Il Pio Albergo Trivulzio
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Chi ha vissuto in Italia negli anni Novanta, non ha certo dimenticato il grande scandalo che colpì il nostro Paese, legato al Pio Albergo Trivulzio e al suo presidente Mario Chiesa, esponente del Partito Socialista Italiano, che diedero il via alla famosa inchiesta di Tangentopoli ovvero Mani Pulite, nome giornalistico quest’ultimo, dato a una serie di inchieste giudiziarie, condotte in prima battuta a Milano, e poi nel resto d’Italia, nella prima metà degli anni novanta da parte di varie procure giudiziarie, investigazioni che rivelarono un sistema fraudolento che coinvolgeva in maniera collusa da una parte la politica e dall’altra l’imprenditoria italiana. Ma non è esattamente di questo che intendo parlare in questa sede, bensì della storia di questo Ente, delle cui origini, mi risulta si sappia francamente abbastanza poco. Ed è proprio su quest’ultimo aspetto, che cercherò di far luce.
Iniziamo dal nome del Pio Albergo: Trivulzio è l’altisonante nome di un’antica e nobile famiglia milanese originaria di Trivolzio, comune della provincia di Pavia, da cui deriva la denominazione della stirpe. Pare che il primo membro della casata si faccia risalire al X secolo, comunque i primi documenti in cui viene menzionata la famiglia, risalgono al XII secolo. Il fatto poi che il Pio Albergo rechi il nome di questa casata sta evidentemente a ricordare il nobile benefattore della famiglia che duecentocinquant’anni fa, rese possibile la realizzazione di questa struttura.
Ma veniamo più vicino a noi: siamo nel Settecento, in particolare negli anni intorno al 1760, in una Milano (città con poco più di 100.000 abitanti secondo il primo censimento fatto proprio quell’anno 1760) in piena dominazione asburgica, sotto la guida illuminata di una Maria Teresa d’Austria (1717 – 1780), al potere dal 1740. Erano tempi davvero duri quelli, per i milanesi di allora: le diseguaglianze sociali erano evidentissime: da una parte esponenti della ricca nobiltà e dell’aristocrazia che assecondando il dominatore di turno, godevano di ricchezze e privilegi facendo la bella vita, dall’altra, una popolo di lavoratori al limite della povertà perché oberato dalle tasse imposte per “finanziare” le continue guerricciole dell’occupante, e tantissimi anziani, ormai a riposo, che versavano in uno stato d’indigenza più o meno assoluta.
Rimasto fin da bambino, profondamente colpito dalle condizioni di estrema povertà in cui versava la cittadinanza, un giovane, aristocratico milanese, nobile di cuore, tale Antonio Tolomeo Trivulzio (1692-1767), ultimo discendente di una antica famiglia lombarda di condottieri, che si erano arricchiti già ai tempi della precedente dominazione spagnola, cominciò autonomamente a fare delle piccole opere di carità e di beneficenza che, diversi anni dopo, sarebbero confluite nella realizzazione di un progetto di molto più ampio respiro.
Chi era in realtà questo giovane benefattore
Nato a Milano il 22 maggio 1692, Antonio Tolomeo era il secondogenito di Lucrezia Borromeo (1670-1715) e di Antonio Teodoro Gaetano Gallio Trivulzio (1658-1705). Quest’ultimo, (Gaetano Gallio) figlio di Tolomeo II Gallio duca d’Alvito e di Ottavia Trivulzio, aveva acquisito il cognome della madre grazie al testamento del suo primo cugino, il principe Antonio Teodoro Trivulzio (nato nel 1649). Questi, morto il 26 luglio 1678, a soli 29 anni, senza eredi diretti, volle ricompensare gli zii che lo avevano allevato lasciando a Gaetano e alla sua discendenza, l’eredità del titolo di principe del Sacro Romano Impero, di principe di Mesocco e della Valle Mesolcina (valle della Svizzera italiana fra il Grigioni e il Canton Ticino), di feudatario imperiale di Retegno e Bettole, oltre a tutti i possedimenti dei Trivulzio (patrimonio comprendente cascine e fondi altamente redditizi nella bassa padana oltre naturalmente ai palazzi di città).. Tutto questo, a patto che il cugino acquisisse il cognome Triulzio e proseguisse la casata, condizione questa, che imponeva che l’erede divenisse figlio adottivo del testatore. Fu così che Gaetano Gallio assunse, oltre all’arme dei Trivulzio, anche i due nomi del cugino, in modo da cementare ancor di più i suoi diritti di successione.
CURIOSITA’
Uno degli avi di Antonio Tolomeo era stato, un secolo e mezzo prima, il celebre cardinale comasco Tolomeo Gallio (1527 – 1607) che ricoprì la carica di segretario di Stato di papa Gregorio XIII. Nominato cardinale da papa Pio IV, fu uno dei due principali consacranti del cardinale Carlo Borromeo. La famiglia, di Antonio originaria del comasco, era inoltre direttamente imparentata con i duchi di Alvito, (il ducato di Alvito – feudo del regno di Napoli – era stato acquistato proprio da Tolomeo Gallio) da cui il ramo di Antonio Tolomeo si era poi trasferito a Milano.
Fu il cardinale Tolomeo Gallio, da poco diventato segretario di Stato Vaticano, a commissionare, nel 1575, all’architetto Pellegrino Pellegrini detto “il Tibaldi”, la costruzione a Cernobbio, suo paese natale, di una residenza estiva ad uso personale, sul terreno di un vecchio convento femminile presso il torrente Garrovo. Era una villa patrizia rinascimentale situata sulle rive del Lago di Como. Mentre il cardinale era in vita, la villa del Garrovo, con i suoi lussuosi giardini (parco di circa 10 ettari con piante centenarie), divenne il luogo di vacanze di politici, intellettuali ed ecclesiastici. E’ la stessa villa che poi, opportunamente ristrutturata (nel 1873) diventerà la Villa d’Este, oggi albergo di lusso, sede di congressi internazionali di altissimo livello.
Tornando ad Antonio Tolomeo, grazie all’appartenenza a due delle più insigni famiglie del patriziato milanese, Trivulzio poté precocemente godere di molti vantaggi ed acquisire cariche e significative opportunità di carriera. Basti pensare che già nel 1702 (lui aveva allora solo otto anni), il padre, previo esborso di 6000 ducati alla Camera Regia, aveva assicurato al figlio la nomina a colonnello con la quale gli garantiva il diritto a succedergli nel ruolo di comando del reggimento Trivulzio.
Si conosce ben poco della sua formazione eccetto che dal 1707 frequentò per alcuni anni il collegio gesuitico Tolomei di Pisa. Nel 1710, diciottenne, andò dallo zio Carlo Borromeo Arese, viceré di Napoli, prima tappa di una serie di viaggi di istruzione (anche all’estero) con cui, a quel tempo, si concludeva normalmente la formazione di un giovane aristocratico. Andò anche a Vienna, ad esempio, ove rimase abbagliato dalla vita di Corte.
Nel 1718, si sposò a Milano con la ventiduenne Maria Archinto (1696-1762), già vedova del marchese Carlo Giorgio Clerici, figlia del conte Carlo e di Giulia Barbiano di Belgioioso. Dopo il matrimonio. decise d’intraprendere la carriera militare: nel 1720 prese possesso del grado di colonnello. Nel 1723, a conferma delle sue strette relazioni con la corte imperiale austriaca, fu nominato ciambellano da Carlo VI. Quello stesso anno, Maria Archinto lo rese padre di Lucrezia (che morì precocemente, all’età di solo cinque anni) . Nel 1732 ottenne l’incarico di governatore del castello e della prefettura di Lodi. Nel 1733 fu nominato generale maggiore e, nel 1741, gli fu dato il grado di tenente maresciallo. Ma già nel 1739, con la morte della seconda figlia Maria Teresa (deceduta subito dopo la nascita) il matrimonio, già minato da incomprensioni e da una condotta alquanto libera di entrambi, naufragò e i coniugi iniziarono a vivere separati. Nello stesso anno, Trivulzio ebbe modo di incontrare a Milano, Maria Teresa d’Asburgo, venuta in Italia con il marito Francesco Stefano di Lorena granduca di Toscana.
Piacente e dai gusti molto raffinati, uomo dotato di fascino, che seppe esercitare cercando l’amicizia e la frequentazione del mondo femminile, era un soggetto incline ai piaceri della vita, amante del lusso, dei cibi raffinati ed era conosciuto negli ambienti aristocratici europei, come un bon vivant. Vivendo al di sopra delle sue possibilità, si era persino indebitato al punto che, per pagare i debiti, fu costretto a richiedere una deroga al fedecommesso.
Ndr. – Fedecommesso è la disposizione testamentaria per la quale chi è istituito erede, ha l’obbligo di conservare l’eredità e di trasmetterla, a un momento stabilito, in tutto o in parte, ad altra persona
Negli anni Cinquanta, fu a lungo impegnato nel tentativo di risolvere i problemi legati ai debiti e alla definizione dell’eredità: in entrambe le circostanze si dovevano chiudere le cause legali aperte già dal 1714 con i parenti Gallio d’Alvito a proposito del fedecommesso disposto da suo padre che li coinvolgeva in merito a diverse proprietà dei Trivulzio.
Dopo la morte della moglie nel 1762, non avendo eredi diretti, cominciò a riflettere ad un progetto suggeritogli dal padre nel proprio testamento: Antonio Gaetano Gallio Trivulzio aveva espresso il desiderio che, qualora si fossero estinte le linee di successione indicate nel fedecommesso, i beni venissero convogliati all’istituzione di un’opera pia. Grazie all’amicizia personale che lo legava a Pietro Metastasio (1698 – 1782) e successivamente, a Pietro Verri (1728 – 1797) e Cesare Beccaria (1738 – 1794), aveva cominciato a frequentare i circoli illuministi condividendo, con entusiasmo, lo spirito umanitario delle nuove idee. La sua attività filantropica a favore degli indigenti, di vecchia data, perché iniziata ancor prima del suo matrimonio, subì un’accelerazione significativa, proprio in questo periodo. Si dedicò a portare avanti l’idea d’istituire un ospizio per la cura degli anziani più bisognosi. L’idea, indubbiamente condivisibile, non era nuova ma, essendo questa un’attività, fino ad allora, gestita unicamente dagli enti religiosi, una volta realizzata, sarebbe stata in assoluto, la prima istituzione laica di beneficenza ed assistenza agli indigenti a Milano .Grazie alla sua posizione e alle influenti amicizie che aveva, per portare a compimento questa sua idea, per prima cosa, riuscì a risolvere le annose diatribe insorte con i Gallio per l’eredità dei Trivulzio (che evidentemente faceva gola a tutti). Essendo anche molto legato alla corte viennese (i suoi viaggi a Vienna erano frequentissimi), riuscì poi, negli anni Sessanta del Settecento, con paziente lavorio diplomatico, a far rientrare il suo progetto, nell’ambito delle riforme in campo assistenziale, che Maria Teresa d’Austria stava varando proprio in quel periodo.
Quali fossero i suoi reali rapporti con l’imperatrice (venticinque anni più giovane di lui) è intuibile da documenti presentati al pubblico nel 2017, in una mostra organizzata dall’ASP IMMeS (Azienda di Servizi alla Persona – Istituti Milanesi Martinitt e Stelline) e Pio Albergo Trivulzio, in collaborazione con l’Archivio di Stato di Milano e con il sostegno della Fondazione Trivulzio, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e del Consolato Generale d’Austria, in occasione del 250° della morte del principe Antonio Tolomeo Gallio Trivulzio e nel 300° della nascita di Maria Teresa. Tale mostra e il relativo convegno Il principe e la sovrana. I luoghi, gli affetti, la corte, furono organizzati negli spazi dell’Archivio di Stato di Milano, per condividere con la Città il racconto del legame politico e forse anche affettivo tra il nobile e la sovrana, che, insieme, hanno reso possibile, grazie a questa “simpatia”, la nascita dell’istituto secolare per gli anziani poveri, arrivato fino ai giorni nostri.
Le disposizioni testamentarie del nobile filantropo
Decise pertanto di fare testamento perché alla sua morte, il suo patrimonio fosse interamente devoluto in beneficenza. Infatti, fu proprio con le disposizioni redatte in presenza di un notaio quel 26 agosto 1766 (poco più di un anno prima della sua morte), che Antonio Tolomeo Gallio Trivulzio (1692-1767) firmò l’atto formale di fondazione di un Albergo dei Poveri, nominando il nuovo Ente, erede universale delle sue sostanze. Finanziariamente, due milioni di lire milanesi e tutto l’immenso patrimonio immobiliare dei Trivulzio, erano una garanzia più che sufficiente, per far partire il nuovo sodalizio, che si sarebbe concretizzato. alla sua morte.
Tali disposizioni testamentarie, (intenzioni che il principe, a voce, aveva già precedentemente condiviso con la sovrana) sottoposte, come prassi, alla preventiva approvazione dell’imperatrice, ricevettero ovviamente, a breve giro di posta, il beneplacito di Maria Teresa. Era fatta! Il Pio Albergo, che si sarebbe poi chiamato Trivulzio in onore del suo benefattore, sarebbe di lì a poco (alla sua morte), diventato effettivamente realtà. Dopo aver amato gli onori, il lusso e sperperato il patrimonio, Antonio Tolomeo Trivulzio aveva voluto indirizzare le sue ultime volontà ad alleviare la condizione dei poveri.
La morte del principe (1767)
Il principe Antonio Tolomeo, che già da tempo non stava bene di salute, morì (pare di gotta) il 30 dicembre 1767, all’età di 75 anni.
Volle essere sepolto privo degli orpelli della condizione nobiliare, vestito con il saio dei padri cappuccini, trasferito senza cortei, ma in una chiesa con un addobbo funerario di grande effetto. Le sue esequie, alla stregua di quanto accadeva per il lutto dei sovrani, si svolsero contemporaneamente con grande sfarzo anche nella basilica di S. Stefano Maggiore, nella cui giurisdizione sarebbe stato aperto il Pio Albergo. [rif. Treccani]
A garanzia della buona riuscita delle sue ultime volontà, data l’entità del suo immenso patrimonio, furono nominati come suoi esecutori testamentari, l’arcivescovo di Milano Giuseppe Pozzobonelli, il vicario di San Sepolcro Bollani, il presidente del Senato Corrado de Oliveira e il regio economo Michele Daverio. Costoro si assunsero l’incarico di dare seguito alle minuziose disposizioni lasciate dal principe. Il testamento prevedeva che il sontuoso palazzo in Contrada della Signora in cui il principe stesso aveva abitato, fosse adattato a ricovero per ospitare quanto prima, un “Albergo de’ Poveri”, deputato ad accogliere “gli impotenti per età, per difetto corporale ed infermità”.
Disposizioni sulla gestione e dell’Ente
Si davano pure precise disposizioni circa l’organizzazione e l’amministrazione del nuovo ente che avrebbe dovuto essere retto da “11 deputati e da un priore, la cui nomina spettava al Presidente del Senato, al Vicario di provvisione e all’Arcivescovo”.
Lui stesso, nel suo testamento, fece il nome del progettista ed esecutore dei lavori di riadattamento del suo palazzo, nella persona dell’architetto Padre barnabita Ermenegildo Pini.
Il progetto di demolizione e ricostruzione totale degli interni da questi prospettato, venne però scartato dagli esecutori testamentari, a causa dell’eccessiva spesa che quest’operazione avrebbe comportato. Ci si limitò pertanto ad eseguire unicamente dei lavori di ristrutturazione di tipo funzionale, assolutamente innovativi per l’epoca, come l’introduzione dell’acqua corrente ai piani, la creazione di latrine e di una migliore aereazione delle stanze destinate ai ricoverati.
Ndr. – Relativamente all’acqua corrente, questo fu uno dei primi palazzi della città ad essere dotato di acqua ai piani. La principale difficoltà era quella del sollevamento dell’acqua con pompe idrauliche, visto che, a differenza di altre località, la citta è orograficamente in pianura.
Per le relative problematiche connesse all’impianto idraulico, si suggerisce la lettura dell’articolo sulle difficoltà di costruzione (ben 13 anni) della fontana di piazza Fontana progettata dall’imperial regio architetto Giuseppe Piermarini, proprio in quel periodo.
Fu così che nacque la sede storica del Pio Albergo Trivulzio, in Contrada della Signora, subito dietro la Basilica di Santo Stefano. Questa struttura, che, secondo le sue stesse istruzioni, avrebbe dovuto occuparsi dei poveri, dei derelitti e dei “veggion” (i vecchioni, in dialetto milanese) figurava essere, alla data della sua inaugurazione ufficiale, nel marzo del 1771, la prima istituzione caritatevole moderna, non religiosa, realizzata nella città di Milano. Vi furono ricoverati i primi cento assistiti cui era assicurato un letto, l’assistenza ed un pasto caldo. Qualche anno dopo, erano già quattrocento, fra cui il notissimo Barbapedana Enrico Molaschi. Le condizioni di vita nel ricovero erano buone: gli ospiti godevano di cure e cibo adeguati. Il personale sanitario comprendeva infermieri, medici, un chirurgo ed un farmacista.
Fin dall’anno della sua fondazione, lo storico Pio Albergo Trivulzio godette pure di una cospicua donazione elargita della stessa imperatrice Maria Teresa, consistente in un’entrata annua di 5000 lire austriache sul ricavato delle elemosine della soppressa Certosa di Pavia. Ad un solo anno dall’apertura del Pio Albergo, nel 1772, fu aggregata la soppressa Opera Pia Sartoria, con i suoi assistiti e con tutti i suoi beni.
Disposizioni sulla gestione dei suoi assistiti
Le disposizioni testamentarie del principe in merito alla gestione dell’Ente e dei suoi assistiti, erano osservate nei minimi dettagli. Se ne facevano garanti gli stessi esecutori testamentari, che prima di ogni ricovero, vagliavano attentamente le posizioni di quanti avevano fatto richiesta di assistenza. Dovevano essere mendicanti, poveri ammalati o comunque anziani nullatenenti (non forestieri). Quanti avevano effettivamente il diritto all’assistenza, dovevano sottostare a regolamenti precisi e rispettare gli orari stabiliti. C’era pure la possibilità di fare dei piccoli lavori, attività che venivano affidate a quanti erano ancora in grado di rendersi utili, occasione questa che consentiva loro non solo di rendere meno noiosa la giornata, ma di sentire molto meno il peso della solitudine. Ai ricoverati, in grado di muoversi autonomamente, era consentito, rispettando gli orari prestabiliti, uscire dall’ospizio tutti i giovedì e pure un altro giorno della settimana, a piacere, oltre ai giorni festivi. Quanto all’igiene personale, chi era in grado di lavarsi, provvedeva da sé, gli altri venivano assistiti dagli inservienti dell’ospizio.
Il “giuseppinismo” di Giuseppe II
Alla morte di Maria Teresa d’Austria nel 1780, l’ascesa al potere del figlio Giuseppe II d’Asburgo-Lorena (1741 – 1790), cambiò radicalmente la situazione assistenziale a Milano.
Uno degli aspetti sicuramente più rilevanti della politica del nuovo regnante fu il cosiddetto “giuseppinismo” che cambiò radicalmente la concezione della religione, non solo nei domini asburgici, ma in tutta Europa. Durante i dieci anni del suo regno, venne soppresso un terzo dei conventi, confiscate le proprietà ecclesiastiche e drasticamente ridotti di numero, gli ordini contemplativi e religiosi. I conventi chiusi furono almeno 700 e i religiosi passarono da 65 000 a 27 000. Poiché l’assistenza ai poveri era normalmente appannaggio degli istituti ecclesiastici, con la soppressione dei monasteri e dei conventi, ci fu la necessità di trasferire i loro assistiti nelle strutture rimaste operative.
Con l’occasione, Giuseppe II d’Asburgo-Lorena tentò di mettere un po’ di ordine fra i numerosissimi piccoli sodalizi assistenziali presenti in città (pare ne fossero stati censiti addirittura 200 fra fondazioni, associazioni, confraternite e cause pie disseminate nelle numerose parrocchie urbane), tutti organismi indipendenti, dotati di proprie regole e statuti, governati da un proprio “capitolo”, ossia da un collegio di amministratori chiamati “deputati”, scelti fra gli ecclesiastici e il patriziato laico cittadino, che assumevano l’incarico, a titolo gratuito. Giuseppe II impose, nell’arco di un decennio, una serie di significative riforme assistenziali che portarono alla formazione di quattro diverse categorie di luoghi di assistenza:
- Ospedali
- Orfanotrofi ed Istituti per l’educazione
- Luoghi Pii elemosinieri (essenzialmente gestiti dalle confraternite)
- Alberghi per i vecchi e gli incurabili
Nel 1784 poi, per avere maggior controllo sull’operato degli istituti benefici e soprattutto sui loro ricchi introiti dovuti essenzialmente a lasciti testamentari e a beneficenze, l’imperatore decise di sciogliere tutti i “capitoli” dei “deputati”, annullando quindi tutte le regole e gli statuti, e ponendo alla direzione degli Istituti rimasti attivi, una Giunta per le Pie Fondazioni, retta da amministratori di nomina regia.
Quando i monasteri e conventi che offrivano assistenza agli indigenti vennero soppressi, i loro assistiti furono, trasferiti negli enti maggiori rimasti operativi. La natura non religiosa del Pio Albergo Trivulzio, fece sì che con le soppressioni dei beni ecclesiastici volute dall’imperatore, venisse nel 1786, aggregato all’Istituto, l’“Ospedale dei Vecchi”, conosciuto anche con il nome di “Ospedale dei vecchi di Porta Vercellina”,risalente al 1343 e ultimamente ospitato al monastero degli Umiliati di Porta Vercellina[ e poi ancora, nel 1787, il “Luogo Pio Francesco Pertusati” di Pavia.
L’aumento del numero dei ricoverati, conseguente all’accorpamento di assistiti provenienti da ospizi minori (secondo i dettami di questa riforma assistenziale) comportò la necessità di una riorganizzazione degli spazi; acquistati degli edifici contigui al Palazzo principesco di Contrada della Signora, il piano di ampliamento e ristrutturazione generale venne affidato all’architetto regio Giuseppe Piermarini.
Alla fine del Settecento nel Pio Albergo, erano ospitati oltre novecento assistiti: gli spazi, all’interno erano così distribuiti: i vari locali di servizio (portineria, segreteria, uffici, cucina, refettorio, magazzini, lavanderia) erano collocati al piano terreno dell’edificio principale mentre i dormitori, i locali per il lavoro e le infermerie si trovavano ubicate sia al primo che al secondo piano. Questa nuova riorganizzazione durò più o meno invariata per poco più di un secolo.
Negli anni trenta e settanta dell’Ottocento, l’edificio principale subì dei nuovi rimaneggiamenti ed ampliamenti e negli ultimi anni del secolo, il complesso venne addirittura dotato anche di un impianto di riscaldamento (prima naturalmente inesistente).
Con l’Unità d’Italia, il Pio Albergo venne unito all’orfanotrofio dei Martinitt e a quello delle Stelline. Raccoglieva sempre meno invalidi e sempre più anziani. A fine secolo c’erano oltre 1200 ricoverati.
La nuova sede (1910)
Nonostante i lavori di ristrutturazione eseguiti, il Palazzo principesco e gli edifici contigui in Contrada della Signora rivelarono, fin dall’inizio del Novecento, tutta la loro inadeguatezza in termini di spazio, igiene e comfort e l’impossibilità di rispondere alle più recenti esigenze di un mutato indirizzo medico-assistenziale. Il sovraffollamento della struttura era conseguenza del forte aumento demografico dovuto alla notevole richiesta di manodopera (quindi immigrazione), in seguito al boom dell’industrializzazione in città.
La scelta della nuova sede
Per questo motivo, i dirigenti dell’Istituto, presero la decisione di costruire una nuova sede più grande e funzionale. Per ragioni economiche da un lato, e di salubrità dell’aria dall’altro, la scelta della zona, ricadde al di fuori delle mura spagnole, a sud-ovest della città, nell’area dell’antico Borgo della Maddalena, nell’ex-comune di Corpi Santi, lungo la strada per Baggio. Il terreno venne acquistato nel 1903: l’area era una vasta proprietà agricola di oltre sessantamila metri quadrati appartenente agli eredi Lavelli, attigua alla cascina Chiusa e sistemata nelle vicinanze della grande fabbrica tessile de Angeli-Frua (ora non più esistente). La zona, fra l’altro, era anche servita sia da una linea tranviaria urbana della Edison, il cui capolinea era attestato nelle adiacenze, che da una linea extra-urbana servita dal Gamba de Legn della M.M.C. (Milano-Magenta-Castano) che, partendo dal capolinea di Porta Magenta (attuale piazzale Baracca) prevedeva una fermata nell’attuale piazza De Angelis, non lontano dall’ingresso della nuova struttura.
La progettazione innovativa
Al progetto iniziale dell’ing. Luigi Moretti, che prevedeva per il nosocomio, una serie di edifici confinati entro cortili chiusi secondo uno schema ormai consolidato da secoli, fu preferito quello presentato dagli ingegneri Carlo Formenti (1847-1918) e Luigi Mazzocchi (1844-1925) che aveva un’impostazione totalmente diversa, rifacendosi ad una struttura di nuova concezione (a doppio pettine). Si trattava essenzialmente di due lunghi corridoi (uno per il settore maschile, l’altro per il femminile) che, da un lato si affacciavano ad un giardino cortile comune e dall’altro davano accesso ai vari padiglioni. Questo tipo di struttura consentiva un facile costante ricambio dell’aria in tutti i locali (refettori e dormitori compresi) limitando al minimo, fra l’altro, dalle postazioni del personale sanitario di turno, i tempi di percorrenza necessari per andare da un padiglione all’altro. Il Pio Albergo rappresentò quindi un esempio, di questa nuova concezione.
Per rispondere quindi alle esigenze di ricovero e di assistenza degli anziani della città, i lavori del complesso iniziarono nel 1907. Il nuovo Pio Albergo Trivulzio, dalla facciata costruita volutamente in stile neo-settecentesco in omaggio al suo fondatore, venne inaugurato a tempo di record, in pompa magna già il 22 Maggio 1910. Il trasloco dalla vecchia struttura ala nuova fu un autentico evento, con cortei in macchine messe a disposizione dei pazienti da parte di tanti nobili benefattori. Pure la Edison, a quanto pare, partecipò all’evento organizzando un lungo corteo di tram per il trasferimento delle donne ricoverate.
I milanesi la chiamarono subito affettuosamente “Baggina”, perché l’edificio principale (quello dell’amministrazione) si affacciava proprio sulla via per Baggio (attualmente via Trivulzio n. 15). Ho espresso il termine “affettuosamente” perché pure questa, (al pari di quella dei Martinitt e delle Stelline) è una istituzione storica che rappresenta l’attenzione e la cura che i milanesi hanno sempre rivolto ai più deboli, giovani o vecchi che siano.
Ndr. – Baggio allora, era un Comune ancora indipendente della cintura milanese. Fu col Regio Decreto n. 1912, che ,il 2 settembre 1923, venne poi annesso al Comune di Milano, unitamente ad altri 10 comuni dell’hinterland, diventando così, da quel momento, un quartiere periferico della città.
Il complesso ospedaliero realizzato con le più moderne tecniche disponibili, rappresentava un modello di struttura all’avanguardia per l’epoca, meta di visite guidate per far vedere il livello tecnologico raggiunto in una struttura sanitaria, quale esempio dei progressi compiuti dalla medicina e dalla ricerca scientifica. Pure la dotazione di impianti tecnici era di tutto rispetto, considerando i tempi: dal sistema di riscaldamento e ventilazione, a quello d’illuminazione, dagli elevatori meccanici Stigler, alle pompe per l’approvvigionamento dell’acqua e al sistema di smaltimento dei rifiuti. Senza voler contare poi gli impianti igienici, le condutture idrauliche, nei bagni, gli scarichi, le attrezzature per le cucine, quelle per la pulizia , gli avvisatori acustici ecc , un concentrato di tecnologia, motivi sufficienti per considerare il Trivulzio un esempio, davvero unico, un modello da imitare.
Tutte cose queste, che oggi ci paiono ovvie ma che, a pensarci bene, sono una diretta conseguenza della scoperta dell’energia elettrica (1883). meno di 140 anni fa!.
Vennero a visitare la Baggina le Istituzioni, la stampa, studiosi, studenti del Politecnico e notabili con percorsi di visita guidati direttamente dall’architetto progettista Carlo Formenti. Persino Re Vittorio Emanuele III che, per precedenti impegni non era potuto presenziare all’inaugurazione ufficiale mandando in sua rappresentanza Tommaso di Savoia, Duca di Genova, non volle perdersi la visita a questa struttura modello, venendo di persona, due anni dopo (nel settembre 1912).
Considerato il fiore all’occhiello dell’assistenza pubblica, con i suoi sessantamila metri quadrati di superficie, era pure il più grande ospizio d’Italia.
La prima Guerra mondiale
Allo scoppio della prima Guerra mondiale, la Baggina venne requisita dalle autorità militari e trasformata in ospedale chirurgico. Gli ospiti della struttura furono temporaneamente trasferiti nella Casa San Girolamo Emiliani. Bisognerà attendere ancora alcuni anni dopo la fine delle ostilità prima di poter fare ritornare gli anziani al Pio Albergo Trivulzio. Infatti, appena finita la guerra nel 1918, scoppiò la terribile pandemia di Spagnola dovuta al generale peggioramento delle condizioni igieniche dei soldati che avevano combattuto sui vari fronti. La pandemia dilagò naturalmente anche fra la popolazione civile seminando lutti ovunque.
L’influenza spagnola, nota anche come la Spagnola o la Grande influenza, fu una pandemia influenzale che fra il 1918 e il 1920 uccise decine di milioni di persone nel mondo e che spazzò il pianeta come una piaga biblica.
Fu chiamata così non perché veniva dalla Spagna, ma perché i primi a parlarne furono i giornali spagnoli. Infatti, la stampa degli altri Paesi, che era sottoposta alla censura di guerra, negò a lungo che fosse in corso una pandemia, sostenendo che il problema fosse confinato solamente alla Spagna. In alcuni casi la censura fu talmente opprimente che si arrivò addirittura a proibire il suono delle campane a morto, per evitare che i loro continui lugubri rintocchi indicassero l’entità di quel morbo che tanto si voleva nascondere.
[rif. – https://percorsidartefuneraria.com/]
A differenza del Covid attuale, il tasso di mortalità, in quel frangente, fu insolitamente alto tra le persone sane di età compresa tra 15 e 34 anni.
La Seconda Guerra mondiale
Nell’agosto del 1943 avvenne un fatto davvero miracoloso. Durante una delle tante incursioni aeree sulla città, una bomba incendiaria cadde sul Pio Albergo Trivulzio causando effettivamente un incendio ma senza provocare né morti né feriti fra i ricoverati che erano stati ammassati nei rifugi dell’Ospedale. La madre superiora, in segno di ringraziamento, decise di fare costruire all’interno della struttura una grotta intitolata alla Madonna di Lourdes in cui è conservata ancora oggi, la testa della bomba.
Peggior sorte invece, capitò al vecchio Palazzo Trivulzio di Contrada della Signora che, bombardato, venne praticamente distrutto dagli spezzoni incendiari. Verrà poi definitivamente demolito nel 1947.
Il dopoguerra
La vita riprese al Pio Albergo Trivulzio nei difficili anni dell’immediato dopoguerra, come ricovero per anziani ed indigenti, senza tuttavia dimostrare una vera vocazione specialistica in ambito geriatrico. Lo sviluppo in questo campo avvenne solo nei primi anni Sessanta, quando, grazie alle donazioni di diversi benefattori (la Cariplo in testa) furono realizzati nuovi padiglioni specialistici, primo fra tutti quello dei “cronici” nel 1961, seguito poi negli anni Settanta, da altri tre reparti. A partire dal 1968, furono anche ristrutturati i padiglioni d’inizio secolo con l’eliminazione delle ormai anacronistiche camerate, a vantaggio di camere separate e poliambulatori. In quegli anni comunque il Trivulzio poteva contare su 1650 posti letto.
La nuova sede, grazie a migliorie ed ampliamenti apportati negli anni, ancora oggi è utilizzata e costituisce il principale polo geriatrico nazionale, con la sua graduale trasformazione da cronicario a centro di assistenza, cura e riabilitazione dell’anziano.
Unito con Martinitt e Stelline subito dopo l’Unità d’Italia, le recenti riforme hanno portato nel 2003 alla fusione degli enti (Martinitt, Stelline e Pio Albergo Trivulzio) e alla trasformazione in un unica grande Azienda di Servizi alla Persona (ASP) Istituti Milanesi Martinitt e Stelline e Pio Albergo Trivulzio, specializzata in ambito socio-sanitario, nella cura degli anziani e in abito socio-educativo, .nella tutela dei giovani con difficoltà sociali.
Il Pio Albergo Trivulzio insieme agli Orfanotrofi dei Martinitt e delle Stelline, è testimone di quella gloriosa assistenza in favore dei più deboli, che Milano ha saputo sempre portare avanti, con spirito di accoglienza e unità. Ancor di più oggi è simbolo dell’attenzione verso le persone più fragili, perché il passato continui a parlare al presente, coniugando tradizione e innovazione.
Con i suoi servizi, multidisciplinari e all’avanguardia, per le persone anziane non autosufficienti, il Trivulzio rappresenta il più importante polo geriatrico in Italia e uno dei più grandi in Europa.
Le comunità alloggio per i minori sono un punto di riferimento fondamentale sul territorio di Milano, un luogo sicuro per l’accoglienza e la crescita dei bambini rimasti senza la protezione dei genitori.
Ai servizi per l’infanzia e per gli anziani il Trivulzio affianca l’attività di gestione di un importante patrimonio immobiliare: le case donate al Trivulzio nel corso degli anni tornano a disposizione di chi vive a Milano attraverso bandi di affitto aperti a tutti i cittadini in piena trasparenza.
Le visite
Nonostante la struttura sia naturalmente interdetta ai visitatori, essendo operativa, è tuttavia possibile entrarvi per visitare il monumentale cortile d’onore (con i busti di alcuni benefattori), la piazzetta con porticato su cui si affaccia la Chiesa dedicata all’Immacolata Concezione, che conserva all’interno il monumento funebre del principe Trivulzio e un altare del ‘700 proveniente dall’antico Orfanotrofio delle Stelline. La Chiesa è stata affrescata dal pittore Albertella.
E’ pure visibile la collezione di quadri dei vari benefattori dell’Ente, fra cui naturalmente spiccano quello che ritrae il principe Antonio Tolomeo Trivulzio e quello dell’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, che, con la sua approvazione rese possibile nel ‘700 la scelta di creare il ricovero per gli anziani. Interessanti anche alcune lapidi e busti interni all’Istituto (sicuramente da ricordare quello di Maria Gaetana Agnesi, matematica e benefattrice, che fu direttrice del Trivulzio nel 1783).
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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