La Ca’ Granda
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Parlare di Ca’ Granda, il più antico Ospedale di Milano, è per molti milanesi, importante quasi quanto parlare del Duomo, o del Castello Sforzesco.
Cenni storici
Siamo nei torbidi anni della cosiddetta Repubblica Ambrosiana, proclamata poco dopo la morte nel 1447, di Filippo Maria Visconti, l’ultimo dei duchi della dinastia. Fra i pretendenti al Ducato, vantava diritti alla successione, un capitano di ventura, Francesco Attendolo detto Sforza (1401 – 1466), che aveva sposato Bianca Maria Visconti, l’unica figliastra (legittimata) del Duca defunto.
I milanesi, stufi dell’ambigua politica dei loro attuali governanti, stremati da cinque mesi di assedio da parte di Francesco Sforza, allora comandante di compagnia di ventura al soldo dei Veneziani, gli aprirono le porte perchè entrasse in città senza colpo ferire. Era il 25 marzo 1450, giorno dell’Annunciazione: lui, molto religioso, grato per l’insperato epilogo della presa della città, fece voto di dedicare un’istituzione benefica all’Annunciata.
Eletto Duca col consenso del popolo, una delle sue prime preoccupazioni, fu quella di accattivarsi la simpatia ed i favori dei sudditi, che, nella conquista della città, aveva tenuto sotto assedio per tanti mesi. Preso pertanto atto della precaria situazione sanitaria di Milano, in totale accordo con la moglie, promise ai milanesi che avrebbe dotato la città di un’unica e monumentale struttura per la cura dei malati. La loro fu un’idea davvero rivoluzionaria per l’epoca. Concentrando l’attività in una singola grande struttura “Magna Domus Hospitalis”, si sarebbe fornita assistenza medica gratuita a tutti, migliorando l’efficienza del servizio sanitario cittadino. Fu così che, in virtù del voto, fatto nel giorno della sua conquista della città, la nuova fondazione divenne lo “Spedal de la Nunziata“.
Fino ad allora infatti, gli ospedali esistenti erano delle piccole strutture, generalmente gestite da religiosi e attrezzate alla meno peggio. Più che altro, erano una sorta di infermerie dislocate in giro per la città, con un numero limitatissimo di posti letto ed un’assistenza precaria. La cura delle malattie era molto approssimativa, sia per le scarse conoscenze in campo medico, che per l’assistenza assolutamente carente, per cui la speranza di riuscire a superare una malattia, era più che altro una scommessa con la buona sorte.
Non esistendo regole per la cura delle malattie, né quelli che oggi chiamiamo “protocolli” (ndr. – vedi note in fondo a questo articolo), queste strutture finivano per essere, spessissimo, più ospizi che infermerie, dando ricovero a poveri, indigenti, bimbi abbandonati e vecchi senza dimora. La novità dell’idea dello ‘Spedale’ non significava solo centralizzazione delle scarsissime competenze in campo medico, ma pure una razionalizzazione nella gestione delle cure. Quindi, mentre lì, ci si sarebbe occupati esclusivamente dell’assistenza sanitaria a chi ne aveva effettivamente bisogno, alle sedici infermerie già esistenti in città, sarebbe stato lasciato il ruolo, peraltro già praticato, di una più assidua assistenza sociale.
Fu lo stesso Duca che, ligio al voto fatto, divenne il primo benefattore del nuovo ‘Spedale’, donando, in zona Porta Romana, tutto l’ampio terreno sul retro della basilica di San Nazaro in Brolo, compreso fra le attuali vie Francesco Sforza, Laghetto e Festa del Perdono, e finanziando pure l’avvio dei lavori per il nuovo nosocomio.
Lo “Spedal Grande de la Nunziata”
Posa della prima pietra
L’atto di fondazione dell’Ospedale Maggiore porta la data 1 aprile 1456. La prima pietra dello “Spedal Grande de la Nunziata”, venne posta il 12 Aprile di quell’anno. Fu successivamente familiarmente ribattezzato dalla gente Ca’ Granda (Casa Grande) per le sue grandiose dimensioni. Per progettare e costruire l’edificio, Francesco Sforza si affidò ad un architetto rinascimentale, già noto in città. Si trattava del fiorentino Antonio di Pietro Averulino, detto il Filarete (1400 – 1469), che gli era stato caldamente raccomandato da Cosimo dei Medici (il padre di Lorenzo il Magnifico).
A Milano, il Filarete aveva già avuto modo di dimostrare il suo talento al Duca, costruendo al Castello di Porta Giovia, la famosa Torre, che prese, appunto, il suo nome. Incredibilmente per noi oggi, il progetto dello ‘Spedale’ del Filarete prevedeva un totale di 288 posti letto, una enormità per l’epoca (XV secolo). Questa della Ca’ Granda, fu sicuramente la sua realizzazione più importante, anche se, purtroppo, solo parziale.
Secondo la riforma degli ospedali del Rinascimento, promossa
dall’arcivescovo milanese Enrico Rampini (1390 – 1450), solo le persone affette da malattie acute potevano essere ammesse alla struttura, mentre chi soffriva di malattie croniche e “incurabili” (es. la sifilide) doveva essere trattato in ospedali appositamente dedicati, posti, solitamente, al di fuori delle mura cittadine.
Il complesso, visto nel suo insieme, essendo molto vasto. prevede tre macro-aree. Un vasto cortile centrale separa due blocchi laterali.
Nell’idea originale, il progetto prevedeva un cortile centrale con in mezzo una chiesa. A destra e a sinistra del cortile centrale, erano previste due strutture simmetriche di edifici disposti a crociera. Ogni braccio della croce era riservato a un tipo diverso di malattia, una sorta di reparto specialistico. Nel punto d’incontro dei bracci della croce, sorgeva una cappella in modo che i pazienti dei diversi reparti potessero partecipare alla celebrazione quotidiana del rito eucaristico. All’interno dell’Ospedale era persino prevista un’area sepolcrale.
Prima fase – costruzione ‘ala sud‘
Nei primi anni, col Filarete, cominciò a prendere corpo la prima ala del complesso, quella più a sud, vicino all’abside della basilica di san Nazaro in Brolo. L’architetto costruì, secondo il progetto, il primo blocco di edifici a crociera, tali da creare quattro cortili: quello della farmacia, dei bagni, della ghiacciaia e della legnaia. Come indica lo stesso nome, questi cortili avevano le funzioni di specifici servizi: deposito di medicinali, vasche per la cura di certe malattie, nevera sia per tenere al fresco prodotti deperibili, che per la cura di traumi, febbri, gotta…, e infine deposito di legna per le cucine e per il riscaldamento degli ambienti.
Gli interni, studiati appositamente per ospitare gli ammalati, prevedevano locali con soffitti molto alti, per favorire la circolazione dell’aria, grandi camini a legna, servizi igienici (addirittura uno ogni due letti), un sistema sotterraneo di fognature e l’acqua corrente proveniente direttamente dal Naviglio che scorreva lì vicino. I letti, di legno, erano dotati di banco e di cassettiera. Erano quotidiani i cambi delle lenzuola. Inoltre, vi era un corpo permanente di guardia (medici e infermieri), tra cui si ricorda la figura di Camillo de Lellis (1550-1614), preposto alle cure e al sollievo dei sofferenti.
Con questa architettura, tecnologia ed organizzazione d’avanguardia per l’epoca, Milano diventò il punto di riferimento di tutta Europa, sia per l’assistenza medica, che per lo sviluppo della medicina.
Nel 1465, dopo nove anni dall’avvio dei lavori, il Filarete abbandonò Milano, lasciando che l’esecuzione dell’immane opera venisse portata avanti da Guiniforte Solari e poi, alla morte di quest’ultimo nel 1481, dal capomastro Ambrogio da Rosate, secondo il progetto prestabilito. Nel 1493 la direzione lavori infine passò per un paio d’anni, in mano al genero e allievo del Solari, Giovanni Antonio Amadeo. Fu quest’ultimo il responsabile della decisione di adottare la pietra di Angera come materiale da costruzione per sostituire la terracotta, in quello che sarebbe poi diventato il cortile dei Richini. Comunque si mantenne l’iniziale progetto rinascimentale del Filarete per quanto riguarda gli interni della struttura, rimaneggiando invece pesantemente la parte riguardante la facciata esterna del complesso, per adeguarla al gusto lombardo, tardogotico di quel periodo. L’esempio più evidente sta nella sostituzione delle monofore a tutto sesto, previste nel progetto originale, con delle bifore ogivali nel prospetto della facciata principale. Il lavoro comunque proseguì abbastanza velocemente, al punto da riuscire a rendere già operativa la prima parte dell’ospedale, nel 1472, con l’accoglimento dei primi degenti, e del relativo personale sanitario.
Quest’area, che risulta essere la parte più antica dell’intero complesso, presenta ancora oggi l’originale facciata in cotto, prodotta dalla fornace di Giosuè Curti, nobile al servizio degli Sforza, la cui bottega, a quel tempo, era situata alle Colonne di S. Lorenzo, sul Naviglio. Lavoro davvero certosino, se si considera la personalizzazione delle singole formelle in cotto, su disegno di Guiniforte Solari.
La realizzazione dell’Ospedale nel suo complesso, andò avanti a tappe, per secoli. Si costruiva finché c’erano fondi, quando non c’erano più, si smetteva. La prima sospensione dei lavori, per mancanza di finanziamenti, avvenne già nel 1499, all’indomani della caduta di Ludovico Sforza, detto il Moro, principale sostenitore dell’opera. L’attività rimase sospesa più o meno per un secolo, a causa del susseguirsi di pestilenze e di complesse vicende politiche, che Milano ebbe a vivere in quegli anni.
Il problema del sovraffollamento e della mancanza di posti letto nonostante la struttura fosse di notevoli dimensioni, si fece già sentire intorno al 500. Per limitare gli accessi in quel periodo, le regole dell’ospedale specificavano che gli ammalati dovevano essere afflitti da malattia “de qualità che presto sono terminate vel con salute vel con morte” e perciò “o morendo o facti sani vano con la benedictione a fare li facti soi”. Praticamente si veniva curati in Ospedale solo se si era effettivamente curabili o se si doveva morire entro breve tempo.
Per far fronte alle nuove esigenze di spazio, la Ca’ Granda aveva pure assorbito l’antico Ospedale di Sant’Antonio, chiamato comunemente con l’appellativo “ad porcorum” cioè “ai porci”.
PERCHE’ SI CHIAMAVA “HOSPITALE AD PORCORUM” ?
Questo nome “colorito” era indubbiamente dovuto sia alle condizioni igieniche in cui versava la struttura, sia alla reale presenza di maiali allevati lì, e liberi di grufolare per le strade circostanti [ndr. – L’ospedale si trovava nell’area di fianco all’attuale chiesa di Sant’Antonio Abate in via Sant’Antonio, quindi davvero a due passi dalla Ca’ Granda].
Per evitare che i maiali finissero, sotto forma di salami appesi nella cantina di qualche ‘furbetto’, avevano marchiata sul dorso una T di riconoscimento, simbolo araldico per indicare stampella, cioè soccorso al malato. Comunque, nonostante questo, ogni tanto ne spariva qualcuno.
L’allevamento di maiali era giustificato dal fatto che il grasso che si ricavava dall’animale, era un unguento prezioso nella cura del fuoco di Sant’Antonio. [ndr. – Questa sembra sia stata davvero una delle più terribili epidemie che, particolarmente nel Duecento, in Francia, afflissero l’umanità, malattia questa che ha nulla a che vedere con quella che noi, oggi, chiamiamo col medesimo nome]
Seconda fase – costruzione ‘ala centrale‘
Durante il XVI secolo, segnato da frequenti pestilenze, non vi furono interventi edilizi di spicco. I lavori ripartirono seriamente solo nel XVII secolo, grazie alle munifiche donazioni effettuate da Giovan Pietro Carcano (1559 – 1624), ricchissimo banchiere e commerciante di lane che, nel testamento, lasciò al Luogo Pio, il reddito di metà delle proprie notevolissime sostanze. Il finanziamento fu sufficiente a completare, sul modello del prospetto già realizzato dall’Amadeo, il portale, le fronti sul cortile centrale e la facciata seicentesca. Il lavoro venne affidato a Francesco Maria Richini (1584 – 1658) che, con la collaborazione degli architetti Giovanni Battista Pessina, e Fabio Mangone , portarono a termine la parte centrale dell’Ospedale nel 1624.
L’ingresso principale e il Cortile d’onore
In questa fase venne costruito il monumentale portale barocco. dove spiccano due sculture, su disegno di Giovanni Battista Crespi detto il Cerano. Dal portale si accede poi al grandioso Cortile d’onore ( Chiostro o Cortile del Richini) in granito rosa, marmo bastardo di Ornavasso e pietra di Angera. Per volontà del capitolo dell’ospedale, sia la decorazione del Fronte di Via Festa del Perdono che quella del cortile principale ripresero le decorazioni rinascimentali realizzate più di un secolo prima da Amadeo e Solari.
La Chiesa della Beata Vergine Annunciata
Su progetto, sempre del Richini, nel 1637 venne edificata la Chiesa dedicata alla Beata Vergine Annunciata, posta il fondo al cortile maggiore. A dire il vero, più che chiesa, sembra una cappella essendo molto semplice, piccola e senza facciata “per non alterare la corte del Richini”. L’edificio a pianta quadrilatera, è coperto da una cupola sorretta da otto colonne e coretti al primo piano. Per ornare l’altare fu commissionato nel 1637 al pittore Francesco Barbieri di Cento, detto il “Guercino”, una pala d’altare raffigurante l’Annunciazione, opera terminata nel 1639 e ancora oggi visibile in loco.
La cripta e il sepolcreto
La cripta, sotto la chiesa, fu invece affrescata dal pittore Volpino nel 1637. Di queste decorazioni purtroppo. a causa dell’umidità, si conserva solo qualche traccia.
A un piano ancora inferiore rispetto alla cripta, si trova il sepolcreto, utilizzato per tumulare i resti dei degenti deceduti nell’Ospedale fino alla fine del Seicento. A quella data (1697) infatti un nuovo cimitero, oggi noto come la Rotonda della Besana, andrà, a sostituire il sepolcreto, ormai saturo.
ndr. – La Rotonda della Besana verrà dismessa dopo il 1792, in seguito alla legislazione sanitaria austriaca che imponeva di spostare i cimiteri fuori dalla cerchia cittadina.
Le camere sepolcrali della Ca’ Granda furono ripristinate durante le Cinque Giornate di Milano del marzo 1848, per seppellire i morti in battaglia, poiché, a causa dello stato d’assedio, non era possibile raggiungere i cimiteri suburbani. I loro resti ora, sono stati spostati nella cripta sotto il monumento che Giuseppe Grandi ha creato in piazza Cinque Giornate, per commemorare quelle vittime.
L’Archivio Storico
Sempre opera del Richini è l’Archivio Storico, la cui costruzione risale al 1637 , nell’ambito dell’ampliamento della Ca’ Granda. E’ un vero gioiello nascosto, non solo per i documenti che conserva, ma anche per il luogo stesso, ricco di fascino e storia. Le sale che ospitano l’Archivio erano destinate ad accogliere le riunioni del “Capitolo”, ovvero il consiglio d’amministrazione ospedaliera che si riunì in questi luoghi fino al 1796.
La copertura a volta divisa in lunette, fu dipinta nel 1638, da Paolo Antonio de’ Maestri, detto “Il Volpino”.
La Porta della meraviglia
Come già accennato, verso la fine del XVII secolo (1691), essendo il sepolcreto diventato ormai insufficiente ed inadeguato per le accresciute necessità ed esigenze igieniche del grande ospedale cittadino, si dovette rapidamente cercare una soluzione alternativa non lontano da lì. Se ne incaricò Attilio Arrigone a individuare il luogo e a fare il progetto per il “Cimitero ai Nuovi Sepolcri” (quello che oggi è la “Rotonda della Besana“), in cui seppellire i morti dell’ospedale. Questo comportò ovviamente, anche la costruzione dello stradone della pace (via San Barnaba) che collegava direttamente il camposanto con l’Ospedale. IL nuovo cimitero diventerà effettivamente operativo con le prime tumulazioni, nel 1697.
Di fianco all’abside della chiesa dell’Annunciata, venne aperta così una nuova porta lungo il muro di cinta dell’Ospedale, e fu realizzato un ponte (il Ponte dell’Annunciata) che permettendo di scavalcare la Fossa Interna dei Navigli, consentiva di portare le salme fino ai “Nuovi Sepolcri”; questa porta, ancora esistente, era talmente bella, che fu chiamata appunto la “Porta della Meraviglia“.
Terza fase – costruzione ‘ala nord‘
I lavori per terminare la Ca’ Granda secondo il progetto iniziale del Filarete, subirono un’altra lunghissima sospensione, sempre a causa della cronica mancanza di fondi. Solo grazie ad una ulteriore cospicuo lascito testamentario da parte del notaio Giuseppe Macchi (1713 – 1797), notissimo evasore fiscale, i lavori ripartirono nel 1797 sotto la direzione di Pietro Castelli, ed entro il 1805, venne completata l’edificazione, della crociera dell’ala nord verso l’antico laghetto di Santo Stefano, un tempo utilizzato per lo scarico del marmo ad uso della fabbrica del Duomo, e poi divenuto proprietà dell’ospedale stesso, fino al suo interramento, nel 1857.
Fu appena in questo periodo, che il direttore dell’Ospedale, Pietro Moscati (1739-1824) istituì all’interno della Ca’ Granda, il primo laboratorio chimico dell’Ospedale.
A detta di Carlo Cattaneo (1801-1869), l’ospedale Maggiore di Milano, era in grado di fornire un livello avanzato di assistenza medica ai suoi cittadini, grazie al fatto che tutta la popolazione poteva essere ricoverata gratuitamente, indipendentemente dalla classe socio-economica del degente.
Nel corso dei secoli la Ca’ Granda, oltre alla gestione dell’Ospedale curò anche l’ingente patrimonio rurale ereditato dai lasciti testamentari di cascine e terreni, traendone le risorse necessarie al sostenimento dell’attività assistenziale e medica. L’oculata gestione delle proprietà permetteva l’autogestione, con produzione in proprio di legna per il riscaldamento, latte, formaggi e carne per i pasti dei degenti.
L’ulteriore espansione della struttura
Durante il XIX secolo, l’Ospedale Maggiore si ingrandì ulteriormente, accorpando le strutture dell’antico convento francescano femminile di Sant’Antonio da Padova, di via Francesco Sforza n. 35 detto di sant’Antonino (per distinguerlo da Sant’Antonio Abate), struttura questa che venne destinata ai pazienti solventi.
Già verso il 1870, il vecchio edificio rinascimentale appariva poco adeguato all’espletamento delle sue funzioni, vuoi per l’arretratezza tecnologica della struttura quattrocentesca, vuoi per l’esiguità dei posti letto. Infatti, l’edificio, progettato nel XV secolo per soli 288 pazienti, non poteva più sostenere l’aumento della popolazione della città più industrializzata d’Italia. Per questi motivi, l’amministrazione decise di spostare l’Ospedale oltre il Naviglio, creando una moderna struttura basata su un impianto organizzato a padiglioni. Il primo edificio di questo nuovo progetto, un padiglione chirurgico con 120 posti letto, fu inaugurato nel 1895 con il
sostegno economico della duchessa Eugenia Litta Visconti. Nei decenni successivi, furono creati dei nuovi padiglioni, intitolati ai benefattori o ad altre figure illustri nella storia dell’Ospedale: Ponti (1900), Moneta (1902), Beretta (1904), Moscati (1906), Riva (1911), ecc. Successivamente, fino praticamente al 1980, si arrivarono a creare una ventina di nuovi padiglioni, quale risposta alle necessità conseguenti ai numerosi progressi in campo medico, e alle più stringenti norme igienico – sanitarie, che il vecchio ospedale non era più in grado di garantire. La nuova cittadella, polo sanitario di eccellenza, venne creata, sempre grazie alle numerose cospicue donazioni e lasciti testamentari dei cittadini, nel terreno confinante, al di là della Fossa interna del Naviglio. E’ tutta la vasta area compresa tra via Francesco Sforza, via Lamarmora e via Commenda, oltre a tutte le strutture dell’area di via Pace.
Per impulso di Luigi Mangiagalli, al fine di coniugare ricerca, didattica e assistenza ospedaliera, nel 1906 fu inaugurato l’istituto Ostetrico Ginecologico che oggi porta il suo nome. Di fianco ad esso sorsero la Clinica del Lavoro “Luigi Devoto” e l’Istituto Pediatrico “De Marchi”. Nel 1909 Mangiagalli progettò e diede vita anche all’Asilo “Regina Elena” per gestanti e puerpere.
Nel 1938, la vecchia struttura, considerata non più adatta a svolgere i suoi compiti di assistenza sanitaria alla cittadinanza, venne ceduta al Comune che ne valutò l’utilizzo come sede universitaria. I servizi che erogava la Ca’ Granda, vennero man mano trasferiti presso il nuovo Ospedale Maggiore di Niguarda, la cui costruzione, iniziata nel 1932, procedeva speditamente. L’ospedale continuò a svolgere la sua funzione fino al 1939, quando gli ultimi degenti furono trasferiti nella nuova sede.
I bombardamenti del 1943
La storia dell’Ospedale si concluse praticamente con i bombardamenti della Seconda guerra mondiale. che distrussero buona parte dell’edificio, compromettendo la staticità di quasi tutto il complesso. . Di lì a poco, comunque, rinascerà come Università.
La Ca’ Grande diventa sede dell’Università Statale
E’ del 1949, il progetto definitivo di riutilizzo dell’edificio come Università. Vi parteciparono architetti come Annoni e Portaluppi, l’ing Belloni, e gli architetti Borromeo e Liliana Grassi. Particolarmente quest’ultima si dedicò ad una paziente ricostruzione dell’opera, grazie allo studio di disegni, dipinti e foto d’epoca. L’intervento si concluse con l’inaugurazione della sede dell’ateneo nel 1958. La sua ricostruzione è considerata oggi un autentico un capolavoro del restauro! L’Università Statale milanese, fondata nel 1924, fino ad allora, era stata ospitata, in vari luoghi della città. Ora poteva vantare una sede prestigiosa. Oggi che è diventata una delle più grandi università italiane, si trova in uno degli edifici più antichi, adibiti a tale funzione. Un recentissimo intervento di restauro curato da Snam ha portato l’edificio al suo originale splendore.
La Festa del Perdono
Data la ciclopica dimensione dell’opera, circa 300 mt di sola facciata, già pochi anni dopo l’inizio della costruzione della Ca’ Granda, le difficoltà finanziarie cominciarono subito a farsi sentire. In quegli anni, le frequenti e costose campagne militari non permettevano di contare molto sull’aiuto del Duca Francesco Sforza impegnato su altri fronti. Non intendendo salassare ulteriormente i sudditi già sufficientemente oberati di tasse e balzelli vari, Francesco Sforza, memore delle soluzioni inventate dai suoi predecessori, spesso impegnati a “rastrellare” soldi per la costruzione del Duomo, pensò di rivolgersi direttamente al Papa Pio II, da qualche mese salito al soglio pontificio, perché istituisse un ‘Giubileo’, quale vera e propria festa, per la raccolta di offerte, da destinare al mantenimento del nuovo ospedale.
La bolla “Virgini gloriosae”
E fu così che, con la bolla “Virgini gloriosae” del 1459, il Papa istituì, la cosiddetta Festa del Perdono, da effettuarsi in data 25 Marzo, giorno dell’Annunciazione del Signore, ogni due anni, a partire dal primo anno dispari . Chiunque avesse visitato quel giorno, la Ca’ Granda, avrebbe ottenuto l’indulgenza plenaria, cioè il perdono dei propri peccati, a condizione che offrisse una donazione all’ospedale.
Ndr. – Le donazioni per la Ca’ Granda avvenivano negli anni dispari, perché negli anni pari (ed è ancora oggi così) le elargizioni venivano destinate alla costruzione / manutenzione del Duomo.
La festa
La prima festa che si svolse il 25 Marzo 1461, fu un vero e proprio trionfo sia di partecipanti che di donazioni: furono migliaia i fedeli provenienti da tutte le città della Lombardia, le cui elemosine ammontarono a 8656 lire imperiali, una vera enormità per i tempi. Il secolo successivo, sotto il Papato di Pio IV, Carlo Borromeo arcivescovo di Milano rese questa festa più importante dandole significato religioso, con lo svolgimento di cerimonie e processioni alla presenza di tutte le autorità cittadine.
La Festa del Perdono ha sempre suscitato un forte coinvolgimento popolare: sia all’interno dei cortili, che sulla piazza esterna, veniva organizzata una vera e propria fiera di paese, con bancarelle e addobbi; i ritratti dei benefattori più illustri venivano esposti sotto i portici del cortile del Richini, per incentivare le donazioni da parte dei cittadini, che accorrevano numerosi per i festeggiamenti. Oggi rappresenta l’occasione per visitare in quella ricorrenza, un interessante patrimonio storico e artistico della storia della città
Nel corso dei secoli, tra i benefattori della Ca’ Granda, figurarono tanto i nobili, quanto le persone comuni, tutta gente che faceva donazioni a seconda delle disponibilità: poteva trattarsi di somme ingenti oppure modeste, di importanti lasciti testamentari o di piccole somme, di palazzi e terreni oppure di doni in natura, come generi alimentari o animali. Ci fu pure chi eleggesse l’ospedale quale erede universale dei propri beni e chi promettesse all’ospedale tutti gli improbabili guadagni derivanti dal gioco d’azzardo.
Legislazione “ad hoc”
la festa del perdono venne resa perpetua nel 1560. Venne organizzata per quasi 5 secoli e le celebrazioni religiose si trasformarono in occasioni di baldorie sfrenate. Avevano fatto addirittura delle leggi che vietavano l’arresto di persone e la confisca dei loro beni, quattro giorni prima e quattro giorni dopo la ricorrenza, eccezion fatta per famosi banditi, assassini o ribelli.
La festa del perdono, oggi
La tradizione popolare della festa, in quanto tale, è oggi caduta in disuso perché la Ca’ Granda, a partire dal 1938, ha trasferito l’Ospedale a Niguarda, e tutta l’area è stata ceduta all’Università Statale. I nuovi ‘pazienti’ non sono più quindi gli ammalati, bensì gli studenti. Comunque, il ricordo di quella cerimonia, a parte essere rimasto nel nome della via Festa del Perdono, rivive oggi con l’apertura al pubblico dei tesori del museo dell’antico Ospedale, per una settimana intorno alla data del 25 marzo degli anni dispari.
I Tesori della Ca’ Granda
I ritratti gratulatori
A partire dal 1602, per ricordare quanti facevano donazioni particolarmente cospicue, si pensò a fare realizzare il ritratto dei benefattori più generosi, a pittori milanesi o lombardi del calibro di un Giovanni Segantini, Giuseppe Molteni, Mosé Bianchi, Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto, Emilio Longoni, Mario Sironi, Francesco Hayez, Carlo Carrà, Filippo Abbiati ecc.
Avevano stabilito un tariffario minimo perchè il benefattore avesse diritto al ritratto. Nell’Ottocento, la donazione doveva essere minimo di 80.000 lire per ritratti a figura intera, o di 40.000 per ritratti a mezzo busto. In seguito la tariffa diventò unica per ritratti solo a figura intera, e la cosa è in vigore ancora oggi, con quote minime di 250.000 €.
In occasione della Festa del Perdono, la prima esposizione pubblica dei ritratti eseguiti, avvenne nel 1699. Inizialmente i ritratti erano riservati solo ai personaggi più famosi per nascita o per titolo; in seguito, quando si vide che eseguirli era molto conveniente per l’ospedale, si estese il privilegio a tutti.
In via Francesco Sforza 28, sede degli uffici amministrativi e dell’Archivio Storico del Policlinico di Milano, ora è possibile ammirare 23 ritratti in cinque sale dello spazio espositivo “I Tesori della Ca’ Granda“, visitabile gratuitamente. E’ visitabile su richiesta anche la quadreria dei Benefattori della Ca’ Granda, unica in Europa e forse persino unica al mondo. Gestita dai volontari del Touring Club, è una visita guidata nell’immenso caveau dell’ex Ospedale, ove si possono ammirare manoscritti, dipinti e un patrimonio artistico tanto vasto quanto poco conosciuto. Oltre all’esposizione di ritratti dei medici dell’Ospedale maggiore, l’arte si alterna alla scienza, con la mostra, pure, di collezioni sanitarie: una raccolta di strumenti medici dall’800 in poi, che hanno fatto la storia della medicina.
Il dipinto più prestigioso di tutta la collezione è il «Ritratto di Carlo Rotta» di Giovanni Segantini, unico esempio al mondo di ritratto su commissione.
Ndr. – L’impegno ad eseguirlo fu assunto per ottemperare alle disposizioni testamentarie (30 luglio 1888) di Giuseppe Rotta che aveva gravato l’eredità lasciata all’Ospedale, dall’obbligo di far eseguire, oltre al proprio ritratto, anche quello del padre Carlo e della propria moglie Angela Rotta Maccia.
Fra i vari quadri, una simpatica nota di colore è data dalla figura del vinaio Cesare Fantelli dipinto, nel 1875, da Pagliano Eleuterio, con le maniche semi rimboccate, uno straccio in una mano e mezzo litro di vino nell’altra. Inizialmente respinto dalle autorità dell’ospedale perché ritenuto troppo popolare, il ritratto, oggi è esposto insieme a tutti gli altri.
Il caveau della Ca’ Grande contiene una raccolta di 920 quadri di grande dimensione, ordinati per secolo. L’esposizione è interessante non tanto per i soggetti rappresentati, tutto sommato abbastanza simili fra loro, quanto per il nome gli artisti che li hanno dipinti e per le diverse tecniche pittoriche usate nel corso dei secoli.
Alcuni dei dipinti più prestigiosi hanno anche girato il mondo, ospiti di mostre internazionali come ad esempio a New York e Tokyo.
Il gonfalone d’onore
Uno dei pezzi più pregiati delle raccolte dell’ospedale, è il gonfalone della Ca’ Granda, cui è riservato il posto d’onore, in una teca protetta nell’atrio del palazzo dell’Archivio Storico. Nel 1932, l’Ospedale Maggiore lo aveva commissionato a Giò Ponti , in esecuzione di una precedente delibera del Consiglio degli Istituti Ospitalieri, relativa all’istituzione di un gonfalone d’onore, da portare ai funerali dei benefattori e nelle grandi cerimonie ufficiali.
Gio Ponti disegnò il gonfalone e sovraintese alla sua realizzazione conferendogli preziosità nei materiali e nelle tecniche impiegate. A parte la scelta della seta e dei materiali pregiati con cui creare il manufatto, coordinò il lavoro di nomi importanti dell’artigianato locale: il raffinatissimo ricamo in oro e argento su seta fu eseguito dalla ditta Fratelli Bertarelli, mentre le parti metalliche e di gioielleria furono realizzate dall’orefice Alfredo Ravasco che, tra l’altro, fu anche benefattore dell’Ospedale, facendo dono di tutte le pietre preziose da lui incastonate nell’opera.
Il gonfalone, significativo per l’arte del Novecento, venne consegnato nel 1935 e, dato il carattere di particolare solennità e il forte valore simbolico, venne ufficialmente inaugurato il 24 marzo 1935, nel corso di una funzione solenne in Duomo, celebrata dal cardinale Ildefonso Schuster.
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Note e curiosità:
La Medicina, fra Medioevo e Rinascimento
Nel Medioevo, le malattie venivano classificate fra “interne” – ovvero derivate da causa interne – (trattate dal medico-fisico), ed “esterne” (trattate dal chirurgo-macellaio)
La figura del medico non era vista di buon’occhio, perché, nonostante le cure, la mortalità era comunque alta e questi basava la sua opera su rituali e preghiere. Il contatto con l’ammalato era ridotto al minimo e, per evitare di essere contagiato respirando i malefici odori che il malato esalava, il medico posizionava sotto il naso la scorza di un’arancia essiccata, oppure faceva le sue visite nelle fogne, convinto che i cattivi odori tenessero lontane le malattie. (ndr. – V’è ampia letteratura in proposito non limitata al Medioevo ma addirittura al Seicento). Anche la Chiesa si opponeva alla ricerca medica, proibendo l’esecuzione delle autopsie in quanto il cristiano, per aspirare al Paradiso, doveva avere un corpo integro e non martoriato. In pratica, non esisteva un solo medico che avesse la possibilità di apprendere l’anatomia umana.
Peste nera, sifilide, lebbra, tubercolosi, carbonchio, scabbia e tifo furono sicuramente il motivo che diede impulso, nel Rinascimento, all’avvio della ricerca sul perché di queste epidemie e su come contrastarle. Si inaugurò una grande epoca di ricerche scientifiche sull’anatomia, ossia sull’osservazione e lo studio del corpo umano.
Uno dei primi e più illustri anatomisti fu Leonardo da Vinci, il quale pubblicò un enorme catalogo d’illustrazioni, basate sulla dissezione di una trentina di cadaveri, facendo pure una prima classificazione delle infermità mentali. Le osservazioni di Leonardo evidenziarono molti errori anatomici e fisiologici negli studi di Galeno, famoso medico della Roma antica.
Altro anatomista rinascimentale fu Vesalio, che realizzò due importanti pubblicazioni di trattati e immagini, considerate basilari per l’anatomia moderna. In una, in particolare, la descrizione delle cavità del cuore è quasi un preludio alla grande scoperta medica dell’epoca, la circolazione polmonare, successivamente sviluppata e completata da due grandi medici rinascimentali quali Michele Serveto e Matteo Realdo Colombo.
La teoria dei quattro umori
Guai ammalarsi!
Metodi, a volte davvero incredibili, vennero adottati sui poveri infermi non solo nel Rinascimento ma addirittura fino al Settecento. Alcuni esempi:
Rimedi a volte peggiori della stessa malattia!
- Per curare la peste nera, fra le varie pratiche, era comune quella di aprire i linfonodi infiammati, sotto le ascelle o nell’inguine, per permettere alla malattia di “lasciare” il corpo, e successivamente applicare sulle ferite aperte, un impasto fatto di resina, radici di fiori ed escrementi umani.
- Durante le epidemie di peste del 500 e 600 si usava anche il metodo Vicary (dal medico inglese che lo aveva inventato). Il sedere spiumato di una gallina viva, veniva legato ai linfonodi gonfi del paziente. Poi, quando anche l’animale si ammalava, bisognava lavarlo e riposizionarlo sul paziente, fino a quando solo il pollo o solo l’appestato guariva. A parte l’esito improbabile dell’operazione, la cosa fa riflettere sul fatto che le galline razzolavano indisturbate per i corridoi del nosocomio (quando non legate). E risulterebbe pure che la cosa andò avanti così, fino al 1710 quando un esplicito regolamento dell’ospedale vietò l’accesso delle galline in corsia!
- Quando un male non era ben classificabile, pratica molto diffusa, era ordinare al paziente un sano bagno nell’urina, e berne due o tre bicchieri al giorno. Era convinzione dei medici di allora che l’urina fosse la panacea per tutti i mali.
- I pazienti della Ca’ Granda sofferenti di epilessia, venivano invece curati con lunghi bagni nell’olio caldo. Da documenti trovati, sembra che finì i suoi giorni arrosto, un sacerdote nel 1713, che, “messo dai portantini in un bagno d’olio un po’troppo caldo, pro convulsis, ne morì”. Altro metodo usato nel Settecento, per curare forme più lievi dello stesso male, era quello di bersi una miscela densa di acqua con qualche cucchiaino di polvere di ossa di cranio, cosa che, nelle farmacie di allora, non mancava mai.
- Per i pazienti di rabbia, rimedio infallibile, erano capelli pestati nell’aceto!
[ndr. – Ovviamente nessuno di questi metodi portava alla guarigione, anzi il più delle volte, andava a peggiorare situazioni già critiche. La probabilità di uscirne vivi, non era altissima!]
Le medicine
Sembravano perfetti intrugli da fattucchiera ….
- Il grasso orsino fa dilungare i capelli, et rinascere anchora quando cascano dal capo per pelagione
- Il grasso lavato con vino et impastato con cenere et calcina giova grandemente nei dolori di costato
- capelli arsi et spolverati sul cancro, lo guariscono
- il latte di donna sutto dalle poppe, giova al rodimento dello stomaco et ai thisici
- latte di giraffa fa sparire la tosse asinina
- Fegato caldo di elefante, guarisce il mal caduco (= epilessia)
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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