La Colonna Infame
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TogglePorta Ticinese: Colonne di San Lorenzo … incrocio fra via Gian Giacomo Mora e Corso di Porta Ticinese …..
Sotto un piccolo portico, all’angolo di un edificio di recente costruzione, si trova, dal 2005, una vistosa scultura moderna di Ruggero Menegon con una luce votiva a pavimento. Vuole simboleggiare una Colonna ‘infame’ presente in quel posto, dal 1630 fino al 24 Agosto 1778.
Di fronte alla scultura, su un pilastro nudo. esattamente all’angolo dell’edificio, c’è una targa commemorativa che ben pochi notano …
In questa targa, il Comune di Milano, chiedendo perdono per l’errore, include una frase del Manzoni, tratta dal saggio storico ‘la storia della Colonna Infame’ che, per il suo contenuto morale, fa riflettere:
“Qui sorgeva un tempo la casa di Gian Giacomo Mora, ingiustamente torturato e condannato a morte come untore, durante la pestilenza del 1630.
E’ un sollievo il pensare che se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a piacere, e non è una scusa, ma una colpa” [A. Manzoni]
Che c’è dietro questo messaggio?
La curiosità nasce spontanea: cosa è successo in quel posto?
Torniamo indietro di qualche secolo per rievocare i fatti di cronaca nera dell’epoca ….
Siamo nell’Anno del Signore 1630, in piena dominazione spagnola, anno tristemente famoso a Milano, per il dilagare di una terribile pestilenza, che ha letteralmente decimato la popolazione.
Una storia raccapricciante
(n.p. – Ecco cosa significhi trovarsi nel posto sbagliato, al momento sbagliato!)
21 Giugno 1630 (venerdì): A Milano, nonostante sia il primo giorno d’estate, di prima mattina piove, la giornata si preannuncia molto grigia; nei vicoli stretti è ancora buio e grosse nubi si addensano in cielo. Tempo a parte, il clima in città è molto pesante … la preoccupazione per diffusione della peste è palpabile … non si sa che cosa provochi il contagio … il caldo comincia a farsi sentire .. le vittime si contano già a centinaia, se non a migliaia … la psicosi dilaga rapidamente fra la gente e basta un gesto qualsiasi, interpretato come anomalo, per far scatenare l’allarme fra i più diffidenti, nella convinzione che qualcuno, intenzionalmente, stia spargendo il contagio in città. Per ironia della sorte, proprio quel venerdì molti muri, porte e catenacci delle case del quartiere erano stati trovati effettivamente imbrattati con una sostanza di natura sconosciuta, fatto questo che aveva causato grande preoccupazione in una popolazione già provata dalla sempre crescente gravità della pestilenza.
Un tipo sospetto si aggira tra i vicoli
Nessuno sa come la peste si diffonda, c’è tanta ignoranza e superstizione, comunque, temendo la volontarietà di qualcuno nello spargimento del contagio, i più sospettosi, organizzano addirittura appostamenti … Ogni soggetto che passa per strada, viene analizzato nei suoi comportamenti, e se questi non sono più che normali, scatta subito l’allarme.
Ed ecco transitare, in una di quelle strette viuzze intorno al Carrobbio, un tizio incappucciato che, con passo frettoloso, rasenta il muro del vicolo appoggiandovisi con la mano, nel tentativo di evitare le pozzanghere e di proteggersi da uno scroscio di pioggia … ecco è lui l’untore, grida all’improvviso Caterina Troccazzani Rosa appostata quella mattina nel portico che attraversava la Vetra dei cittadini … sta rasentando i muri … è sicuramente lui, che infetta i muri delle case, spargendo qualche sostanza malefica!
L’arresto
La voce si sparge a macchia d’olio … i gendarmi presenti in zona, rintracciano il soggetto, e lo catturano. Il sospetto è tal Guglielmo Piazza, ex-cardatore … ora nientemeno che Commissario di Sanità, che stava andando a fare un sopralluogo … Che ci faceva lì …. e perché rasentava quel muro? E’ proprio la vedova Caterina Troccazzani, la prima accusatrice del Piazza! Lo interrogano, ma la giustificazione che fornisce, non convince! Bisogna indurlo a confessare in modo più persuasivo!
Guglielmo Piazza, interrogato, agli occhi degli inquirenti sembra reticente, non dice nulla di quello che loro vogliono, lui dica …. Hanno assoluto bisogno di un capro espiatorio … il governatore ha ordinato che, per questione di ordine pubblico, si trovi il modo per tranquillizzare il popolo… quindi, se il soggetto catturato non vuole confessare, non rimane che la tortura!
Sotto tortura … fa un nome
Sottoposto alle peggiori sevizie nella Torre dell’orrore, (Torre dei Malsani) lì vicino, il poveretto, dopo sofferenze indicibili, finisce con l’ammettere qualcosa, … parla di un unguento. Per non continuare a soffrire … alla fine, come suggeriscono gli stessi aguzzini, confessa di essere lui l’untore e di aver imbrattato lui i muri del quartiere. Sempre sotto tortura, gli chiedono chi siano i suoi complici. Lui fa il nome di un barbiere, un certo Gian Giacomo Mora, che conosceva per motivi di lavoro, come colui che gli ha fornito l’unguento letale.
Chi è questo presunto complice?
Forti della confessione piena, estorta con la tortura, il 26 Giugno 1630, il Presidente della sanità, assieme al notaio ed una opportuna scorta armata, si presentarono nella bottega di barbiere di Gian Giacomo Mora, in quel momento in compagnia del figlio, Paolo Gerolamo, intento a sbrigare le proprie faccende. Lui abitava lì, con la sua famiglia. La casa, non di sua proprietà, era dov’è ora l’edificio moderno con portico e la scultura di cui sopra. Al pianterreno, aveva la sua bottega, al primo piano, l’abitazione.
A quei tempi, i barbieri, non facevano solo barba e capelli, come oggi, ma si prestavano pure a fare delle piccole operazioni chirurgiche. Non essendo esperti di medicina, ma solo di rasoio, lavoravano spesso a stretto contatto con i Commissari di Sanità.
E così, pure Gian Giacomo Mora collaborava con i Commissari…. Lui, in particolare, sempre con il loro consenso, per sua disgrazia, aveva deciso di arrotondare i suoi magri guadagni, producendo pure un unguento da lui stesso inventato, che, si riteneva, avrebbe dovuto proteggere dal contagio. In pratica, questo unguento salvavita non faceva assolutamente nulla, ed era perfettamente innocuo. Tanti, più per psicosi che per altro, in effetti, lo acquistarono, sperando di riuscire a salvarsi dall’epidemia. Fra questi, lo comperò anche lo stesso Guglielmo Piazza che, per la sua particolare posizione di Commissario di Sanità, si riteneva fra i più esposti al contagio. Ecco come e perchè il Piazza aveva conosciuto quarantatreenne barbiere Gian Giacomo Mora!
Prendono anche lui e lo arrestano
I gendarmi della scorta del Presidente della sanità, conducono Gian Giacomo Mora, al posto di polizia più vicino. ‘per informazioni’. Lui. non comprende … non sospetta nulla … sa di non aver fatto nulla di male … è assolutamente ignaro di cosa gli sarebbe accaduto di lì, a breve. Gli chiedono del Piazza, se lo conosce … Dopo un breve interrogatorio, il discorso ricade sull’unguento salvavita … lo accusano di essere un untore … Dapprima nega decisamente ogni accusa … poi, per convincerlo a dire tutta la verità, lo portano alla Torre dei Malsani e lo sottopongono a trattamento di favore (tortura). I dolori sono lancinanti, la sua risolutezza comincia a vacillare e, sperando di aver salva la vita, dopo infinite reticenze, ammette quello che loro si aspettano, lui confessi … di essere, pure lui, un untore.
Le prove sono più che evidenti …
Nel frattempo, gli perquisiscono la casa: sequestrano una gran quantità di sostanze e pozioni. Tutto viene requisito e diligentemente annotato dal notaio presente. E’ però nel cortile interno della casa, che fanno la scoperta più interessante: in un angolo un poco nascosto, c’era un grosso pentolone dimenticato al sole, dentro al quale marciva “un aqua, in fondo alla quale vi è un’istessa materia viscosa e bianca, e gialla”
E’ fatta! … sicuramente è questa traccia nel pentolone, la prova lampante dell’unguento incriminato, che semina la peste in città ,,,, sentenziano gli inquirenti. Il caso, per loro, è chiuso. Spetta ora ai giudici, il fare giustizia!
Le accuse infamanti al processo
Ottenute le confessioni dei due e trovata “l’arma del delitto”, il processo finisce con l’essere semplicemente, una tragica formalità, magari inventando qualcosa di più (oggi la chiameremmo “fake news”), per giustificare la pena esemplare già decretata. Gian Giacomo Mora, reo confesso, viene accusato di essere un untore ed il principale responsabile dell’epidemia scoppiata in città, uomo al soldo dai francesi, pagato per appestare la città di Milano, in mano ai nemici spagnoli. Sarebbe stato lui l’ideatore di quella sorta di unguento preparato usando, (ipotizzano loro), la bava dei morti di peste. Il Commissario Guglielmo Piazza, lo avrebbe aiutato a reclamizzare il prodotto per diffondere ovunque in città, nuovi focolai d’infezione. Le accuse sono terribili ed assolutamente infamanti. La difesa, … inesistente!
La sentenza inappellabile
Nonostante la posizione del Piazza sia più debole rispetto a quella del Mora, ad entrambi viene comminata la condanna a morte al rogo, da effettuarsi in data 1 Agosto 1630. La sentenza è ovviamente inappellabile: Il rito prevede una lunga agonia per entrambi, legati, con ferri roventi alla ruota girevole, e lasciati morire lì per ore, tra indicibili sofferenze, in piazza Vetra, davanti alla folla inferocita e urlante.
I loro corpi vennero poi bruciati e le ceneri, sparse nel torrente, che fiancheggiava la piazza omonima, luogo destinato alle esecuzioni dei non nobili come loro. Non è tutto naturalmente. Bisognava cancellare, di loro, ogni traccia …
Completato l’atto di “giustizia”, nei consueti orrifici modi del secolo, per sentenza del Senato, la casa ove il Mora abitava , venne rasa al suolo. La casa, non era sua e i proprietari della stessa, non solo subirono il danno della perdita della stessa, ma anche la beffa, perché non vennero mai risarciti.
La Colonna ‘Infame’
Nello spiazzo liberato dalle macerie, venne eretta la Colonna dell’Infamia, che avrebbe ricordato per sempre a tutti di stare ben alla larga da quel luogo maledetto. Sul muro dell’edificio di fronte, fu applicata una lapide nella quale, riassunta la vicenda, furono elencate le pene comminate, nei loro particolari, perché servisse da monito a tutti i cittadini.
La lapide
La lapide qui sopra, ora conservata al Castello Sforzesco, tradotta dal latino, recita così [traduzione copiata da Storia e Storie di Milano di Guido Lopez] :
Dove si apre questo spiazzo
sorgeva un tempo la bottega di barbiere di
Gian Giacomo Mora
che, con la complicità di Guglielmo Piazza
commissario di pubblica sanità e di altri scellerati
nell’ infuriare più atroce della peste
aspergendo di qua e di là unguenti letali
procurò atroce fine a molte persone.
Entrambi giudicati nemici della patria
Il Senato decretò che
issati su un carro
e dapprima morsi con tenaglie roventi
e amputati della mano destra
avessero poi rotte le ossa con la ruota
E intrecciati alla ruota fossero trascorso sei ore, scannati
quindi inceneriti
e perché nulla restasse d’uomini così delittuosi
stabilì la confisca dei beni
e ceneri disperse nel fiume.
A perenne memoria dei fatti lo stesso Senato comandò
che questa casa , officina del delitto
venisse rasa al suolo
con divieto di mai ricostruirla
e che si ergesse una colonna da chiamarsi infame.
Gira al largo di qua buon cittadino
se non vuoi che da questo triste suolo infame
essere contaminato.
1630 alle Calende di agosto
Rimane il mistero del perchè si sia contattato addirittura un latinista per far scrivere tale racconto così lungo e dettagliato su una lapide che mai nessuno, fra il popolo, sarebbe stato in grado di leggere e capire. Le ultime quattro righe poi, vorrebbero essere un monito per i cittadini, quasi un prendersi beffe di loro, sapendo benissimo che più il discorso è fumoso, più facilmente si presta a diverse interpretazioni. Cui prodest?
La rimozione della Colonna Infame
La colonna rimase al suo posto per 140 anni … alla fine qualcuno si accorse di lei … e si comiciò a parlare di rimuoverla ….Non fu una cosa semplice la rimozione di quel simbolo d’ingiustizia.
Milano, dal 1713. era passata sotto dominazione austriaca. La cosa accadde in modo piuttosto singolare …. quasi per caso.
Come racconta il Bertarelli, nel 1772, il poeta meneghino Domenico Balestrieri (Cancelliere presso la Regia Camera Ducale di Milano e appartenente all’Accademia dei Trasformati), inviava a Vienna, al barone Joseph Sperges, una copia della traduzione milanese della Gerusalemme liberata, da lui appena pubblicata, nella quale si faceva accenno alla Colonna Infame milanese. La Gerusalemme del Balestrieri circolava, in quel periodo, fra gli alti personaggi della politica, sia milanese che austriaca.
Joseph Sperges apparteneva alla cerchia dei cosiddetti “Grandi di Vienna” e fu uno dei rappresentanti più importanti delle prime riforme giuseppine. Lavorò ad una riforma amministrativa per la Lombardia.
Nella lettera di ringraziamento al Balestrieri da parte dello Sperges, quest’ultimo si rammaricava della presenza in città di quel simbolo di antichi errori giudiziari, simbolo che, indubbiamente, disonorava il Senato milanese. La lettera fu girata al conte Karl Joseph von Firmian, allora Ministro Plenipotenziario e Governatore generale della Lombardia, il quale si ripromise di intervenire quanto prima.
Passarono anni prima che si riuscisse a trovare la soluzione. In effetti, la cosa non fu semplice perché il Senato si oppose fermamente a qualsiasi tentativo di rimozione della Colonna, dato che ciò sarebbe finito con l’apparire un’accusa ad una propria precedente sentenza, seppur emessa in periodi storici ben differenti. Il Senato avrebbe dovuto fare autocritica! Questo, mai!
Il braccio di ferro tra le due autorità, si risolse all’italiana, rispolverando una vecchia legge cittadina, che prevedeva il divieto di restauro, per i simboli e i monumenti d’infamia. Così, fu sufficiente danneggiare un po’ il basamento della colonna, per richiedere il suo abbattimento per motivi di sicurezza!
Nonostante la ferma opposizione del Senato, il Governatore, con un blitz, presa una squadre di muratori, fordinò che abbattessero nottetempo la Colonna Infame e ne rimuovessero le macerie. Era la notte tra il 24 e il 25 agosto 1778. Il tutto si risolse senza incidenti di sorta.
Il trasferimento della lapide
La lapide, essendo difficile da togliere senza rischiare di distruggerla, annerita dal tempo, venne lasciata lì … muta voce di una Colonna Infame, che non c’è più. Resistette altri venticinque anni, poi, nel 1803, fu staccata da quel muro e portata al Castello Sforzesco, dov’è esposta ora, sotto il portico del Cortile della Rocchetta.
Tre successive costruzioni nello stesso posto
Questo per consentire la costruzione di una nuova palazzina, che finì così per trovarsi proprio dove un tempo sorgeva l’antica bottega del barbiere, sull’angolo tra il corso di Porta Ticinese e la Vetra dei cittadini, Quest’ultima via, con decisione municipale del 17 dicembre 1868, venne ribattezzata via Gian Giacomo Mora a ricordo dello sfortunatissimo barbiere. Ben magra consolazione per chi da innocente, ha dovuto subire simile martirio, per ignoranza e superstizione altrui
A causa dei bombardamenti del 43, pure questa palazzina non ebbe miglior sorte della bottega del barbiere. Venne rasa al suolo, colpita da una bomba anglo-americana, al pari di tante altre del quartiere. Al suo posto, nell’immediato dopoguerra, venne edificata una bassa e brutta costruzione, sede dapprima di un emporio di mobili e successivamente, di una rivendita di legna e carbone.
L’area è stata recentemente oggetto di demolizione e successiva costruzione dell’attuale palazzetto ad uso abitativo.
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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