Il Naviglio Pavese
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Una visione lungimirante
Ripercorrendo gli ultimi ottocento anni della storia di Milano e della Lombardia, partendo dal tempo dei Comuni, furono i Visconti i primi, fra le famiglie più in vista del territorio, a rendersi conto che la loro potenza e la possibilità di arricchimento della loro dinastia, si sarebbero potute concretizzare anche con strumenti diversi da quelli usualmente rappresentati dalle guerre e dalla conquista di territori da aggiungere ai propri, o dalle sopraffazioni messe in atto nei confronti dei sudditi, allo scopo di ottenere il massimo rendimento al minor costo possibile. Ascesi, verso la fine del XIII secolo (1272), al dominio della città, una volta cacciati i Della Torre (precedenti Signori di Milano), furono infatti proprio loro, i primi ad intuire che, il favorire l’imprenditoria, sviluppando i commerci e incrementando gli scambi e le esportazioni, sarebbe stato sicuramente il miglior volano per l’economia di tutta la regione. Queste attività avrebbero necessariamente comportato una radicale espansione delle vie di comunicazione nel territorio e quindi pure dei trasporti. E’ proprio ragionando in quest’ottica che, sfruttando l’orografia e l’idrografia del territorio, favorirono una politica di ampliamento della rete delle cosiddette “strade d’acqua”, cioè dei Navigli.
Interessi personali più o meno velati
Questo naturalmente non significa che qualcuno dei Signori o dei Duchi che si sono succeduti al potere nel corso di poco più di un secolo, non abbia ordinato l’esecuzione di opere per soddisfare pure (o esclusivamente) i propri interessi personali. I Visconti prima e gli Sforza poi, oltre alle principesche dimore di Milano, ne avevano altre nei maggiori centri della Lombardia, senza contare naturalmente le lussuose residenze estive nelle località più rinomate: era quindi anche comprensibile il desiderio di raggiungere quei posti con maggiore comodità, data la carenza e l’insicurezza delle strade di allora.
Caso eclatante d’interesse personale, fu sicuramente quello del duca Filippo Maria Visconti che, stufatosi di sua moglie Beatrice Cane (vent’anni più vecchia di lui), andava alla ricerca di consolazione altrove. Stando a quanto cita il suo biografo ufficiale, il pavese Pier Candido Decembrio, per poter raggiungere comodamente le sue amanti (come Agnese del Maino), che usava ospitare nel suo Castello di Cusago, non esitò a farsi costruire all’esterno delle mura della città, un canaletto a suo uso personale (navigabile per piccole imbarcazioni) che congiungesse la fossa interna (che passava proprio a ridosso del Castello di Porta Giovia) con il laghetto di sant’Eustorgio, per consentirgli, non visto, di raggiungere le sue spasimanti navigando poi da lì sino a Cusago, sul Naviglio Grande.
Ndr. – Per la cronaca, Agnese del Maino ebbe da Filippo Maria, la figlia Bianca che, dopo essere stata riconosciuta dal padre come Visconti, andò in sposa al futuro duca Francesco Sforza.
Per approfondimenti al riguardo, leggi l’articolo cliccando sul seguente link
Filippo Maria Visconti
L’idea di poter oggi, arrivare a Venezia sull’Adriatico, partendo da una qualunque località sul Lago Maggiore, usando “una strada d’acqua”, non è un sogno solo dei nostri giorni. Come spesso accade, questo desiderio risale già a diversi secoli fa, utopia che, appena nell’Ottocento, ha trovato la possibilità di attuazione effettiva. Certamente la realizzazione di questo sogno ha, oggi, scopi esclusivamente turistici, comunque la possibilità di un collegamento fra il Lago Maggiore e l’Adriatico, via Milano ed i Navigli, teoricamente esiste davvero senza necessità di opere particolari ma unicamente ripristinando l’esistente, lasciato attualmente andare in rovina.
Secondo diversi storici, le origini del primo naviglio lombardo, il Naviglio Grande, si collegano a un canale scavato da Abbiategrasso a Landriano (sul Lambro Meridionale, al confine con il territorio di Pavia) a difesa dalle incursioni dei Pavesi, alleati del Barbarossa. Non si sa esattamente da dove il canale derivasse le acque: forse dall’Olona naturale, dal Mischia (una roggia che scorre da Abbiategrasso a Milano, passando da Cisliano arricchita da varie risorgive) o, infine, direttamente da un fosso derivato dal Ticino fino ad Abbiategrasso. La terza è l’ipotesi più probabile anche perché il canale, sia a monte, sia a valle, veniva indicato come Canale Ticinello.
Certa invece è la data di costruzione del canale difensivo, il 1152, e l’artefice, Guglielmo da Guintellino (detto l’Archimede milanese per la sua vasta esperienza idraulica), architetto militare genovese al servizio dei Milanesi, che, tra il 1156 e il 1158, realizzò anche il fossato interno a difesa della città e, con il materiale di riporto degli scavi, costruì dei bastioni fortificati. A Milano esiste ancora oggi la via Terraggio, parallela alla fossa interna, che prese il nome proprio dal terrapieno (terraggio, appunto) che aveva a ridosso e che risaliva a quell’epoca.
A differenza del Naviglio Grande (lungo quasi 50 km), per i cui lavori, iniziati nel 1179, e finiti nel 1272 (prima dell’ascesa al potere dei Visconti) ci vollero 93 anni perché venisse completato, la costruzione del Naviglio Pavese (lungo solo 33 km), fu indubbiamente molto più lenta e travagliata. Ma vediamo meglio le varie fasi di questa impresa.
Il Navigliaccio
L’idea iniziale di costruire una via d’acqua che collegasse Milano all’Adriatico, passando per Pavia che si affaccia sul Ticino, quasi alla confluenza col Po, risale già alla seconda metà del XIV secolo (1359), quando, Galeazzo II Visconti, dette ordine di procedere con lo scavo di un canale con l’intento di collegare Pavia con Milano.
NOTA
Galeazzo II Visconti condivideva all’epoca, col fratello più giovane Bernabò, la Signoria di Milano. Dopo la morte del fratello maggiore Matteo II, si erano spartiti la Signoria a metà e così pure la città di Milano. Inizialmente era andato ad abitare al Castello Visconteo di Porta Giovia, mentre Bernabò dimorava con la sua famiglia alla Ca’ di Can, la casa fortino (nell’attuale Piazza Missori) nota per i suoi 5000 feroci mastini. Essendo Galeazzo per sua natura, un soggetto molto meno irrequieto del fratello minore, e non volendo, stando vicino a lui, fare la brutta fine di Matteo II (avvelenato da Bernabò) o si venissero a creare motivi di scontro o di dissidio familiare soprattutto fra le due irrequiete cognate, aveva optato di trasferirsi appena possibile a Pavia, con la famiglia. Si era fatto costruire allo scopo, un sontuoso castello in riva al Ticino. Quando motivi istituzionali lo obbligavano ad essere presente a Milano, Galeazzo aveva sempre comunque a disposizione il suo Castello Visconteo, di Porta Giovia.
A dirla tutta, pare che, in prima battuta, egoisticamente, Galeazzo II avesse ordinato lo scavo di quel canale per utilizzo privato, pensando di poter raggiungere da Milano, la sua nuova residenza di Pavia comodamente via “nave”. Parallelamente alla costruzione del Castello, aveva pure avviato l’allestimento di un grandioso parco visconteo che, da Pavia, si estendeva ben oltre l’attuale Certosa (costruita anch’essa in quel periodo quale mausoleo dei Visconti). Per irrigare quell’immenso parco, si sarebbe potuto utilizzare l’acqua del Navigliaccio (questo il nome che avrebbe preso, una volta completato). Partendo da Pavia, questo canale sarebbe arrivato ben oltre la Certosa, quasi sino a Binasco, collegandosi al canale Ticinello per sfruttare l’apporto delle sue acque.
Ndr. – Il canale Ticinello è un corso d’acqua irriguo della Provincia di Milano che ha l’incile a Castelletto di Abbiategrasso sul Naviglio Grande e sfocia tra Mettone e Casirate Olona, nella Roggia Carona.
I cronisti del tempo, a canale ultimato, riportano testimonianze di quanti asserivano di aver notato navigare battelli con o senza carico, e di aver visto pure Galeazzo II che a bordo di una speciale imbarcazione si faceva trasportare, con qualche difficoltà, da Milano a Pavia e viceversa.
Fra l’altro, la strada costruita parallelamente al canale, quella che chiamiamo alzaia, pare fosse effettivamente riservata al duca al punto da prendere il nome di “stradella domini” (ad uso del dominus generalis della città), perché Galeazzo II potesse transitare in barca controcorrente legato ad una fune, trainato, da terra, da un cavallo.
Non potendo il Navigliaccio proseguire oltre Binasco per problemi di pendenza (ai tempi, non ancora risolti), a parte qualche probabile tentativo di navigazione, ebbe in pratica, unicamente la funzione di canale irriguo, destinato a portare l’acqua del Ticinello al grandioso Parco visconteo, .
Il Naviglio di Bereguardo
La necessità particolarmente sentita di un collegamento di Milano col Po e l’Adriatico per favorire lo sviluppo di scambi commerciali con Venezia e l’Oriente, suggerì già nel 1420, all’allora Duca di Milano Filippo Maria Visconti, di dare l’avvio ai lavori di costruzione di un canale navigabile che, staccandosi dal Naviglio Grande all’altezza di Castelletto di Abbiategrasso e dirigendosi verso sud, raggiungesse il Ticino in un punto ove fosse garantita la sua navigabilità. I lavori iniziarono effettivamente, ma, ben presto, furono sospesi per sopraggiunte difficoltà tecniche, dovute ai dislivelli all’epoca insormontabili.
Per la ripartenza dell’opera sarebbe stato necessario attendere un “novello Leonardo” che inventasse le conche, un’attesa che sarebbe durata ancora un trentennio.
Ndr. – La prima conca in Italia e la seconda al mondo, fu la “Conca Santa Maria”, costruita a Milano nel 1439. Fu realizzata non da Leonardo da Vinci, che all’epoca non era ancora nato, (nascerà appena nel 1452) ma da uno sconosciuto Filippino degli Organi (il principale ingegnere della Veneranda Fabbrica del Duomo), per unire il laghetto di Sant’Eustorgio, alla Cerchia interna dei Navigli.
Per approfondimenti sulla prima conca creata a Milano, leggi l’articolo
la Conca di Viarenna
Sarà infatti il nuovo Duca di Milano Francesco Sforza che, nel 1457, a seguito proprio dell’invenzione della conca, darà enorme impulso alla costruzione dei Navigli. A nord est darà inizio ai lavori di quello della Martesana (38,7 km) che avrebbe permesso di raggiungere l’Adda, opera che si sarebbe conclusa nel 1500; a sud favorirà la ripresa dei lavori di costruzione di quello di Bereguardo (di 18,8 km) lavori che si sarebbero conclusi, nel 1470, dopo la sua morte.
Il Naviglio di Bereguardo, durante la dominazione spagnola, era quindi perfettamente operante con le sue 11 conche, ma pur confluendo nel Ticino presso il Ponte di Bereguardo, aveva il grosso difetto di non avere sbocco diretto navigabile sul fiume. [Ndr. – Presumo dipendesse o da mancanza di finanziamenti sufficienti per il completamento dell’opera, o da qualche errore di calcolo oppure da problemi legati all’eccessivo dislivello da ricoprire con una o più chiuse per raggiungere il letto del fiume, considerando anche i periodi di magra dello stesso]
Ndr. – Dal punto di vista politico, questa mancanza di sbocco al fiume, era un’arma a favore dei pavesi contro Milano, in quanto consentiva a Pavia, il completo controllo sui traffici, da e per il capoluogo lombardo.
Difficoltà di utilizzo legate al mancato sbocco sul Ticino
Rimanendo pertanto separato da una lingua di terra di circa tre chilometri dalle sponde del Ticino, i barcaioli provenienti dal Po e diretti a Milano, risalivano il Ticino nel suo primo tratto, fino all’altezza di Bereguardo ove il fiume era ancora navigabile. Lì, in funzione del tipo di carico o facevano il trasbordo di tutte le merci via terra, a dorso di mulo, sino al canale artificiale ove attendeva un altro natante, oppure addirittura sollevavano dall’acqua gli interi barconi, li caricavano su appositi carri, li trasportavano fino alla piccola darsena e quindi li ricalavano in acqua nel Naviglio di Bereguardo. Ovviamente questa era un’operazione molto dispendiosa sia in termini di tempo, che di costi e di fatica per gli operatori. Arrivati in qualche modo sul canale, il loro lavoro era tutt’altro che finito! Bisognava appena risalire interamente il canale contro corrente, arrivare alla confluenza col Naviglio Grande (all’altezza di Castelletto di Abbiategrasso) per proseguire poi, finalmente in favore di corrente, fino al laghetto di Sant’Eustorgio a Milano. Come si può intuire, la cosa comunque era tutt’altro che semplice e i tempi di navigazione erano ovviamente lunghi, da un lato perché, viaggiando controcorrente, le barche dovevano essere trainate con delle funi (da terra), con l’aiuto di buoi o cavalli che procedevano lungo l’alzaia fiancheggiante il canale, dall’altro, per le numerose soste forzate alle chiuse, distanti mediamente l’una dall’altra, circa 1,7km. Basti pensare che, nel tratto fra Abbiategrasso e Bereguardo, per coprire un dislivello complessivo di 25 m su un totale di 18,8 km, vi erano ben 11 conche (o chiuse), una delle quali, addirittura doppia. Questo significava 12 soste di almeno 15 minuti l’una, considerando i tempi di riempimento e svuotamento controllato della chiusa. In definitiva, ci volevano circa 3 ore solo per superare il dislivello complessivo, oltre poi il tempo necessario per percorrere i quasi 19 km, al traino di animali, per arrivare alla confluenza col Naviglio Grande a Castelletto di Abbiategrasso. Questa unica via d’acqua di collegamento fra Milano e l’Adriatico, fra l’altro molto trafficata, rimase attiva fino al 1819, anno di apertura del nuovo Naviglio Pavese. Da quel momento, il Naviglio di Bereguardo venne rapidamente dismesso e declassato a semplice canale irriguo.
Il Naviglio Pavese
Per sentir parlare nuovamente della necessità di un canale più efficiente, di collegamento fra Milano e Pavia, che sfociasse direttamente nel Ticino, bisognerà attendere fino oltre la metà del XVI secolo.
L’arrivo degli spagnoli e il progetto Meda
Sotto la dominazione spagnola fra il 1535 ed il 1705, si diede effettivamente inizio allo studio di fattibilità e all’avvio dei lavori di costruzione del Naviglio di Pavia, lavori indispensabilii soprattutto per via della riconosciuta inadeguatezza e della scomodità d’utilizzo del Naviglio di Bereguardo,
Fu quindi verso la fine del Cinquecento che il governo spagnolo approvò l’idea di creare un nuovo canale per collegare Milano al Ticino, passando per Pavia. L’ingegnere Giuseppe Meda, noto pittore, architetto ed ingegnere idraulico, venne incaricato di stendere l’ambizioso progetto, lavoro che portò a termine nel 1595. Sfruttando il Navigliaccio già esistente, per il contenimento dei costi, secondo i suoi calcoli, sarebbero bastate tre o quattro conche per coprire il percorso da Milano all’ingresso di Pavia e altrettante per consentire la discesa delle imbarcazioni da Pavia città, al Ticino: il tutto per un totale così di 7 o 8 conche. Nel 1598, il progetto, sottoposto al re di Spagna Filippo II, per il finanziamento che sarebbe stato concesso da parte della Corona spagnola, ottenne la sua approvazione. Completati tutti gli adempimenti burocratici per le varie autorizzazioni, l’improvvisa morte dell’ingegner Meda, seguita a breve da quella pure dello stesso sovrano, bloccarono l’avvio dei lavori.
Il Conte de Fuentes
Nel 1600, il nuovo governatore di Milano, don Pietro Enriquez de Acevedo, conte di Fuentes, nominato dal re Filippo III appena insediato al potere, diede speranza ai milanesi di poter finalmente far partire i lavori del nuovo canale. Personalmente, il governatore era favorevolissimo all’opera: grazie al suo fattivo interessamento, i lavori partirono effettivamente, dando corso al progetto Meda (valutato al momento della sua stesura, in 76500 scudi). Il sovvenzionamento iniziale di 50000 scudi era stato finanziato dalla camera erariale, mentre la parte restante, rimaneva a carico dei proprietari dei terreni che, trovandosi lambiti dal canale, avrebbero tratto indubbi vantaggi di carattere irriguo.
Il governatore nominò alla direzione dei lavori gli ingegneri Francesco Romussi e Alessandro Bisnati, i quali esaminato l’originale progetto di Giuseppe Meda, ne proposero una prima importante variazione: il Naviglio avrebbe abbandonato il letto del Navigliaccio a Binasco, seguendo un percorso parallelo spostandosi dalla destra alla sinistra della strada maestra che da Milano conduce a Pavia.
Secondo le misurazioni dei due ingegneri, la pendenza del terreno dal laghetto di Sant’Eustorgio al letto del Ticino a Pavia era di 53,46 m. Il tratto fra Milano e l’ingresso di Pavia (circa 25 m di dislivello) si sarebbe potuta superare, a loro avviso, con due sole conche; la prima avrebbe dovuto essere a monte del Lambro meridionale a circa 3,5 km da Milano (nei pressi dell’odierna Conca in via Chiesa Rossa) e la seconda presso il paese di Torre del Mangano, oggi Certosa di Pavia, a circa 7 km da Pavia città.
Nel 1601, i lavori in effetti partirono ma, ben presto vennero rallentati e poi addirittura sospesi del tutto, a causa di problemi burocratici ed amministrativi, con conseguenti inaccettabili ritardi dei pagamenti con cui il governo spagnolo saldava i propri debiti agli appaltatori.
La prima conca del Naviglio (nell’attuale via Chiesa Rossa) fu costruita nel 1601 dagli ingegneri Bisnati e Romussi eseguendo sul salto dell’acqua, dei calcoli che, alla fine, si sarebbero rivelati errati. [Ndr. – la conchetta, cioè la prima chiusa all’incrocio fra via Conchetta e via Ascanio Sforza, all’epoca non c’era, né era in progetto]. Questi errori si tradussero in un sensibile aggravio di costi che finirono a carico della popolazione che, già abbondantemente tartassata di gabelle, era sicuramente poco propensa a sobbarcarsi ulteriori tasse per errori altrui. La conca presenta un salto di 4,6 m ma per gli insorti problemi tecnici ed economici, all’epoca non fu portata a termine.
Fu questo il motivo per cui, viste le difficoltà incontrate, la gente si convinse che era stato commesso qualche grossolano errore di progetto, sì da affibbiare a questo canale, il poco lusinghiero nome di “Naviglio Fallato” (cioè “sbagliato”) e così pure all’unica chiusa già costruita fino ad allora, quello di “Conca Fallata” (“Fallata” nel senso di “progettata inutilmente”) denominazione questa, che mantiene ancora oggi, al punto da connotare poi l’intera zona.
Nel 1603, sempre su richiesta del Conte di Fuentes, venne anche realizzata la Darsena come trasformazione del laghetto di Sant’Eustorgio, in un vero e proprio porto fluviale. Era addossata alle mura spagnole di Milano, costruite dal 1548 al 1562 per sostituire quelle medievali di Milano, ormai diventate obsolete dopo l’invenzione della polvere da sparo, e poi demolite all’inizio del XX secolo. Il porto fluviale ne assecondava il perimetro nel vertice sudoccidentale, da cui la caratteristica forma allungata e ricurva del bacino acqueo. In Darsena finisce il Naviglio Grande in corrispondenza del ponte dello Scodellino, e poche decine di metri più ad est, proprio sotto il ponte del Trofeo, inizia il Naviglio Pavese. Quasi di fronte ai due, finisce pure il Naviglio Vallone (un piccolo canale artificiale navigabile,. che passando sotto le mura spagnole, collegava la Fossa interna dei Navigli, di cui era l’emissario principale, alla Darsena di Porta Ticinese. Lungo 700 metri, era fornito di una conca di navigazione, la Conca di Viarenna, che è stata realizzata contestualmente.
Nonostante le difficoltà evidenziate nella realizzazione del Naviglio Pavese, l’anno seguente (1601), la direzione dei lavori, sollecitata dal governatore, decise di adattare alla meglio il primo tratto scavato fino all’incrocio col Lambro meridionale e, ben lungi dall’aver completato l’opera, di organizzare una grande inaugurazione del primo tratto alla presenza del conte di Fuentes. Sempre su richiesta del governatore, la cosa venne organizzata alla grande, con la discesa di quel primo tratto su una magnifica galea di Stato il “bucintoro” allestito appositamente per l’occasione. Come se non bastasse, per tramandare ai posteri il ricordo di quella memorabile giornata e della fastosa cerimonia, venne pure eretto sul ponte (nel punto in cui dalla Darsena nasce il Naviglio Pavese), un monumento, il cosiddetto Trofeo Fuentes, a futura gloria.
Scolpito da Giacomo Novi, fu fatto erigere con grandi festeggiamenti, in Darsena, sul ponte sotto il quale inizia il Naviglio Pavese, dal governatore dello Stato di Milano, don Pietro Enriquez de Acevedo conte di Fuentes, per gloriarsi di aver reso finalmente navigabile il naviglio pavese unendo così Milano al mare Adriatico, via Pavia.
I lavori continuarono a rilento fino al 1605 quando gli appaltatori, non vedendo soddisfatte le promesse di pagamento nei tempi dovuti, cessarono ogni attività a tempo indeterminato.
La lapide alla base del monumento, riporta una scritta in latino, che recita più o meno così:
“Don Pietro Enrico Azeveido, Governatore della provincia milanese, realizzò questa mirabile opera attraverso la quale le acque del Verbano e del Lario (lago maggiore e di Como, come si dice oggi), unite, possono arrivare al Ticino e al Po, per la navigabilità e per l’irrigazione, rendendo così le terre agricole feconde e i commerci sicuri e facili, aumentando le ricchezze sia private che pubbliche”.
Defendente Sacchi (1796 – 1840), giornalista, filosofo e scrittore, nel parlare di Fuentes, lo definì “uomo ambizioso” e, quanto al monumento che fece erigere sul ponte, lo liquidò come monumento “bugiardo” e frutto di “solenne menzogna”. Il Trofeo Fuentes (così venne chiamato quel monumento), fece bella mostra di sé dal 1602 al 1872, anno in cui venne demolito, dopo aver staccato la lapide e i due bassorilievi che lo adornavano, oggi conservati al Museo del Castello Sforzesco.
Visto che i lavori erano fermi, qualcuno suggerì l’idea di modificare il percorso del canale non facendolo più andare a Pavia come inizialmente previsto, ma deviandolo sotto la prima conca per farlo finire direttamente sul Lambro. tanto per renderlo di qualche utilità.
Nel 1610, morì il Conte di Fuentes, vero convinto sostenitore del canale. Da controlli contabili eseguiti da parte della Corona spagnola, visto che si era già abbondantemente sforato l’importo pattuito per la realizzazione dell’opera (e si era appena agli inizi), il percorso d’acqua venne interrotto così definitivamente all’altezza della Conca Fallata. Infatti il nuovo governatore di Milano Ivan Fernando de Velasco, l’anno successivo, ordinò, con un decreto, l’abbandono definitivo di tutti i lavori del canale. Il piccolo tratto di canale già scavato (circa 3,5km) e funzionante, venne destinato al solo uso irriguo.
L’abbandono dei lavori per quasi due secoli
Nel corso del XVII secolo, vennero presentati alcuni progetti al governo spagnolo, ma nessuno di questi venne mai preso in considerazione, segno evidente dello scarso interesse che l’amministrazione spagnola nutriva al riguardo. Il secolo successivo, quando Milano passò sotto la dominazione del governo austriaco, si tornò, nella seconda metà del XVIII secolo, a parlare nuovamente del Naviglio di Pavia, ma pure in questa occasione , non se ne fece nulla: questa volta però, non per colpa degli austriaci, ma degli stessi pavesi.
Infatti nel 1773, Maria Teresa d’Austria, da imperatrice illuminate qual era, dispostissima a riavviare i lavori, aveva ordinato, con una lettera indirizzata al governatore di Milano Karl Joseph von Firmian, che si riprendesse in mano il progetto per la realizzazione del Naviglio Pavese. L’anno seguente, il governatore aveva provveduto ad affidare al barnabita Paolo Frisi, matematico, astronomo, scienziato milanese di fama, il compito di redigere un nuovo progetto per la costruzione dell’opera. Era indubbiamente un esperto in materia avendo già affrontato qualche mese prima, un analogo progetto per il piccolo ma impegnativo Naviglio di Paderno, solo 2,6km di lunghezza, canale questo, che avrebbe permesso di bypassare le rapide dell’Adda (unico tratto non navigabile da Lecco sul Lario, a Concesa subito sotto Trezzo sull’Adda ove nasce il Naviglio della Martesana), consentendo in tal modo, la completa navigabilità fra Milano e il lago di Como. Valutati i costi delle due opere, furono solo motivi prettamente economici a fare scartare l’idea di mettere mano contemporaneamente a due cantieri così impegnativi. Così il ministro degli Esteri Kaunitz, incaricato da Maria Teresa di decidere quale corso d’acqua privilegiare per l’avvio dei lavori, decise di consultare Como e Pavia, le due città maggiormente interessate all’esecuzione delle rispettive opere. I pavesi, in nome dell’antica rivalità fra Pavia e Milano, temendo di essere relegati in secondo piano rispetto al capoluogo lombardo, invece di favorire la costruzione del canale, dimostrarono la loro inspiegabile miope contrarietà, chiedendo al governo di soprassedere, adducendo a giustificazione del loro disappunto, che il completamento dell’opera, avrebbe sicuramente penalizzato i loro commerci in favore di Milano. Kaunitz decise così di far eseguire i lavori sul Naviglio di Paderno, opera questa che sarebbe stata poi completata, nell’arco di quattro anni (1773-1777).
L’arrivo di Napoleone (1796)
Perduta anche questa opportunità, i lavori sul Naviglio Pavese restarono congelati per un altro trentennio, fino al 1805. Passata Milano sotto il controllo francese, la città era diventata la capitale dapprima della Repubblica Cisalpina (1797-1802) poi della Repubblica Italiana (1802-1805) ed infine del Regno d’Italia (1805-1814). Visto che l’Italia era diventato un paese satellite della Francia, Napoleone pensò bene di migliorare le comunicazioni fra le due nazioni. In quel periodo, prese piede un fervore di iniziative e di attività, intese a favorire la realizzazione degli obiettivi di conquista dell’Europa da parte dell’imperatore francese. In quest’ottica il miglioramento delle vie di comunicazione era fondamentale. Infatti, la costruzione della strada del Sempione (tra il 1800 e il 1805), fu da lui voluta perché avrebbe favorito un più rapido collegamento con Parigi. Dal punto di vista prettamente militare, oltre a Mantova che era la sua piazza militare più importante, a Pavia, il castello visconteo di Pavia, era utilizzato come arsenale per la costruzione/riparazione della sua artiglieria pesante (cannoni, mortai ecc). Pare che i grandi forni per la fusione del bronzo dei cannoni ed il grosso trapano necessitassero di molta energia elettrica per funzionare: di conseguenza, anche per questo motivo, Napoleone arrivò alla conclusione che per migliorare il collegamento con Pavia per il trasporto di materiale pesante, sarebbe stato urgente riprendere in mano l’antico progetto del Naviglio Pavese e portarlo a compimento nel minor tempo possibile. Inoltre un’estensione verso il Po e il mare Adriatico avrebbe potuto aprirgli nuovi orizzonti di conquista. Ecco quindi giustificato il suo perentorio decreto al riguardo, datato 21 giugno 1805:
A dirigere l’impresa venne chiamato il rettore dell’Università di Pavia, Vincenzo Brunacci.
Gli 8 anni previsti per la realizzazione dell’opera non furono sufficienti per portare a termine la costruzione. Ciò dipese dal negativo evolversi delle vicende belliche nelle campagne napoleoniche. Già nel 1813, vi fu un rallentamento significativo dell’attività quando lo scavo era già arrivato alle porte di Pavia.
Nuovo stop per il ritorno degli austriaci (1815)
Vi fu naturalmente uno stop dei lavori, quando, con l’imperatore francese relegato all’Elba, l’anno successivo, gli austriaci ripresero nuovamente il controllo del Lombardo Veneto. Dopo un periodo di riassestamento politico, i lavori del Naviglio ripresero nuovamente, dopo che il governo, riconosciuta l’utilità dell’opera, diede il suo beneplacito al prosieguo e al completamento dell’attività.
Nuova ripresa dei lavori
Naturalmente la ripresa dei lavori era condizionata dall’approvazione dei finanziamenti pubblici a fronte un preventivo di spesa che variava in funzione del tempo. Quindi ad ogni cambio di gestone sia politica che amministrativa (austriaci prima, poi francesi, poi nuovamente austriaci) corrispondeva la necessità di volta in volta di rifare nuovamente i progetti non solo per verificare la bontà degli studi già fatti da altri quanto soprattutto per calcolare i preventivi di spesa per il completamento dell’opera, nella valuta corrente, tentando di volta in volta di minimizzare i costi.
Ndr. – Bisogna tener presente che nelle varie amministrazioni estere succedutesi fra il XVIII e il XIX secolo, a parte la valutazione delle spese da affrontare calcolate nelle monere locali, i costi previsti per la realizzazione del singolo tratto di canale o della singola chiusa non erano nemmeno confrontabili fra loro non solo per problemi di svalutazione della moneta nel tempo, ma per il fatto che, a differenza degli austriaci ancorati ancora al vecchio sistema carolingio, Napoleone aveva introdotto in Italia il sistema decimale, sistema che tornò ad essere nuovamente carolingio con la Restaurazione (dopo il 1814).
Per approfondire il discorso relativo ai sistemi carolingio e decimale, leggi l’articolo
L’influsso francese, nella Milano austriaca
Il direttore generale delle Acque e strade, Conte Giovanni Paradisi, nominò quindi una commissione di periti per redigere il progetto, composta dal matematico professore Vincenzo Brunacci dell’Università di Pavia e dagli ingegneri governativi Ferrante Giussani e Angelo Giudici. La commissione tenne sostanzialmente valido il tracciato precedentemente determinato dal barnabita Frisi. Per quanto atteneva le conche, furono confermate quelle ipotizzate dal Frisi e vennero fissate anche quelle da collocare in città: la prima davanti alla Porta di San Vito, la successiva davanti alla Porta Stoppa posta nei pressi di piazza Emanuele Filiberto, la terza conca prima d’incontrare la strada postale per Cremona e l’ultima conca posta sulla stessa strada prima dello sbocco nel Ticino.
Comunque, man mano che lo scavo del canale avanzava, venivano aperti al traffico nuovi tratti del Naviglio Pavese. Nel 1817 la navigazione era già aperta fino a Porta San Vito (oggi Porta Milano), all’ingresso di Pavia.
Finalmente il Naviglio completato (1819)
L’inaugurazione solenne avvenne il 16 agosto 1819, quando Milano fu finalmente collegata a Pavia grazie ai 33 km del corso d’acqua e alle 12 conche che permettevano di superare il dislivello esistente tra le due città, sino al Ticino.
Il collegamento diretto, via acqua, tra Milano e l’Adriatico, era stato finalmente realizzato! Il sogno vagheggiato fin dai tempi dei romani e poi dai Visconti agli Sforza, dagli spagnoli a Maria Teresa a Napoleone, finalmente dopo tanti secoli si era avverato. Il governo austriaco fece di Pavia il più importante porto fluviale della Lombardia, secondo soltanto a quello di Mantova, che aveva peraltro una maggiore importanza militare, contribuendo in misura rilevante al progresso della città che fino ad allora, era vissuta sempre ai margini dell’economia lombarda, comunque all’ombra del vicino capoluogo.
Queste le dodici conche del Naviglio Pavese:
- Conchetta (1,85 metri di dislivello)
- Conca Fallata (4,65 metri di dislivello)
- Conca di Rozzano (3,6 metri di dislivello)
- Conca di Moirago (1,7 metri di dislivello)
- Conca di Casarile (4,8 metri di dislivello)
- Conca di Nivolto (3,5 metri di dislivello)
- Conca di Certosa di Pavia (4,4 metri di dislivello)
- Conca del Cassinino (4,8 metri di dislivello)
- Conca di Porta Cairoli (4,4 metri di dislivello)
- Biconca della Botanica (due conche da 3,8 metri di dislivello per un totale di 7,6 metri)
- Biconca di Porta Garibaldi (due conche da 3,8 metri di dislivello per un totale di 7,6 metri)
- Conca del Confluente (3,3 metri di dislivello)
L’ultima conca era particolarmente profonda perché doveva funzionare sia quando in regime di piena che nel periodo in cui il Ticino era in magra.
Una volta superata l’ultima conca si giungeva a una lunghissima Darsena lunga 120 metri e larga 60 che permetteva l’attracco anche alle imbarcazioni più grandi giunte dal Po e rendeva possibili le ingombranti manovre dei barconi, oltre che il carico-scarico dei grandi carichi merci.
Il Naviglio Pavese divenne il più frequentato tra i corsi d’acqua artificiali della regione. Lungo più di 33 km, largo mediamente 10,8 m sul fondo e 11,8 m al pelo dell’acqua, lambisce gli abitati di Rozzano, Badile. Binasco, Casarile, Certosa e Borgarello per citare soltanto i centri maggiori. Nella sua realizzazione definitiva, ebbe una funzionalità negata ai più antichi canali navigabili lombardi: disponeva di due alzaie, una per ciascuna delle due sponde, onde evitare che prima dell’avvento della trazione meccanica, gli animali usati per il traino dei natanti potessero incrociarsi. Dotata di ben 12 conche (dette anche sostegni), erano complessi di sistemi di chiusa che permettevano alle imbarcazioni il superamento di forti dislivelli o di incroci con altri corsi d’acqua, e di numerosi ponti di cui uno, come narra Cesare Cantù, “galleggiante” cioè presumibilmente sospeso su barconi, in località Badile: in prossimità di Binasco vi era un ponte di pietra di forma ottagonale che permetteva al Naviglio di essere attraversato dalle diverse strade (le alzaie e la strada postale) incrociantesi in quel punto e dalle acque della roggia Matrignana.
Quanto a lunghezza, il Naviglio Pavese è il penultimo, tra i grandi Navigli lombardi, ma fra tutti era indubbiamente il più navigato. Le sue acque erano solcate da natanti di ogni tipo e dimensione; la tipica imbarcazione da trasporto su questo corso d’acqua era leggermente diversa da quelle che, ormai da secoli, percorrevano il Naviglio Grande e la Martesana. Le dimensioni delle barche dovevano naturalmente essere proporzionali alle caratteristiche dei corsi d’acqua (larghezza dell’alveo, profondità, portata e velocità delle acque, ampiezza delle conche), che dovevano percorrere. Il modello pavese era, come le più antiche consorelle in servizio sui canali più settentrionali della regione, a fondo piatto per avere il minor pescaggio possibile a pieno carico e per poter navigare anche sul Ticino e sul Po, di forma tozza, con bassi bordi, un timone e un grosso palo per la manovra. La barca pavese, il cosiddetto “magano”, lungo 26 m e largo 5,6 , con una portata fino a 100 tonnellate, era di dimensione lievemente maggiori di quella milanese, ma era abitualmente manovrata da tre uomini invece dei quattro necessari all’altra, un secondo modello minore era il “burchiello” o “saranno”, lungo 24 metri e largo 5, con portata fino a 55 tonnellate. Le imbarcazioni per il trasporto passeggeri, denominate “corrieri” disponevano di un casotto centrale che poteva avere dimensioni diverse.
Merci trasportate
I prodotti trasportati erano di varia natura: dai materiali da costruzione, sabbia, ghiaie, laterizi, marmi e graniti, ai prodotti agricoli, dai legnami alle derrate alimentari, dal sale marino ai vini dell’Oltrepò, a quelli emiliani e veneti, dalle carni macellate agli animali vivi, dalla posta ordinaria ai pacchi postali. Ma i barconi che percorrevano il naviglio trasportarono all’occorrenza, anche armi e munizioni, foraggi per le cavallerie degli eserciti in guerra, e pure fuggiaschi e clandestini nascosti fra il collettame ospitato nei capaci scafi.
I tempi di percorrenza
Considerando che per il superamento di una conca erano necessari dai 15 ai 20 minuti in funzione dell’ampiezza della conca stessa – ci volevano dai 6 ai 7 minuti per il suo riempimento ed 8 o 9 minuti per il suo svuotamento – per superare tutte le 12 conche si perdevano dalle 3 alle 4 ore. Per percorrere con un barcone trainato da cavalli i 33 km di Naviglio da Pavia a Milano superando le 12 conche lungo il canale, s’impiegavano mediamente 6 ore; tempi che sii allungavano sicuramente se, a trainare i barconi- erano dei buoi o dei muli.
Una imbarcazione da trasporto pesante, una volta calata nel Ticino, impiegava una decina di giorni (in favore di corrente) per arrivare al Mare Adriatico. Pare che invece, per risalire il Po sino a Pavia controcorrente, ci volesse quasi un mese.
Già dal 1820 sul Naviglio Pavese cominciarono a vedersi le prime imbarcazioni a vapore. Il primo fu l’Eridano, un battello a pale di cui si servirono spesso, prima del loro arresto, i patrioti Federico Confalonieri, Silvio Pellico, Luigi Porro Lambertenghi e vari altri che erano comproprietari della società che gestiva tali viaggi. Scopo delle loro crociere, era il mantenimento dei rapporti fra i Carbonari del Piemonte con le analoghe organizzazioni insurrezionali della Lombardia e del Veneto. Fra le altre navi a vapore sul Naviglio, nel 1844 entrarono in esercizio Contessa Clementina e la Pio IX, entrambi costruite nei cantieri della Perelli e Paradisi di Milano.
Curiosità
A partire dall’inizio dell’Ottocento, con l’apertura del Naviglio Pavese, Milano poté essere approvvigionata in gran quantità del latte prodotto dalle mucche della “bassa”. In città, la sponda sinistra del Naviglio Pavese cambiò rapidamente fisionomia: i vecchi edifici che la separavano da corso San Gottardo vennero sostituiti da altri più funzionali. Erano nate le “casere”, case di ringhiera con al pianterreno ambienti (affacciantisi su lunghissimi cortili chiusi), adibiti alla lavorazione e alla stagionatura del formaggio. Man mano che procedeva la stagionatura, le forme di grana e gorgonzola prodotte con il latte della “bassa”, venivano portate sempre più verso il Corso, fino ad arrivare a completa maturazione ed venire esposte quindi nelle botteghe che avevano l’affaccio sulla strada del Corso San Gottardo. Per questa ragione, quel Corso era chiamato “el borg di formagiatt”.
La decadenza
La rete dei Navigli cominciò ad entrare in crisi, a seguito della costruzione delle prime strade ferrate nel nord Italia, indubbiamente più veloci ed efficienti dei barconi. La cosa fu particolarmente rilevante per il Naviglio Pavese, il più trafficato fra le vie d’acqua lombarde. Quando nel 1862, la ferrovia arrivò a Pavia, si rischiò davvero di dare un colpo mortale al trasporto per via d’acqua, inaugurato dopo tanti ritardi e difficoltà, solo 43 anni prima. Grazie a studi ed oculate politiche di prezzi intese a rivitalizzare il settore, la navigazione fluviale riuscì a sopravvivere, dando anche risultati più che positivi. La sua fortuna furono, verso fine XIX secolo, i decenni della prima industrializzazione lombarda, durante i quali, l’industria approfittò largamente della economicità dei trasporti sulle vie d’acqua.
Purtroppo la carenza di manutenzione degli impianti e il progressivo spostamento delle attività degli operatori su rotaia, hanno confinato l’utilizzo del canale ad un traffico esclusivamente locale. La decisione poi di chiudere la cerchia interna dei navigli negli anni 1929-1931, dettata soprattutto da motivazioni di carattere igienico-sanitarie, ha dato probabilmente il colpo di grazia definitivo all’attività del trasporto su canale e a tutto il relativo indotto (personale di manutenzione, manovratori alle conche, personale adibito al carico/scarico delle merci, stallieri, cantieri per la costruzione/riparazione dei natanti, magazzinieri ecc.).
Declassato ormai da più di sessant’anni a puro canale irriguo, rimane oggi interessante l’aspetto monumentale dell’opera idraulica, nell’ambito della riscoperta del ricchissimo patrimonio di archeologia industriale di Milano e Pavia. E non è tutto … si parla anche di una sua possibile riapertura dopo tanti anni di oblio. Certamente la riapertura sarebbe non più per motivi commerciali, ma unicamente a fini turistici per gli amanti dell’archeologia industriale, o per quanti sognano una crociera fluviale da Locarno sul Lago Maggiore in Svizzera sino a Venezia e ritorno.
Note
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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