani, per decisione della magistratura, avrebbe dovuto pagargli già molti anni prima.
Il contenzioso fra madre e figlie
Dopo la sua scarcerazione nel 2014, iniziò un forte contenzioso tra Reggiani e le sue figlie, Alessandra ed Allegra. Nei primi anni durante e dopo il processo, le due ragazze avevano sostenuto convintamente l’innocenza della madre nel dramma che aveva sconvolto la loro famiglia. Dissero:
«Se noi avessimo avuto il minimo dubbio del fatto che la mamma non fosse innocente, o comunque sapessimo che la mamma veramente fosse la mandante di quello che è successo, sicuramente non l’avremmo difesa come la stiamo difendendo adesso».
Poi, un po’ alla volta, si convinsero pure loro di un coinvolgimento della madre nell’assassinio del loro padre. Il contenzioso nacque, al solito, per questioni economiche. Spettava a loro, essendo le uniche eredi del patrimonio del padre, pagare alla madre, vita natural durante, un milione di euro l’anno come stabilito dalla sentenza nella causa di divorzio fra i loro due genitori. Si trattava di un vitalizio, i cui termini erano contenuti in un accordo siglato da Patrizia Reggiani e Maurizio Gucci, il 24 dicembre 1993.
Le due figlie, appellandosi al fatto che era stata proprio lei, Patrizia, a fare uccidere il loro papà Maurizio Gucci, si rifiutarono di pagare. La madre aveva anche chiesto l’utilizzo del veliero Creole per un mese all’anno e la villa di St. Moritz.
La Corte di Cassazione diede ragione alla Reggiani. Secondo il parere dei giudici, nel documento del 1993 era contenuta «un’indubbia volontà delle parti di tutelare gli interessi di Patrizia Reggiani in caso di premorienza dell’ex-marito. L’assegno, che sostituiva quello di divorzio, evitava per la Reggiani il rischio che l’ex coniuge chiedesse la revisione degli alimenti e la cautelava in caso di morte dell’obbligato».
Ad Alessandra ed Allegra Gucci venne intimato di pagare alla madre nullatenente anche gli arretrati: 26 milioni di euro.
Il parere di una criminologa su questo caso
“Per Patrizia, Gucci era diventato un’ossessione“, spiega al Giornale.it la criminologa Carlini. Poi l’ossessione degenerò nel delitto: “Lei ha compiuto un percorso, ricorrente negli omicidi all’interno di coppie, che scaturisce dalla mancata capacità di gestire l’abbandono, che genera una frustrazione. Man mano che si susseguono i rifiuti, l’ossessione d’amore si trasforma in rabbia e in voglia di vendetta“. Non si tratta di un cambiamento repentino, ma di un percorso in cui sono stati fondamentali alcuni “elementi di svolta: la separazione, l’abbandono delle figlie, l’intenzione di sposare un’altra donna”. Non solo. La Reggiani venne operata anche di tumore al cervello e “la malattia per lei ebbe un valore molto importante, di destabilizzazione”. Così Gucci passò “dall’essere la sua ossessione all’essere una ‘escrescenza da recidere’, come lo definì lei stessa”. Ma non ci fu odio dietro alle sue azioni, stando a quanto ha dichiarato la Reggiani in un’intervista al Corriere della Sera: “Nessun odio. Io non odiavo Maurizio. Non l’ho mai odiato. È stata stizza, la mia. Mi stizziva”.
[rif. – www.ilgiornale.it/news/cronache/delitto-gucci-1930548.html]
La Gucci oggi
Nel 1995-96 Investcorp ha collocato le azioni del marchio sui mercati di New York e di Amsterdam ed è uscita dal capitale Gucci che è divenuto una public company. Negli anni Novanta il rilancio di Gucci è stato gestito da Domenico De Sole, amministratore delegato e presidente della società (1995-2004), e Tom Ford, direttore creativo (1994-2004). Nel 1999 il 34,4% del capitale Gucci è stato acquistato dalla LVMH (Louis Vuitton Moët Hennessy) di Bernard Arnault. Per arginare l’ascesa della LVMH, De Sole si è alleato con il gruppo PPR che ha acquisito il 40% del capitale Gucci creando un polo del lusso multimarca. Tra il 1999 e il 2001 il Gucci Group ha acquistato marchi quali Yves Saint Laurent, Boucheron, Bédat & Co., Bottega Veneta, Sergio Rossi, Stella Mc Cartney, Alexander McQueen e Balenciaga.
Nel 2001 la LVMH è uscita definitivamente dal capitale Gucci. Nel 2004. al posto di Ford è subentrato il team costituito da A. Facchinetti, Frida Giannini e J. Ray. Nel 2005 Giannini è divenuta direttrice artistica di tutte le linee Gucci, sostituita nel 2015 da Alessandro Michele cui nel 2023 è subentrato Sabato De Sarno, mentre dal 2015 è presidente e amministratore delegato dell’azienda Marco Bizzarri, sotto la cui direzione l’azienda ha registrato una crescita costante, con ricavi pari a oltre 8 miliardi di euro nei primi sei mesi del 2021, in crescita del 54,1% rispetto alla prima metà del 2020 e dell’8,4% rispetto allo stesso periodo del 2019.
[ rif. – Treccani]
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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