La Cappella Portinari
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Fra i tanti tesori di Milano, ce ne sono alcuni, meno accessibili al grande pubblico, che la città tiene gelosamente nascosti, perché non ha alcun interesse a mostrarli a quanti non sarebbero in grado di apprezzarli. Rimangono pertanto delle perle, precluse ai più, che solo se accuratamente ricercate, rivelano tutto il loro intrinseco splendore.
Vi siete mai chiesti come mai sono così tanti coloro che, andando a visitare l’antichissima basilica di Sant’Eustorgio, ne escono dopo cinque o dieci minuti “perdendosi” la Cappella Portinari, cioè il tesoro più bello? Il trucco c’è ma non si vede … Per visitare la Cappella, bisogna accedere al “museo” e tante volte, la sola parola “museo”, è sufficiente ad allontanare i visitatori più pigri ….
Ci troviamo nel complesso della Basilica di Sant’Eustorgio, in zona Ticinese, a Milano: quello che, nelle guide turistiche, risulta giustamente essere uno dei luoghi “not to miss” (da non perdere) in una visita alla città.
Per chi ha avuto già modo di vederla, e quindi, almeno sommariamente, la conosce, il sentir parlare di Cappella Portinari, fa immediatamente venire alla mente la magnifica Arca di San Pietro Martire che si presenta agli occhi del visitatore, quasi a mo’ di altare, gioiellino talmente bello ed inatteso, da “offuscare” i pur pregevolissimi affreschi che la Cappella ci offre alla vista, capolavori assoluti, fortunosamente arrivati sino a noi, opera del bresciano Vincenzo Foppa (1427 – 1515), uno dei principali pittori del Rinascimento lombardo, prima dell’arrivo di Leonardo da Vinci a Milano.
L’impatto è di quelli che lascia attoniti: la sensazione di trovarsi davanti ad un “pezzo” molto pregevole in marmo di Carrara in una “cornice ambientale” altrettanto importante, sulla quale però lo sguardo non si posa subito: ciò accade solo in un secondo momento, e allora ecco lo splendore delle cupole ombrelliformi multicolori e i numerosi affreschi che ravvivano le pareti e le lunette. A proposito, le pareti laterali dell’ambiente, fino ad una certa altezza, sono nude …. indice questo che, all’epoca della costruzione della Cappella, ad entrambe i lati vi era un piccolo coro con degli stalli intarsiati, recanti alle estremità le insegne del nobile committente fiorentino, tale Pigello Portinari, da poco trapiantato a Milano.
Arca e Cappella sono dunque due cose ovviamente diverse, anche se, come vedremo, intimamente legate fra loro: l’Arca è un’opera del Trecento, la Cappella risale invece al Quattrocento. L’Arca pertanto, essendo antecedente alla Cappella, fino agli inizi del XVIII secolo, si trovava collocata in una navata della basilica di sant’Eustorgio e appena nel 1736, fu spostata in quella Cappella.
Per chi va a visitarla oggi, indipendentemente dal percorso obbligato, attraverso la Sacrestia, che fanno fare perché il continuo flusso di visitatori non vada ad interferire con lo svolgimento delle funzioni religiose in basilica, la Cappella dà la netta sensazione di essere un corpo “aggiunto” di fianco o subito dietro l’abside della grande basilica ed in effetti lo è.
Per poter comprendere meglio il perché di questa Cappella e il suo significato simbolico nel contesto della basilica di sant’Eustorgio, è opportuno fare un breve excursus sui personaggi interessati nel periodo storico in cui sono vissuti.
La committenza della Cappella
Siamo nella Milano della metà del Quattrocento: in quegli anni, il ducato passa di mano dai Visconti agli Sforza.
La tradizione vuole che ad ordinare la costruzione della Cappella, fosse un giovane banchiere fiorentino, tale Pigello Portinari, da qualche anno nella capitale lombarda, in quanto responsabile della filiale del Banco Mediceo che, fin dal 1455, aveva aperto i battenti in città, a pochi anni dalla nomina di Francesco Sforza a nuovo Duca di Milano.
Chi era Pigello Portinari
Pigello, primogenito di tre fratelli (gli altri due si chiamavano Acerrito e Tommaso), nacque a Firenze nel 1421 da Folco di Adoardo (o Adovardo) Portinari, appartenente ad un’importante famiglia di mercanti, e da Caterina di Tommaso Piaciti.
NOTA : Alla fine del XIII secolo, Folco Portinari (un trisavolo di Pigello), fu uno dei più ricchi cittadini di Firenze, famoso per le sue iniziative benefiche come la fondazione dell’Ospedale di Santa Maria Nuova, tutt’oggi il principale ospedale del centro cittadino. Sua figlia Bice Portinari, che sposò il banchiere Simone de’ Bardi, e morì giovanissima a soli 24 anni, è ormai identificata con la celebre Beatrice cantata da Dante Alighieri prima, nella Vita Nuova e poi, nella Divina Commedia.
Alla morte del padre (1431), Pigello e i suoi fratelli, ancora piccolini, vennero accolti in casa di Cosimo il Vecchio (de’ Medici), che si prese cura dell’istruzione degli orfani. In seguito, due di questi, sarebbero diventati direttori di due delle principali filiali estere del Banco Mediceo di Firenze: quella di Milano e quella di Bruges.
Appena tredicenne (nel 1434), per farsi le ossa, Pigello cominciò a lavorare a Firenze, come garzone di bottega (cioè fattorino) dei Medici, nel cui Banco avevano già lavorato in compartecipazione societaria sia suo padre Folco (nella sede fiorentina), che lo zio Giovanni (direttore e socio in quella veneziana).
Dopo un lungo periodo di apprendistato a Venezia, nel 1455, appena le condizioni politiche lo permisero, Pigello venne inviato a Milano per aprire, assieme al fratello Acerrito, la nuova filiale del Banco Mediceo voluta da Francesco Sforza in accordo con Cosimo de’ Medici. L’altro fratello minore (Tommaso) andò invece come direttore nella filiale del Banco Mediceo di Bruges (città delle Fiandre, strategicamente il principale centro dei commerci tra Europa settentrionale e Mediterraneo).
La presenza di Pigello Portinari a Milano, rientrava nella politica estera dei Medici preoccupati di rinsaldare alleanze politico-militari col Ducato di Milano, cancellando di fatto i pessimi rapporti intercorsi, fino a pochi anni prima, con i Visconti; un ruolo di prim’ordine, nella gestione della politica estera fiorentina (sia economica che militare). Il miglioramento dei rapporti aveva già da qualche anno, iniziato a dare i suoi frutti. L’arrivo a Milano, nel 1451, del fiorentino Filarete (Antonio Averulino) scultore e architetto di grande fama, era già stato un primo segno tangibile della volontà di normalizzazione delle relazioni fra gli Sforza ed i Medici, cosa questa che, sicuramente, avrebbe giovato ad entrambi. L’architetto era stato raccomandato a Francesco Sforza da Piero de’ Medici (il Gottoso) figlio di Cosimo il Vecchio, segnando la prima significativa presenza di un artista “rinascimentale” in città. [Ndr. – Grazie al suo stile ibrido, fra le varie e importanti commissioni, gli venne affidata la costruzione della Torre del Castello, che conquistò la Corte sforzesca; poi la Ca’Granda ecc.].
Il Banco Mediceo
Francesco Sforza, nel 1455, era venuto a conoscenza dell’intenzione da parte di Cosimo de’ Medici di aprire a Milano una filiale del Banco Mediceo, per favorire i rapporti commerciali fra i due Stati. Naturalmente interessato alla cosa, il duca di Milano aveva inteso donare a Cosimo, come tangibile segno di amicizia, una serie di palazzi (in contrada dei Bossi n. 4), in pieno centro città, sia per farne la sua dimora milanese, sia soprattutto per crearvi la sede del Banco.
Cosimo il Vecchio (1389 – 1464), grato dell’omaggio di Francesco Sforza, aveva inviato il giovane Pigello Portinari a Milano, come suo emissario personale, per impiantare in contrada dei Bossi, in qualità di direttore, la nuova sede del Banco Mediceo. Ci vollero quattro anni di lavori per creare la nuova sede. Non si sa per certo a chi furono affidati i lavori, comunque è molto probabile che vi sia stato un fattivo contributo anche da parte del Filarete, sia perché è lo stesso Filarete a parlarne avendone disegnato la facciata nel suo Libro Architettonico dedicato a Francesco Sforza (composto sotto forma di dialogo tra “architetto” e “duca”), sia perché da alcune tracce rimaste ancora oggi nel cortile del palazzo attuale, pare abbastanza evidente la sua impronta.
Anche se oggi al n° 4 di via Bossi, non resta molto, l’occhio curioso non rimane comunque deluso: nonostante il palazzo sia stato totalmente rifatto, l’androne, ancora oggi, conserva qualche traccia della decorazione quattrocentesca, così come il cortile interno permette di ritrovare qualche piccolo segno dell’antico splendore.
In facciata erano presenti il bugnato, tipico elemento architettonico fiorentino, un portale monumentale, finestre a bifore e ricche decorazioni in cotto. Una fusione perfetta tra il nuovo stile fiorentino e la tradizione lombarda. Proprio con questo palazzo (purtroppo oggi andato perduto) nacque il Rinascimento lombardo. Gli interni dell’edificio erano decorati interamente dal Foppa, il più illustre dei pittori di quel periodo.
Il palazzo subì, nei secoli, diverse manomissioni finché, nel 1862, venne acquistato dai Valtorta che decisero di abbatterlo e ricostruirlo ex-novo. Dell’edificio originario si salvò ben poco: il portale (che stranamente fino ad allora, nessuno aveva osato toccare), venne staccato e venduto ad un mercante d’arte, così come venne strappata una porzione superstite di un affresco del Foppa – fanciullo che legge un libro di Cicerone – che finì a Londra (nella Wallace Collection). Il portale, dopo un acceso dibattito in Consiglio Comunale, venne alla fine rilevato dal Comune di Milano ed ora risulta visibile al museo del Castello Sforzesco.
La Cappella nella basilica di sant’Eustorgio
Nel corso del Quattrocento, al corpo gotico della basilica di S. Eustorgio vennero aggiunte alcune cappelle gentilizie, a testimonianza dell’intenso fervore devozionale che legava le nobili famiglie milanesi all’antica basilica diventata da alcuni secoli, sede dei frati Domenicani. [Ndr. – Fin dal 1220, il vicario arcivescovile Ugolino aveva consegnato all’Ordine Domenicano la basilica e gli edifici annessi. Sette anni più tardi, il possesso era stato confermato dall’arcivescovo Enrico Settala].
Sempre nel contesto dei buoni rapporti fra Milano e Firenze, s’innesta, a qualche anno di distanza dal completamento del Banco Mediceo, la committenza da parte del banchiere fiorentino Portinari di una Cappella, nella basilica di Sant’Eustorgio, una forma di mecenatismo molto apprezzata dai milanesi. Pare che questa richiesta sia stata fatta inizialmente, a scopo puramente devozionale, per dare degna collocazione alla reliquia del capo di San Pietro Martire, santo a cui, Pigello Portinari, pare fosse molto devoto. All’epoca, nonostante fossero già passati duecento anni dalla morte del santo, le sue reliquie erano ancora fra le più venerate a Milano e non solo. Successivamente, mentre la cappella era in stato di avanzata costruzione, pensò a farne pure il proprio tempio funebre ed infatti fu proprio qui che venne sepolto l’11 ottobre 1468 (appena ultimata la costruzione della Cappella).
Prime tracce documentali
Comunque le prime tracce documentali di riferimento al Portinari e alla sua Cappella, risalgono incredibilmente, appena al 1478 (dieci anni dopo la morte del direttore del Banco Mediceo). Risalirebbe infatti a quell’anno il primo inventario fatto nella chiesa di Sant’Eustorgio, di tutti gli oggetti preziosi e dei paramenti sacri donati dai nobili alla chiesa e depositati nella sua Sacrestia, (oggi Museo). Fra questi ultimi, figurerebbe anche un “completo” donato dal defunto Pigello Portinari: a questa annotazione segue una breve ma importante postilla scritta dall’estensore di questo inventario: “et hic nobilis vir fieri fecit capellam mire pulcritudinis et tabernaculum cum choro ubi est caput gloriosi beati Petri Martiris” (cioè, e questo uomo nobile fece costruire una splendida Cappella e un tabernacolo con coro, ove è conservata la reliquia della testa del glorioso beato Pietro da Verona Martire).
NOTA – A quanto pare, nonostante le ottime premesse iniziali di riavvicinamento politico fra Firenze e Milano, dopo le continue guerre che avevano minato i rapporti fra le due citta in epoca viscontea, la filiale del Banco Mediceo, avendo come suo unico e principale cliente la famiglia Sforza, molto più propensa a cercare illimitato credito, che non ad onorare gli impegni già assunti, non ebbe vita facile a Milano, tant’è che, proprio nel 1478, visti gli scarsi risultati conseguiti, Lorenzo de’ Medici avrebbe poi deciso la chiusura definitiva della filiale fiorentina di Milano.
Pietro da Verona
Nacque a Verona attorno al 1205 da una famiglia catara, ma già da ragazzo, Pietro Rosini (questo era il suo vero nome) entrò in forte contrasto con i suoi genitori. Si convertì al cattolicesimo, continuando gli studi all’Università di Bologna dove, affascinato dalle prediche di san Domenico di Guzman, nel 1221, nemmeno sedicenne, decise di entrare a far parte dell’Ordine dei Frati Domenicani Predicatori.
Nel 1232 entrò nel convento domenicano di S. Eustorgio, dimostrandosi fin da subito come uno dei più abili ed intelligenti predicatori che la Chiesa cattolica era riuscita a strappare dal novero degli eretici. È ricordato, in particolare, per la sua tenace opposizione alle eresie, soprattutto nei confronti di quella dei catari (o “uomini puri”).
Nel 1232, fu nominato da papa Gregorio IX inquisitore per l’Italia settentrionale ed inviato a combattere il catarismo in Lombardia, dove tale eresia era largamente diffusa. Lo munì di poteri per la repressione dell’eresia, non tanto come giudice istruttore nei processi, quanto come missionario apostolico, incaricato di rilanciare con la sua foga oratoria, il minacciato prestigio della Chiesa Cattolica.
Constatato a Milano che le misure adottate dall’arcivescovo e dal podestà si arenavano davanti al tacito appoggio che il Comune accordava agli eretici, Pietro da Verona fondò la Società dei Fedeli (formando laici istruiti e combattivi) come forza popolare capace di imporre l’applicazione delle leggi votate nell’assemblea legislativa del Comune. Fu così che nel settembre 1233 riuscì a far inserire a forza, nello statuto di Milano, il decreto di Gregorio IX contro gli eretici, che prevedeva sanzioni concrete, senza scappatoie. Fu così che da quel momento i catari in attesa di esecuzione, finirono al rogo.
L’altra confraternita fondata sempre nel 1232 da Pietro da Verona era ispirata al culto mariano, con chiaro intento polemico contro quegli eretici che negavano la perpetua verginità di Maria. Due anni dopo, fu inviato anche a Firenze, ove creò analoghe confraternite presso molti conventi domenicani anche a Firenze e Perugia.
Dal 1236, in tutte le città dell’Italia centro-settentrionale fu considerato grande predicatore contro l’eresia dualistica.
Le sue prediche e le sue pubbliche dispute con gli eretici erano spesso accompagnate da miracoli e profezie, cose queste, che indussero molti a tornare alla fede cattolica.
Papa Innocenzo IV, nel 1251, lo nominò inquisitore per le città di Milano e Como. La lotta in queste città era particolarmente dura, perché l’eresia risultava molto diffusa.
Il 24 marzo 1252, era la domenica delle Palme, durante una sua predica, predisse la propria morte per mano degli eretici che lui “sapeva” stavano tramando contro di lui, assicurando i fedeli che li avrebbe combattuti, più da morto che da vivo.
Visti i successi conseguiti, per le tante conversioni che riusciva a fare, attirò, contro di sé, l’odio dei Catari più in vista, che lui intendeva combattere. I capi delle sette delle città di Milano, Bergamo, Lodi e Pavia si coalizzarono per eliminarlo, assoldando allo scopo, due sicari, Pietro da Balsamo detto Carino e Albertino Porro di Lentate, che dietro la promessa di 25 lire imperiali, si prestarono ad assassinare il frate domenicano.
Essi prepararono l’agguato nella brughiera di Farga, nei pressi di Seveso, dove Pietro, Domenico e altri due domenicani, il 6 aprile 1252, avevano fatto una breve sosta per colazione nel corso del loro lungo tragitto a piedi, di ritorno da Como a Milano.
Albertino Porro, (uno dei due sicari) al momento di mettere in pratica l’agguato, si tirò indietro, lasciando al solo Carino, lo scomodo compito di portare a termine l’assassinio. Questi con un “falcastro”, un tipo di falce, spaccò la testa di Pietro, immergendogli anche un lungo coltello nel petto. Le agiografie riportano che Pietro, prima di morire, intinse un dito nel proprio sangue e con esso scrisse per terra la parola “Credo“.
L’altro confratello, Domenico, subì profonde ferite pure lui, lesioni che lo portarono alla morte sei giorni dopo, nel convento delle Benedettine di Meda ove era stato ricoverato e soccorso.
Il corpo di Pietro da Verona fu trasportato subito a Milano dove gli furono tributati onori e devozione: ebbe delle esequie trionfali e fu sepolto dapprima a San Simpliciano e poi nel cimitero dei Martiri, vicino al convento di sant’Eustorgio. In quegli stessi giorni cominciarono a diffondersi notizie di alcuni suoi miracoli. Vennero a lui attribuite, le conversioni sia del vescovo eretico Daniele da Giussano (l’ideatore del suo assassinio), che quella dello stesso sicario, Carino da Balsamo: entrambi entrarono nell’Ordine Domenicano. Carino, in particolare, vestì l’abito domenicano nel convento di Forlì, dove aveva conosciuto, come sua guida spirituale, il beato Giacomo Salomoni: tale fu la conversione di Carino che oggi, anch’egli è riconosciuto beato.
Ndr. – Eresia dualistica – La nuova eresia, per l’influsso orientale, non si basava più solo su motivi etici (come la povertà) ma anche su argomenti teologici. Il dualismo comportava infatti una visione religiosa molto diversa da quella ortodossa. Visione che, a sua volta, si divideva in due differenti posizioni.
La prima, più moderata, era quella di Bogomil secondo cui il genere umano fu creato da Satana come materia inerte che Dio animò tramite gli angeli ribelli, che divennero così schiavi della materia. Un altro angelo, Cristo, era venuto per mostrare che era possibile liberarsi dai vincoli della materia tramite una vita di penitenza e di distacco. Quindi i cristiani dovevano essere perfetti e vivere come gli apostoli, rinunciando al sesso e al consumo di carne.
La seconda si basava su una estremizzazione della prima, sulla base di antichi testi manichei. Satana divenne il principio antitetico a Dio. Fu lui il vero creatore del mondo che ingannò Dio e sedusse i suoi angeli (tramite la donna e il potere). Questi ultimi furono imprigionati nella materia e questo sarebbe stato per sempre il loro inferno se l’angelo Cristo non avesse accettato la condizione umana per mostrare la via di fuga col suo sacrificio. [ rif: – www.lacooltura.com/2017/04/catari-la-comunita-dei-perfetti/ ]
Pietro da Verona, assoluto difensore dell’ortodossia cattolica, aveva dato ai milanesi testimonianza della propria fede, fino a quel giovedì Santo (il 6 aprile 1252), giorno del suo assassinio per mano dei catari. Era notissimo non solo a Milano ma anche a Firenze dove si era reso protagonista di una serie di azioni incisive nella vita religiosa di quella città, avendo svolto pure lì, sia la funzione di predicatore che d’inquisitore, prima di trasferirsi definitivamente nella capitale lombarda.
La reliquia del capo
Il capo di San Pietro martire era stato spiccato dal busto durante la ricognizione delle spoglie del Santo eseguita nel 1253 (l’anno dopo la sua morte). Non è chiaro quale sia stato il motivo di questa operazione, né dove, all’epoca, sia stata collocata questa reliquia. Vi è chi dice, secondo un’antica tradizione, sia stata deposta nella sacrestia della Chiesa di sant’Eustorgio e chi opta viceversa per la sua sistemazione quasi un secolo dopo (nel 1340) in una modestissima cappelletta costruita nel punto ove oggi vi è la Cappella Portinari.
I negazionisti
Per onore di cronaca, fonti sufficientemente autorevoli, (citate da Treccani) tendono oggi a mettere in dubbio l’effettiva paternità della committenza di Pigello Portinari per la Cappella in S. Eustorgio, senza peraltro riuscire ad individuare un committente certo: la giustificazione di tale dubbio è dovuta da un lato, all’assoluta assenza di prove documentali scritte (già peraltro evidenziate) che attestino la committenza del banchiere per la Cappella Portinari e dall’altro, al fatto che la stessa biografia di Portinari, risulterebbe essere legata molto marginalmente a Milano e quasi in toto, ai Medici di Firenze e al sepolcro di famiglia in S. Egidio, presso l’ospedale di Santa Maria Nuova della città toscana. Sulla base di quanto detto pertanto, oggi viene messa in dubbio la presenza reale dei suoi resti nella Cappella della chiesa milanese.
La Cappella Portinari
Chi l’ha progettata?
Purtroppo non si conosce il nome dell’architetto che progettò la Cappella Portinari.
Internamente, il progetto della Cappella pare ispirato alla Sagrestia Vecchia, della basilica di San Lorenzo di Firenze, capolavoro di Filippo Brunelleschi; esternamente invece, l’utilizzo del cotto come da tradizione, al posto del marmo, è di derivazione tipicamente lombarda.
Rilettura analoga possiamo trovarla anche nella pittura, dove Vincenzo Foppa si stacca dalla classica prospettiva geometrica “toscana” svincolandosi dalla rigidità geometrica ammorbidendone i contorni: la luce rende reale la scena e questa particolarità si chiama “prospettiva lombarda”.
La tradizionale attribuzione del progetto a Michelozzo (1396 – 1472), è stata soppiantata da un’altrettanta dubitativa attribuzione al Filarete (in quel periodo pesantemente impegnato alla Ca’ Granda): oggi si è propensi ad ascriverlo alle tendenze rinascimentali locali legate a Guiniforte Solari da Carona (Canton Ticino), l’architetto delle absidi alla Certosa di Pavia e di San Pietro in Gessate a Milano, notoriamente molto attivo in quel periodo.
Il nitido parallelepipedo esterno, sostenuto agli angoli da potenti contrafforti con terminazione a edicola sormontate in origine da guglie a cono, sostiene un solido tiburio poligonale a sedici lati che scherma la cupola, in linea con la più schietta tradizione lombarda.
I lavori comunque iniziati nel 1462, terminarono nel 1468. La data di inizio lavori compariva nella scritta apposta alla tavola (che fu sempre di pertinenza della Cappella) raffigurante Pigello in atto di devozione davanti a San Pietro martire (tavola visibile attualmente sull’altare). La scritta, alla base della tavola, recitava “PIGELLUS PORTINARIUS NOBILIS FLORENTINUS HUTUS SACELLI A FUNDAMENTIS ERECTOR ANNO DOMINI 1462” (vedi foto qui sotto). La tavola fu restaurata ed integrata alla fine del diciannovesimo secolo, quando la superficie dipinta venne trasferita su tela. Oggi dopo un ulteriore recente restauro, appare mutila e l’anno non è più facilmente leggibile.
La Cappella Portinari fu edificata, al posto di un piccolo corpo di fabbrica, sistemato nella crociera alla testata (atrio) della Cappella attuale, dove, si diceva, fosse conservata, in un altare, la reliquia della testa di S. Pietro Martire. Doveva servire quindi ad una più decorosa collocazione della reliquia del capo di San Pietro Martire, per consentirne la sua venerazione da parte dei fedeli.
La notizia dell’esistenza di questo corpo di fabbrica era stata desunta dal testamento di tale Paolino Brivio (un notabile parente dei Visconti, podestà di Pisa) che, nel 1441, disponeva l’erezione di una cappella per la propria sepoltura, nello stesso luogo dov’era la preziosa reliquia del Santo (“in quo loco est caput sancti Petri martiris”). Le disposizioni testamentarie di Brivio rimaste senza seguito alla sua morte, permisero comunque di confermare la veridicità di quanto riportato in quel documento. Una serie di scavi operati dalla Sovraintendenza in quell’area, durante i restauri effettuati nel 1950-51, permisero di fare emergere tracce di una piccola abside rettangolare e di un altare.
Come è fatta
E’ l’insieme di due vani a pianta quadrata, ognuno dei quali è sormontato da una cupola ombrelliforme a 16 spicchi. Appare essere il primo esempio di edificio a pianta centrale e la prima reale testimonianza dell’influenza fiorentina nell’architettura lombarda del Quattrocento. Si tratta di uno degli esempi più completi e meglio conservati di Rinascimento lombardo dell’epoca di Francesco Sforza. Nascosta sotto ben sette strati di intonaco dai tempi della pestilenza del 1630 in poi, ridipinta, infelicemente restaurata, la cappella ha ora riassunto in parte il suo aspetto originario di luminosa tonalità di colori. Dopo i restauri del 1952, la decorazione pittorica venne miracolosamente recuperata, nonostante le fortunose vicende a cui venne sottoposta nel corso dei secoli. La Cappella fu riaperta l’11 febbraio 2000, dopo nuovi restauri cominciati nel 1989.
L’edificio annesso alla basilica di Sant’ Eustorgio ebbe fin dall’origine tre funzioni:
- – luogo di culto della reliquia di San Pietro martire,
- – sepolcro del committente (Pigello Portinari, venne infatti qui sepolto nell’ottobre 1468, sotto il pavimento davanti all’altare)
- – coro sussidiario della chiesa
Fu appena nel 1736, che il piccolo coro della Cappella Portinari si arricchì della magnifica Arca di san Pietro martire, che fu trasferita lì, dove si trova tuttora, dalla navata della basilica in cui era stata sistemata fin dall’origine nel 1339.
Il dubbio irrisolto
La tomba di Pigello Portinari è oggi ancora lì, davanti all’altare? Il dubbio nasce dal fatto che la lastra tombale – che indicava la posizione esatta del luogo ove dovevano esserci i resti del banchiere – fu rimossa nel corso dei lavori di rinnovamento della pavimentazione che interessarono la struttura edilizia nel XVIII e nel XIX secolo. Pare che la lastra andò dispersa o forse volutamente distrutta: probabilmente perché il Portinari, alla data, non aveva più la proprietà della Cappella.
Risulterebbe infatti che Flaminia Radaelli, vedova di Ottavio Portinari e procuratrice del figlio Giovan Battista aveva venduto la cappella sin dal 1654 alla nobile famiglia Modroni [Cfr. gli atti in ASM, Notarile 30369 (18 agosto, 29 agosto e 18 settembre 1654) e ASM, Fondo Religione, p.a. 1104(copia a stampa degli atti da transazione). Cfr- anche Caffi, op. cit. 1841, p. 93].
Non si sa quindi se entrambi (Pigello Portinari e San Pietro martire) riposino effettivamente in questa Cappella, uno sopra l’altro, nel senso che la tomba del primo, sotto il pavimento, davanti all’altare, sia stata letteralmente coperta dall’arca trecentesca dedicata al Santo, collocata nella cappella nel 1736.
Gli affreschi della Cappella
Le scene principali raffigurano l’Annunciazione sull’arco trionfale (est) di fronte all’ingresso della Cappella, e l’Assunzione della Vergine sull’arco trionfale opposto (ovest). La scelta di raffigurare scene della vita della Vergine trova giustificazione nel fatto che i Domenicani furono grandi promotori del culto mariano.
Per affrescare le quattro lunette laterali della Cappella, Vincenzo Foppa ha voluto scegliere quattro fra gli episodi più emblematici della vita di S. Pietro Martire.
Sulla parete di sinistra:
- Martirio di san Pietro da Verona rappresenta la scena dell’assassinio dell’inquisitore Pietro, avvenuto nei boschi del comasco ad opera di uno degli eretici condannati dal santo. Questi è rappresentato mentre, colpito a morte, scrive sulla terra con il proprio sangue, la parola “Credo”.
- Miracolo di Narni o del piede risanato, in cui un giovane, che un momento di rabbia, aveva colpito con un calcio sua madre, pentitosi del gesto sconsiderato, si era amputato il piede per autopunirsi. Questo miracolo evidenzia le doti di taumaturgo del santo che, resosi conto del pentimento del giovane, gli riattacca l’arto amputato.
Sulla parete di destra, due storie legate alle vicende relative alla lotta contro l’eresia catara:
- Miracolo della falsa Madonna, ove san Pietro espone l’ostia consacrata e smaschera il diavolo che era apparso sotto le spoglie della Madonna. San Pietro svela l’inganno di un eretico cataro che aveva convinto i fedeli a venerare una falsa Madonna, che le corna indicano come inviata dal demonio.
- Miracolo della nuvola, rappresenta l’apparizione miracolosa di una nuvola carica di pioggia proprio nella piazza davanti la chiesa di Sant’Eustorgio a dare refrigerio ai fedeli in una giornata torrida, durante una predica del santo.
Fa decisamente pensare questa Madonna (e anche il Bambino) con le corna. E’ forse una blasfemia? No! In realtà, Vincenzo Foppa volle documentare l’avversione che all’epoca esisteva in quel luogo per il culto della Vergine.
Esistono due leggende su questo particolare affresco.
La prima vuole che le corna siano del diavolo in persona che si nascose dietro l’icona della Madonna per disturbare Pietro da Verona che celebrava la messa. Questi se ne accorse e neutralizzò il demone con un’ostia consacrata. Una volta eseguito il suo esorcismo, però, secondo la leggenda nel dipinto alla Madonna rimasero le corna di Lucifero.
La seconda leggenda, invece, sostiene che l’affresco sia infestato dallo spirito di Guglielmina la Boema, una donna vissuta in odore di santità, ma dichiarata eretica post mortem.
Ma non è solo questa l’unica curiosità di questa particolare lunetta: nella figura di profilo, posta alle spalle del santo, è ritratto il committente, Pigello Portinari, in persona!.
Nei pennacchi che raccordano il tiburio al vano quadrato della cappella, sono inseriti ai quattro spigoli, quattro tondi con i Dottori della Chiesa (Gregorio Magno, Gerolamo, Ambrogio e Agostino). Al di sotto di essi, nei vertici inferiori dei pennacchi, sorretti da angeli dalle ali policrome, si trovano gli scudi a testa di cavallo che recavano lo stemma della famiglia Portinari. Sul tamburo, alla base della cupola, venti figure angeliche modellate ad altorilievo in terracotta formano una danza gioiosa (probabile riferimento al coro sottostante). Gli spicchi che compongono la cupola sono forati a sezioni alterne a mezza altezza da oculi: in quelli chiusi, sono rappresentati otto busti di santi che sono stati identificati con gli Apostoli.
Arca di san Pietro martire
L’opera fu voluta dai domenicani del convento di Sant’Eustorgio presso Porta Ticinese a Milano, per custodire le spoglie di San Pietro martire. Fu realizzata, fra il 1336 ed il 1339, dallo scultore pisano Giovanni di Balduccio della scuola di Giovanni Pisano, grazie al contributo elargito da Azzone Visconti, e dallo zio vescovo. Per la realizzazione dell’opera, lo scultore prese molto probabilmente a modello l’arca di San Domenico a Bologna (poi pesantemente modificata nel XV secolo).
il corpo del Santo fu trasferito nel 1340 all’interno del sarcofago, allora posto nella navata della chiesa di Sant’Eustorgio.
Si tratta di una scultura gotica in marmo bianco di Carrara, firmata e datata 1339.
Descrizione dell’Arca
Il monumento è contraddistinto da un impianto iconografico ed allegorico particolarmente complesso. Il sepolcro è retto da otto pilastri quadrangolari in marmo rosso (da Verona), affiancati da altrettante figure femminili a tutto tondo che rappresentano le allegorie delle tre Virtù teologali e delle quattro Virtù cardinali, (cui è stata aggiunta l’Obbedienza) ai cui piedi sono collocati animali simbolici.
Nel lato di fronte all’ingresso, a cominciare da sinistra, sono la Giustizia (senza la spada e la bilancia, suoi attributi tradizionali), la Temperanza, che miscela acqua e vino, la Fortezza, coperta dalla pelle di leone e con lo scudo di Achille in mano, ed infine la Prudenza tri-fronte. Sul lato posteriore l’Obbedienza che reca sulle spalle un giogo, è affiancata dalle virtù teologali: la Speranza con gli occhi al cielo, la Fede contraddistinta dal calice e Carità che allatta i pargoli. Ciascuna di queste otto statue poggia su una coppia di figure allegoriche costituite da animali o rappresentazioni mitologiche.
A decorare i lati del sarcofago vi sono scolpiti otto bassorilievi con episodi della vita del santo, e alcuni suoi miracoli intervallati da figure di santi ed apostoli a tutto tondo (cioè con ricchezza di dettagli). Tutte le formelle sono caratterizzate dal grande affollamento delle figure e dallo scarso interesse per effetti di profondità prospettica. Esse sono, partendo da sinistra: Funerale, Miracolo della Nave, Canonizzazione, Traslazione del corpo del santo da San Simpliciano a Sant’Eustorgio, Miracolo del Muto, Miracolo della nube, Guarigione dell’infermo e dell’epilettico, Uccisione del Santo.
Ai quattro angoli, sono posti i quattro Dottori della Chiesa, mentre lungo i lati, si possono vedere Sant’Eustorgio ed alcuni degli apostoli. Sono in tutto otto statuine raffiguranti: Ambrogio, Pietro apostolo, Gregorio, Gerolamo, Tommaso d’Aquino, Eustorgio, Agostino.
Le formelle rappresentano alcuni miracoli compiuti dal santo, quali il Miracolo del muto, il Miracolo della nube, la Guarigione dell’infermo e dell’epilettico, ed episodi della sua vita quali il suo Martirio, i Funerali e la Canonizzazione.
Intorno al coperchio, in linea diretta con le virtù e i santi, svettano le vivaci figure allegoriche dei nove cori angelici, secondo la gerarchia celeste dello pseudo-Dionigi l’Areopagita; da sinistra verso la fronte: Angeli, Cherubini, Troni, Dominazioni, Virtù, Potestà, Principati, Arcangeli, Serafini.
Il coperchio è a piramide tronca. con bassorilievi con altri santi e i donatori-mecenati e sulla cornice superiore dell’urna si nota inciso il nome di Giovanni di Balduccio e la data (1339). L’arca si conclude con un’edicola a tre cuspidi al cui centro si trova la Madonna in trono col Bambino ed ai lati i Santi Domenico e Pietro Martire; al vertice, Cristo benedicente tra due angeli.
La leggenda dell’arca
Curiosa è la leggenda legata all’arca e al suo, forse poco preciso, realizzatore. Si narra infatti che Giovanni di Balduccio avesse fatto l’arca troppo corta al punto da non riuscire a contenere tutto il corpo del santo. La testa venne quindi trasferita in un’urna separata che l’arcivescovo Giovanni Visconti si portò in Arcivescovado. Dal giorno in cui lo fece però, incominciò a soffrire di fortissimi mal di testa, che cessarono unicamente quando l’arcivescovo si decise a riportare l’urna vicino al resto del corpo. Da allora San Pietro Martire viene considerato “protettore dalle emicranie“!
La cura “milanese” contro il feroce mal di testa
Secondo la vecchia tradizione milanese, per chi soffre di mal di testa, non vi è “moment che tenga”: la soluzione, forse un po drastica, pare comunque essere questa: “Andà a pestà el côo in Sant’Ustorg” (andare a picchiare la testa in Sant’Eustorgio).
Secondo i nostri vecchi, cioè, basterebbe tirare una testata all’arca (magari non troppo forte, per non farsi male davvero) l’ultima domenica di aprile di ogni anno, per essere certi di trascorrere un anno senza “mal di testa”. Pare che i milanesi, che soffrono di emicrania, si rechino in pellegrinaggio, in questa occasione, alla Cappella Portinari, per chiedere la grazia di essere preservati dall’emicrania per un intero anno!
[Ndr. – Sarà poi vero? Personalmente nutro qualche dubbio!]
Il culto a San Pietro martire
Il 24 marzo 1253, a soli undici mesi dalla morte del domenicano Pietro da Verona, papa Innocenzo IV lo canonizzò nella piazza della chiesa domenicana di Perugia, con la bolla Magnis et crebris, stabilendone la ricorrenza il 29 aprile.
Probabilmente Pietro da Verona è colui che è stato fatto santo più velocemente nella Storia della Chiesa, a soli undici mesi dalla sua morte!
Per evitare la sovrapposizione con la festa di santa Caterina da Siena, la sua commemorazione liturgica, fu successivamente spostata al 4 giugno, giorno della solenne traslazione delle sue spoglie nell’arca attuale, avvenuta nel 1340. Attualmente essa è fissata al 6 aprile, suo dies mortis.
Il culto di questo nuovo Santo, ebbe subito vasta diffusione, anche grazie alle Confraternite da lui create. I domenicani eressero in tutto il mondo chiese e cappelle a lui dedicate. Parecchie città italiane lo elessero a loro protettore come Verona, Vicenza, Cremona, Como, Piacenza, Cesena, Spoleto, Rieti, Recanati.
Il coltello “falcastro” usato per ucciderlo è oggi conservato a Seveso, nel Santuario a lui dedicato.
Note
Indirizzo: Piazza S. Eustorgio 1 – Milano (MI)
Per poter visitare la Cappella Portinari bisogna accedere al museo di Sant’Eustorgio, aperto tutti i giorni dalle 10 alle 18.
Il biglietto (6€ l’intero e 4€ il ridotto) dà l’accesso, oltre alla cappella, al cimitero paleocristiano collocato esattamente sotto la basilica
Trasporti pubblici
Tram
3, 9
Autobus
71
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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