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“Il Giorno” di Giuseppe Parini

Fra le sue opere di Giuseppe Parini, spicca “il Giorno” autentico capolavoro del poeta. Si tratta di un simpatico poemetto, purtroppo mai finito, davvero unico nel suo genere, in cui, in chiave didascalico-satirica, lui racconta i comportamenti tipici dell’aristocrazia decaduta del suo tempo. E’ una satira sociale contro la nobiltà, una critica nei confronti di quella società, che il poeta considera superficiale e assolutamente improduttiva. La stesura di questo suo scritto avviene nell’arco di circa un trentennio, fra il 1765 e il 1796, e la sua prima pubblicazione è addirittura postuma (1801). Non è di agevolissima lettura per il lettore comune, risultando composto in endecasillabi sciolti (non rimati), scritti in un linguaggio aulico, colto e raffinato tanto caro al poeta, ricco di riferimenti alla mitologia classica.

L’idea di fondo, dietro a questo poemetto, è di raccontare, in maniera ironico-satirica, la giornata-tipo di un giovane aristocratico debosciato, il classico pupillo appartenente alla nobiltà milanese, simbolo della dissolutezza dei costumi del patriziato di allora. Avendo Parini fatto, per circa un decennio, il precettore di giovani rampolli di famiglie nobili e abitando quindi, per il suo ruolo, nei palazzi dell’alta aristocrazia milanese, si era trovato in una posizione ideale, per poter osservare da vicino, il mondo della nobiltà intorno a lui. Anche se oggi, la descrizione di certi comportamenti o atteggiamenti può apparire irreale questa sua opera è una preziosissima testimonianza dei costumi del suo tempo.

Inizialmente, i poemetti erano tre: Mattino, Mezzogiorno e Sera. Ripensamenti successivi hanno poi indotto l’autore a crearne uno solo, il Giorno, come insieme di quattro parti distinte: Mattino, rimasto praticamente uguale alla versione precedente, ribattezzando il Mezzogiorno, più propriamente come Meriggio, e suddividendo la Sera, in due parti distinte, il Vespro e la Notte, rimaste purtroppo entrambi incompiute.

I tre poemetti iniziali

Siamo nel XVIII secolo, periodo in cui era particolarmente in voga la pratica del cicisbeismo, un fenomeno tipicamente nostrano – probabile retaggio della precedente dominazione spagnola -, in una società dei Lumi (da cui il termine “illuminismo”), aperta a comportamenti libertini, a scopo ludico.

Leggi per approfondire usi e costumi del 700

Il cicisbeo accompagna la dama a passeggio

Cicisbeo era il gentiluomo che, nel Settecento, accompagnava una nobildonna sposata in occasioni mondane, feste, ricevimenti, teatri e l’assisteva nelle incombenze personali, quali la toeletta o la stesura della corrispondenza, nelle compere, così come nelle visite agli amici e nei giochi. Passava con lei gran parte della giornata;, sostituendo in tutto, il marito, quando assente: doveva elogiarla, sedersi accanto a lei durante i pranzi o le cene con gli amici, accompagnarla nelle passeggiate o nei giri in carrozza. 
A Milano, il fenomeno riguardava, in molti casi, i cadetti dell’aristocrazia: questi, non potendo fruire delle consistenti rendite patrimoniali riservate al primogenito, ed essendo stati educati proprio per la loro appartenenza alla nobiltà, più alle lettere e alle armi che al lavoro, dovevano accontentarsi di una piccola rendita, insufficiente a mantenere una famiglia. Questo era il motivo per cui modesti ereditieri celibi, (ma spesso anche ammogliati), accettavano di buon grado (a fronte di modesti compensi), di ricoprire il ruolo di cavalier serventi di dame di pari ceto, allietati dall’affetto che li legava a loro.

In questo poemetto satirico, la voce narrante è rappresentata da un diligente “Precettore di amabil Rito” (così si autodefinisce lo stesso Parini), che insegna al “giovin signore” (cioè ad un giovane nobile scansafatiche) affidato alle sue cure, il modo migliore e più confacente al suo rango, su come sconfiggere la noia, trascorrendo piacevolmente la sua giornata.

Parlando del “giovin signore“, il poeta non fa alcun riferimento agli allievi (troppo giovani) dei quali è stato effettivamente precettore ma parla in generale di un giovane nobile che lui stesso definisce come colui che da tutti servito, a nullo serve, un magnifico verso con la frase giocata sul doppio significato che il verbo “servire” ha in italiano. L’intera storia è costruita sull’ambiguità: se a una prima lettura superficiale può sembrare addirittura un elogio allo stile di vita nobiliare, leggendo in maniera più approfondita, emerge subito l’ironia che spesso e volentieri sfocia in sarcasmo e che ha il preciso scopo di criticare e denunciare quello che in realtà è un abuso.
Fin dall’inizio, è intuibile l’intento satirico dell’autore, da cui, in alcuni passaggi, traspare evidente, la sua totale riprovazione per norme che regolano la vita oziosa, superficiale ed inutile dei nobili, e che lui, da semplice borghese, con apparente serietà, proprio perché precettore, è costretto a trasmettere al suo nobile allievo. La sua, non è solo una denuncia dei costumi rilassati del tempo, ma con la sottile ironia intuibile dalle sue parole, vuole indicare al giovane aristocratico, come più proficuamente impiegare il tempo della sua insulsa giornata.

Il salotto dei nobili nel Settecentp

Il Mattino

La giornata inizia con il faticoso momento del risveglio del “giovin signore”. Il sole è già alto, e i contadini, racconta il poeta, hanno, già da diverse ore, iniziato la loro dura giornata di lavoro sui campi. È in effetti, già tarda mattinata per i comuni mortali, ma per il nobile allievo, sembra che sia appena spuntata l’alba. Cosa del tutto naturale, se si considera che è andato a coricarsi al cantar del gallo, esausto com’era, dopo una notte di gozzoviglie, trascorsa fra locali d’azzardo e case di piacere. Subito accudito dai suoi domestici, deve affrontare un’incredibile quantità di impegni. A cominciare anzitutto dal rito della squisita colazione, col quotidiano grave dilemma da risolvere: cioccolata o caffè? Decisione difficile, che solo lui può prendere, poiché la scelta oscilla fra la sua preoccupazione per la tendenza ad ingrassare o la necessità di digerire la cena pesante consumata la sera prima. Segue poi il lungo rito della toeletta mattutina: lui naturalmente, non fa assolutamente nulla (gli hanno insegnato così): è libero solo di pensare, lui pensa, solo pensa …, mentre uno stuolo di lacchè al suo servizio, si avvicenda intorno a lui con tutti gli strumenti del caso, per lavarlo, calzarlo e procedere alla sua vestizione. Il pensiero del “giovin signore” è tutto per la Dama che ha lasciato la sera prima e di cui si è perdutamente innamorato. (Ndr. – – La sua Dama è una donna della quale non è il marito, ma il cicisbeo, cioè l’amante ufficiale). Così, preoccupato per lei, invia subito uno dei suoi servi più fedeli ad accertarsi, se la bella dama ha dormito bene, e ad informarsi, naturalmente con la dovuta discrezione, se il marito, nottetempo, non l’ha importunata. In attesa del ritorno del suo lacchè per la risposta a tale lancinante tormento, il “giovin signore” si abbandona alle sapienti mani del suo parrucchiere personale, per il classico trucco e parrucco. A volte, se il nobile allievo non ha altri pressanti impegni, posa pazientemente per un ritratto, senza rinunciare a criticare anche vivacemente, l’opera dell’artista, qualora sulla tela imbrattata, lui non si riconosca o risulti peggio di come si vede allo specchio.
Di norma, la sua mattinata prosegue con le relazioni sociali: dapprima le visite meno piacevoli, come quella del sarto che viene a chiedergli il compenso pattuito per il vestito nuovo appena consegnato, quindi, a seguire, quelle più gradite, come la visita del maestro per i corsi di ballo e canto, o di quello di violino o ancora dell’insegnante di francese, incontri questi, che, brevi lezioni a parte, spesso si riducono più che altro, ad un frivolo chiacchiericcio mondano. Portate a termine queste incombenze, per lui è ora di pranzo e deve correre dalla sua dama. Mentre si riaffida per qualche minuto, nuovamente al parrucchiere per qualche ritocco (ad esempio perché gli riassesti sotto la parrucca, le ciocche dei suoi capelli, finite fuori posto in seguito a qualche brusco movimento durante la sua lezione di ballo), lui usa quel tempo per concentrarsi in una veloce lettura di un articolo gossip del giornale per avere nuovi argomenti di conversazione e per fare colpo sul gentil sesso che frequenta, dando da intendere di essere informato. Finalmente finite tutte queste stressanti e noiose incombenze mattutine, il nobile allievo è quasi pronto per uscire. Mancano però ancora due operazioni: la prima è quella della distribuzione dei suoi oggetti personali, nelle ampie tasche dell’abito nuovo che indossa. Ad un galantuomo come lui, non possono certo mancare la lente, il cannocchiale per il teatro, la boccetta di profumo, un fazzoletto di pizzo, un sedativo, un coltello per gli imprevisti, un astuccio da toilette ed una tabacchiera, tutti oggetti assolutamente indispensabili. Trovato il posto per tutto questo, l’ultima operazione è l’immancabile tocco finale, la cipria, un vero e proprio sacro rito!
Nella corsa in carrozza per andare dall’amata, il cocchiere ha l’ordine di arrivare a destinazione prima possibile. Pertanto, non si bada al rischio di eventuali incidenti. Poiché il tempo è prezioso, piuttosto che perdere un minuto in più, non si esiterà a travolgere i passanti che intralciano il suo percorso.

Il Meriggio

E’ già pomeriggio inoltrato per il comune mortale, ma i nobili, a quell’ora, devono ancora pranzare. In attesa dell’arrivo del “giovin signore“, la Dama sta dando gli ultimi tocchi alla propria acconciatura, mentre il marito in sala da pranzo, annoiato ed impaziente, è desideroso soltanto di affrettarsi a tavola. Arrivato in casa della nobildonna, il giovin signore viene da lei accolto languidamente, nell’indifferenza totale del consorte, che nota la scena da lontano. La presenza del cicisbeo, per lui rappresenta una comodità, poiché lo dispensa dal dedicare tempo ed attenzioni alla propria moglie. Col consueto cerimoniale, viene fatto accomodare in sala da pranzo, ove intanto altri commensali stanno conversando fra loro, in attesa che i camerieri inizino a servire in tavola. E’ proprio qui, che il protagonista incontra il marito della signora, in impaziente attesa del pranzo. Apparentemente pare freddo, distaccato e pure annoiato, La realtà, è ben diversa: è nervoso e freme, non vedendo l’ora di correre in casa della sua amante, di cui lui è, a sua volta, il “cavalier servente“. Non ha alcun problema a lasciare sua moglie in compagnia del protagonista, sicuro che in sua assenza, il “giovin signore” si prenderà cura di lei, prodigandosi a soddisfarla in ogni suo recondito desiderio o necessità. Del resto, era così che prevedeva la vita nobiliare del tempo.
Nel Settecento, non potendo le donne sposate della nobiltà italiana, uscire da casa se non accompagnate da un uomo cui erano legate da sentimenti di affetto e – in alcuni casi – di amore, nei contratti matrimoniali stilati all’epoca, era addirittura contemplata, in caso di assenza del marito, la clausola del diritto della dama di disporre di un cavalier servente“. (Era una forma di adulterio legalizzato).

La vergine cuccia

Parini poi, si sofferma a descrivere il pranzo e alcune conversazioni che si scambiano i commensali tra una portata e l’altra.
Intorno alla tavola, spiccano in particolare le figure di due personaggi: da una parte, quella del buongustaio, un soggetto ben pasciuto, che, con consumata competenza, giudica la bontà delle vivande che vengono via via servite, e dall’altra, quella del vegetariano, magro e macilento, che, parlando in difesa degli animali e rammentando a tutti la crudeltà dei macellai nei confronti delle povere bestie, fa tristemente rievocare alla Dama, il giorno nefasto in cui la sua cagnolina (“la vergine cuccia“), morse il piede di un suo anziano servitore. Questi, colto alla sprovvista, ebbe l’ardire di allontanare la bestiola con un calcio, facendola rotolare e di conseguenza guaire, quasi a chiedere aiuto alla sua padrona. Sconvolta dal dolore per il male fatto alla sua adorata cagnetta, lei svenne. Appena ripresasi, per quel gesto sconsiderato, licenziò subito lo screanzato servitore e tutta la sua famiglia. A nulla erano valsi i vent’anni di onorato servizio di quel domestico, prestati in casa della Dama. Per quel dissennato gesto, il poveretto si ritrovò di punto in bianco, in strada senza lavoro e a chiedere l’elemosina. E anche se la cagnetta ottenne la sua “giusta vendetta”, il dispiacere e l’onta subita, infiammano il viso della signora, che, adorando gli animali, tanto quanto il vegetariano, si commuove ancora oggi, al solo pensiero di quell’episodio.
Finito il pranzo, i convitati danno sfoggio di “erudizione” intavolando fra loro, per puro esibizionismo, discussioni di filosofia e di scienza. Mentre il giovin signore sfoggia la sua cultura letteraria citando Voltaire e Rousseau (i due intellettuali francesi che vanno di gran moda in quel periodo), altri, per fare particolarmente colpo sul gentil sesso, declamano a memoria versetti latini di Orazio e Petronio, esilarando le signore.
Mentre davanti all’ingresso del palazzo, attratti dall’odore del cibo, si sono radunati alcuni poveri mendicanti in cerca di qualche avanzo, i nobili, dopo il lauto pasto appena consumato, si trasferiscono tutti in salotto per il rito del caffè che viene servito dai camerieri, e per l’immancabile partita al tric e trac (l’attuale backgammon).

Il Vespro

(Questa è la prima parte incompiuta dell’opera).
Siamo al tramonto: se, per gli animali e il “volgo” la giornata finisce mezz’ora dopo il calar del sole (ora italica – cioè è già mezzanotte), per il “giovin signore” e la sua Dama inizia un giro di visite ad alcuni amici. Mentre lei saluta la sua cagnetta (“la vergine cuccia”) in maniera addirittura patetica, come se fosse costretta ad abbandonarla per sempre, lui, prima di uscire si risistema davanti allo specchio. Quindi escono in carrozza per iniziare il loro giro. Lei, in particolare, smania di sapere direttamente dall’amica del cuore i veri motivi del suo improvviso svenimento il giorno prima. Un nuovo baby in arrivo? Chi, il padre? E’ tutto un intrecciarsi di piccanti pettegolezzi, scanditi, dall’agitarsi dei ventagli.
Successivamente, i due amanti fanno una fugace visita a un amico malato, cui prudentemente evitano di avvicinarsi, lasciandogli sulla porta unicamente un biglietto da visita, per fargli sapere che sono passati a trovarlo. Infine, dopo essersi complimentati con un nobile che ha appena avuto un figlio, prima di rincasare passano a trovare una nobildonna che, essendo stata recentemente al centro di molte dicerie, ha avuto una violenta crisi di nervi.

La Notte

(Questa è l’ultima parte incompiuta dell’opera)
Rientrati a casa, la stressante giornata del “giovin signore” non è ancora finita. Vi è un ultimo ricevimento notturno, organizzato nel palazzo di un’anziana matrona, cui non si può proprio mancare. Pur annoiati, dopo essersi cambiati d’abito e ingioiellati, i due amanti si accingono a portare a termine quest’ultima fatica! Giungono in carrozza all’appuntamento, a festa è già iniziata, per lasciarsi subito invischiare nel gioco o inebriare dalle danze. Il luogo è ideale per mettersi in mostra: le dame, per stuzzicare l’invidia delle amiche, facendo sfoggio dei loro abiti alla moda e delle splendide parure; gli uomini, per nuove avventure, ostentando le loro tabacchiere luccicanti e i loro anelli con pietre preziose davanti al gentil sesso, nella speranza di cogliere nei loro sguardi un segno d’intesa, per qualche nuovo approccio piccante.
Così mentre nei salotti, gruppi di uomini chiacchierano, altri giocano, altri ancora furtivamente intrecciano nuove storie d’amore.
Con una punta di amara ironia per simili vanità e vite sprecate in occupazioni assolutamente inutili, l’autore descrive minuziosamente la sala da gioco, l’ambiente-tipo dove il “giovin signore” ama trascorrere le ore piccole prima di rincasare all’alba. Non solo descrive diversi dei personaggi presenti, soffermandosi in particolar modo sugli “imbecilli”, coloro cioè che sono pieni di stupide manie, ma pure, parla diffusamente dei tavoli da gioco, sistemati dai servi, sotto la direzione della padrona di casa. Infatti, è lei a decidere ove debbano sedersi gli ospiti, separando i mariti dalle mogli infedeli, allo scopo di creare nuovi intrighi e stuzzicare vecchi amori o facendo sistemare vicine le rivali in amore, così da offrire occasioni di scintille fra le due o comunque, di gustose punzecchiature. Inizia il gioco. È con esso, si interrompe l’ultima parte dell’opera.

Proprio così sostiene Parini, finisce l’annoiata ed insulsa giornata del nobile italiano del Settecento, che tornato a casa a notte fonda, l’indomani,rivivrà, in maniera simile, la sua nuova giornata.

Il significato dell’opera

Come già accennato, il poema è scritto in chiave ironica come critica aperta alla nobiltà settecentesca, un ambiente che l’autore stesso ha frequentato nel suo ruolo di precettore di famiglie aristocratiche. Avendo esperienza in merito, Parini fornisce un quadro preciso di ciò che era la vita condotta dai nobili italiani: corruzioneoziositàlibertinismolicenziosità e molti altri vizi contaminavano la classe aristocratica. I nobili, che in passato erano stati vigorosi e in grado di guidare il popolo, erano diventati, secondo la testimonianza di Parini, pigri e pieni di vizi.

Parini infatti non si pone come nemico della casta nobiliare (come al contrario lo erano molti pensatori del suo tempo), ma si fa portavoce di una teoria secondo la quale l’aristocrazia vada rieducata al suo originario compito di utilità sociale, compito quest’ultimo che giustifica appieno tutti i diritti ed i privilegi di cui gode. Il suo invito è che la ricchezza vada investita nel bene di tutti cittadini e non nei divertimenti e nello sfarzo di pochi nulla facenti. Da qui si può comprendere come la sua polemica antinobiliare fosse in linea con il programma riformatore di Maria Teresa d’Austria, che puntava ad un reinserimento dell’aristocrazia entro i ranghi produttivi della società.

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