La fiera di Porta Genova
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Siamo a Milano, negli anni intorno al 1880: indubbiamente non è ieri, ma nemmeno un arco di tempo così ‘remoto’, come danno ad intendere i ragazzi di oggi. Se ci pensiamo, i nostri bisnonni (o trisavoli per i più giovani), vissero proprio in quel periodo, e furono testimoni in prima persona, di diverse migliorie legate ai progressi compiuti dalla scienza e dalla tecnica, in vari campi. Mi limito solo ad elencare in successione temporale alcune importanti novità che interessarono Milano, limitatamente ai trasporti e ad esperimenti particolari che si fecero in città, proprio in quegli anni.
TRASPORTI
1876
8 luglio – Inaugurazione, alla presenza del principe Umberto di Savoia, del tramway a cavalli (ippovia) Milano-Monza della Società Anonima Omnibus. Parte dal piazzale fuori Porta Venezia. La prima corsa partirà il 10 agosto.
1877
2 maggio -E’ approvato il prolungamento della linea di tramway Milano-Monza da porta Venezia a San Babila. E’ il primo tram cge si inizia a veder circolare nel centro cittadino.
24 giugno – Viene inaugurata la linea di tramway a cavalli Milano-Saronno. La stazione di partenza viene portata dentro i bastioni, in via Cusani.
1878
6 giugno – Entra in funzione il tram a vapore Milano-Gorgonzola detto “El Gamba de legn“.
28 giugno – La tramvia a cavalli Milano-Saronno viene trasformata in tramvia a vapore (trenovia).
1879
22 marzo – Si inaugura la ferrovia Milano-Saronno e la nuova stazione su progetto Campiglio in stile chalet alpino. Il 31 dicembre successivo verrà inaugurata la Milano-Erba. Si forma così il primo nucleo delle future Ferrovie Nord (1883).
ESPERIMENTI VARI
1877
18 marzo – Primi esperimenti di illuminazione elettrica in piazza del Duomo.
26 luglio – Primo esperimento di volo dell’elicottero a vapore di Enrico Forlanini. Il collaudo ha luogo presso il Teatro alla Scala.
30 dicembre – Primi esperimenti telefonici a Milano. Il “telegrafo parlante” dei fratelli Gerosa mette in comunicazione la stazione dei pompieri di Palazzo Marino con la stazione della Società Omnibus di porta Venezia.
A guardarla con l’occhio di oggi, la città era sicuramente molto diversa, anche se le prime grandi opere di trasformazione erano già iniziate da qualche anno. La stessa piazza Duomo che conosciamo oggi (con esclusione dell’Arengario che è successivo (1936)), era stata appena completata. L’abbattimento del Coperto del Figini (nel 1865), e quello recentissimo del Rebecchino (ottobre 1875), avevano dato respiro alla facciata del Duomo e la costruzione dei Portici Settentrionali, di quelli Meridionali, e della Galleria Vittorio Emanuele, inaugurata da solo tre anni, ne avevano completato la cornice (anche se mancava ancora il monumento al re Vittorio Emanuele II in mezzo alla piazza).
Nel 1880, vi erano ancora le possenti mura spagnole che cingevano l’intera città; era anche ancora scoperta la fossa interna dei Navigli che, con i suoi numerosi ponti e canali, la rendevano simile a Venezia.
Di sera e di notte poi, era spaventosamente buia … con le poche strade del centro, intorno al Duomo, illuminate solo dalle flebili fiammelle dei lampioni a gas … per il resto, in assenza dell’auspicabile chiarore di sorella Luna, buio totale! Tutto ciò pare davvero incredibile, se si pensa che la città si presentava proprio così, solo 143 anni fa! Per uscire a piedi di sera o di notte, a parte il pericolo di incontri poco piacevoli, era indispensabile tenere in mano una lanterna per fare un minimo di luce davanti a sé e vedere dove mettere i piedi, per non rischiare d’inciampare sugli scalini di qualche ponte. Non oso pensare, in presenza di forte nebbia, il rischio di finire inavvertitamente in qualche canale! Indubbiamente, ripensandoci, da allora, grazie alla magia dell’elettricità, che ci ha cambiato letteralmente la vita, se ne è fatta di strada, da allora! E tutto questo cambiamento così radicale, anche nella modifica delle stesse abitudini della gente, sarebbe cominciato proprio a partire dai primi anni di quell’incredibile decennio (a partire in particolare, dal 1883 in poi, in seguito all’installazione a Milano, di fianco al Duomo, della centrale di Santa Radegonda, prima centrale termo-elettrica dell’Europa continentale) che consentì d’illuminare per la prima volta, il 26 dicembre di quell’anno, il Teatro alla Scala (in occasione della Prima), con un tripudio di ben 2880 lampadine!
Ndr. – In origine la Prima alla Scala, si teneva per tradizione il giorno di Santo Stefano, il 26 dicembre.
NOTA STORICO-SCIENTIFICA
Il fenomeno dell’induzione elettromagnetica, scoperto in laboratorio quasi cinquant’anni prima (nel 1831), da Michael Faraday (1791- 1867), aveva consentito allo scienziato italiano Antonio Pacinotti (1841- 1912), una trentina d’anni dopo, l’invenzione di una macchina magneto-elettrica (un prototipo di dinamo) basata proprio sul principio di Faraday, per permettere la generazione di elettricità a corrente continua.
Se in America, nel 1878, con l’invenzione della lampadina a filamento a incandescenza, Thomas Edison (1847-1931), aveva realizzato la prima applicazione pratica di questa nuova forma di energia, ed era riuscito – con la costruzione poi della prima centrale termoelettrica al mondo,(proprio usando una serie di dinamo) – a generare la corrente necessaria all’illuminazione pubblica di alcune strade di New York, qui da noi, in quegli stessi anni, sempre in chiave d’illuminazione pubblica, si stava interessando al medesimo problema, Giuseppe Colombo (1836-1921), professore di meccanica e d’ingegneria industriale dell’Istituto tecnico superiore di Milano, (il futuro Politecnico).
Alla data del 1880 quindi, la gente comune, abituata ad illuminare gli ambienti delle proprie case con le candele, col gas, o con il lume a petrolio, non aveva ancora idea di cosa fosse realmente questa ‘corrente elettrica’: in compenso, su questo tema, vi era un gran parlare, di prove e di esperimenti vari che si stavano conducendo proprio qui da noi, in quel periodo.
Allora, come del resto accade anche oggi per tutte le novità in campo scientifico, la gente, a digiuno di conoscenze specifiche in materia, apprendeva tali notizie dalle recensioni dei giornali, senza in realtà capire bene di cosa si trattasse realmente e quali potessero essere le reali implicazioni di quegli studi. Poiché la luce, era finora vista come frutto della combustione di olio o di gas illuminante, questa nuova forma di energia, presentata con uno slogan del tipo ‘non si vede, ma si sente‘, colpiva l’immaginazione popolare e indubbiamente incuriosiva moltissimo.
La fiera di Porta Genova
A scanso di equivoci, per chi non conosce Milano, Porta Genova oggi, è un quartiere della città, il cui nome deriva proprio da quello di una delle cinque più recenti porte, ricavate nel corso del XIX secolo, lungo la cerchia dei Bastioni spagnoli, oggi demoliti. La Porta Genova venne aperta intorno al 1870, per consentire una comunicazione diretta fra il centro città e la nuova stazione ferroviaria di Porta Ticinese, scalo questo, rinominato poi, a partire dal 1923, come stazione di Porta Genova. Posta a sud-ovest della città, questa Porta durò in effetti, molto poco. Con la decisione di dare attuazione al piano Beruto approvato nel 1889, che prevedeva l’abbattimento delle mura spagnole, assieme ai Bastioni, anche questa Porta, a pochi anni di distanza dalla sua costruzione, venne demolita, Tuttavia oggi, al centro di piazza Cantore, ove essa sorgeva, si conservano ancora i due caselli daziari (costruiti fra il 1873 e il 1876), muti testimoni di quel varco, che sorgeva allo sbocco di corso Genova.
Ritornando al 1880, proprio quell’anno, l’Amministrazione Comunale aveva inaugurato in città, la fiera di Porta Genova, sorta in una vasta area, allora relativamente poco abitata, a ridosso dei Bastioni, vicino alla Darsena, nella zona compresa fra Porta Ticinese e la nuova Porta Genova.
A dire il vero, era nata inizialmente proprio come ‘fiera‘, intesa come esposizione enologica di vari produttori viti-vinicoli di Lombardia e, in particolare, della Franciacorta e dell’Oltre-Po pavese. Poi, per attirare la gente, specialmente in periodo di Carnevale, aveva assunto più carattere di parco di divertimenti che non di fiera. Pur permanendo l’esposizione viti-vinicola, si organizzavano in tutta quella vasta area, spettacoli all’aperto, balli e varie pesche di beneficenza, i cui proventi andavano devoluti alle pie opere assistenziali locali. Vi erano anche delle giostre e tanta musica dal vivo, assumendo quasi i connotati di un moderno Luna Park. A quella fiera, erano i personaggi a fare principalmente lo spettacolo senza nulla togliere o voler fare concorrenza alle varie giostre. C’erano artisti ambulanti che si esibivano nelle loro baracche, funamboli, mangia-spade, mangiafuoco, spezza-catene, acrobati. Sia per i vari divertimenti che lì era possibile trovare, che per le opportunità di svago offerte al pubblico, questa fiera fu subito eletta come luogo di ritrovo preferito da famiglie e dalle nuove generazioni.
Vi erano artisti di strada che, in cambio di qualche soldo, facevano spettacoli improvvisati, oltre a prestigiatori, giocolieri e maghi per incantare grandi e piccini. Naturalmente era pure luogo di ristoro con diversi chioschi di degustazione della produzione regionale di vini, salumi e formaggi locali di ogni tipo. C’era poi, tutt’intorno, un fiorire di ambulanti che smerciavano di tutto, di bancarelle con esposizioni di caramelle, dolciumi regionali, torroni di Cremona e croccantini di ogni genere e foggia, di imbonitori vari che richiamando la gente con frasi ad effetto, e decantando i pregi della propria merce, tentavano d’invogliare il pubblico a fermarsi e ad acquistare i loro prodotti. Per non parlare infine degli immancabili firunatt (i famosi venditori dei marroni di Cuneo, che, presenti a tutte le manifestazioni, si aggiravano fra la gente, proponendo a tutti le lunghe collane di castagne, che portavano intorno al collo.
Quella micidiale macchinetta …
Fra i tanti chioschi, ve n’era uno in particolare, con un grande striscione da un capo all’altro della postazione, messo lì, a bella posta, per attirare l’attenzione soprattutto dei più giovani. L’ambulante che lo gestiva, decisamente sveglio, ma soprattutto furbo, aveva trovato, con quell”espediente, il sistema per attirare il pubblico al suo chiosco e fare soldi, giocando, con un po’ di malizia ed anche un pizzico di sadismo, sull’ignoranza della gente e facendo leva sulla sua curiosità. Il tema era attualissimo, l’elettricità, questa sconosciuta, che, proprio perché novità in quegli anni, affascinava enormemente tutti e i giovani in particolare. Poiché ancora da noi le lampadine ad incandescenza non esistevano, come dimostrare al pubblico l’esistenza di corrente in un circuito? Il modo migliore per far percepire ai presenti, la reale esistenza dell’elettricità – che lui generava manualmente, girando più o meno velocemente una manovella in una macchinetta – , era quella di far loro provare, naturalmente a pagamento, la delizia di una scossa elettrica! Del resto, lui lo aveva anche scritto chiaro su quello striscione: ‘non si vede, ma si sente’: non accettava rimostranze, poiché quello era un messaggio più che eloquente, …. a buon intenditor, poche parole!
Davanti a quel chiosco, c’era infatti sempre una gran ressa di interessati all’argomento, tutti desiderosi di soddisfare la propria curiosità, sperimentando, in prima persona, la sensazione di ‘toccar con mano‘ questa forma di energia. Chi avesse voluto ‘provare’ questa fantomatica corrente, al modico prezzo di qualche soldo, bastava appoggiasse la propria mano sul dispositivo, per sentirsi ‘elettrizzato’! Esperimento questo, che non sempre si limitava unicamente alla spiacevole sensazione di prendersi una scossa d’intensità più o meno forte.(in funzione della velocità con cui l’ambulante ruotava la manovella. Spesso, infatti, si sconfinava cinicamente nel masochismo vero e proprio, in una sorta di stupida gara all’ultimo sangue!
Fra i giovani, allora come oggi, c’era chi amava fare il ‘bellimbusto‘ con gli amici, soprattutto in presenza delle ragazze che maggiormente gli interessavano. La convinzione dei ‘bulli‘ era che le loro ‘quotazioni‘. sarebbero sicuramente salite agli occhi delle ragazze, se avessero dimostrato loro, di essere dei veri ‘duri‘. La loro tecnica per tentare di ‘rubare‘ la donna dell’amico, consisteva quindi nel provare a sfidarlo (davanti a lei) a quella micidiale macchinetta, per vedere chi dei due avesse la maggior resistenza di sopportazione ‘in una pericolosa gara all’ultimo volt‘! Il tentare di ‘restare attaccati alla corrente’, il più a lungo possibile, era ovviamente solo pane per quanti, dimostrando agli amici le proprie capacità di sopportazione del dolore, ambivano ad essere da loro riconosciuti come leader del branco. Oggi, che noi tutti, per aver toccato inavvertitamente dei fili elettrici, sappiamo perfettamente quanto delizioso sia il prendersi una scossa, viene da sorridere alla stupidità dell’idea di una gara simile, prova che, fra l’altro, poteva essere anche piuttosto rischiosa.
Anni più tardi, passata la novità dell’elettricità, e della famosa scossa alla quale nessuno pareva volesse rinunciare, quello stesso chiosco continuò ad essere frequentato, essenzialmente da quanti, cimentandosi con gli amici della stessa risma, in estenuanti ‘prova di resistenza’, erano probabilmente convinti che, agendo in tal modo, avrebbero potuto accrescere la propria autostima.
El Pacciasass
Altro motivo d’attrazione dell’epoca, sempre lì a quella fiera, era il “pacciasass”, (il mangia sassi). Si trattava di un fachiro, un omino che, mostrando al pubblico un piatto pieno di pietre, si guadagnava da vivere, ingoiando sassi, fra l’incitamento e gli applausi degli astanti e lo stupore di quanti restavano attoniti a guardare quello che faceva.
Pure le Adriadi
Come si vede dalla foto qui sotto, frequentatissimo era pure il baraccone dei girovaghi de “Le Adriade viventi dell’Equatore” ….
Ndr. – Le Driadi (o Adriadi) erano all’inizio, propriamente le ninfe dei faggi, come rivela il loro nome (dryas, faggio), anche se in seguito, il termine fu utilizzato per indicare tutte le ninfe degli alberi.
In generale quindi, con questo termine, si indicavano le ninfe che vivevano nei boschi, incarnandone la forza e il rigoglio vegetativo.
Ma le ninfe che lì si potevano ‘ammirare‘, non erano esattamente le ‘ragazze da schianto‘, che ci s’immaginava o si sperava venissero esibite! Tutt’altro!
A quanto pare, confidando nell’ignoranza dei presenti, al costo di 10 centesimi di lira a persona, venivano mostrate in pubblico ragazze deformi o con gravi malformazioni congenite. Presentate dai proprietari di questi chioschi, come ‘scherzi della natura‘, o ‘fenomeni da baraccone‘, diventavano oggetto di morbosa curiosità, di forti emozioni o di sgomenta meraviglia.
Era un po’ l’equivalente di quanto accadeva, poco più avanti, al piccolo circo equestre, ove, negli intervalli fra le varie esibizioni di cavalieri e trapezisti, venivano mandati in pista i nani, per destare meraviglia fra i bambini oppure venivano esibiti a sorpresa, il gigante, la donna o l’uomo cannone, quali elementi ‘diversi‘, per creare nel pubblico, sensi di stupore. Questo tipo di esibizioni pubbliche non era solo in voga qui da noi, ma anche all’estero.
NOTA
Celebre il caso di Frank Lentini, un siciliano, quinto di dodici figli di una coppia di braccianti agricoli, nato a Rosolini nel 1889, con tre gambe e doppi organi genitali.
All’età di 4 mesi. gli fecero le prime visite specialistiche a Napoli, mentre a 5 anni incominciò a uscire di casa, ma pur stendendo la terza gamba, non poteva usarla per camminare. cosa questa che lo rendeva infelice. La madre gli cuciva pantaloni ad hoc e commissionava «o scarparu» (calzolaio) tre scarpe; imparò a stare seduto e a dormire mettendo la sua terza gamba sul busto; quando la terza gamba non poggiò più a terra, optò per legarla alla vita. Poiché tutti volevano vederlo, fu esibito in tante città e poi nel 1897 a Londra. Nel 1898, il titolare di uno spettacolo dei pupi, lo fece emigrare assieme ai genitori e ai fratelli in America, a Middletown, dove si esibì nel circo Ringling Bros, calciando palloni al pubblico. Nel 1906 debuttò con il circo Barnum al Madison Square Garden di New York. Girò diverse volte gli Usa e l’Europa. Nel 1907, a 18 anni, sposò Theresa Murray dalla quale ebbe quattro figli normali. Morì a Jackson (Tennessee), nel 1966, all’età di 77 anni, mentre era in tournée.
Ndr. – Viene da domandarsi quanto fossero morali esibizioni del genere e come mai fossero seguite così assiduamente dal pubblico. Era un modo come un altro, per carpire l’attenzione della gente su qualcosa di inatteso. Probabilmente, per gli spettatori, la visione della deformità fisica di questi “fenomeni umani” agiva quale potente ed efficace meccanismo di rassicurazione della propria identità (di appartenenza alla normalità). La curiosità di fronte al grottesco, essendo percepita come mostruosità (quale volto oscuro della realtà), provocava sicuramente delle emozione molto intense.
L’otto volante
Per intrattenere la gente infine, oltre alle classiche degustazioni di vini, salami e formaggi, c’erano musica, giochi vari e giostre per grandi e piccini. Indubbiamente però, l’attrattiva maggiore era rappresentata da un grandioso ottovolante che, da solo, richiamava, a frotte, i giovani ansiosi di scaricare l’adrenalina in corpo, su quei vagoncini lanciati su rotaia a folle velocità.
El ‘casin de Meneghin e Cecca‘
Nel 1896, il circolo fotografico di via Principe Umberto (attualmente via Turati), aveva invitato un ospite illustre, uno dei fratelli Lumière a presentare in Italia la sua ultima invenzione, un apparecchio non solo capace di fare riprese, ma pure di proiettare su uno schermo, le immagini impresse sulla pellicola (le cinématographe).
Presente in sala, quel giorno, c’era Italo Pacchioni (1872-1940), un fotografo autodidatta che, era già stato a Parigi l’anno precedente, in occasione della presentazione ufficiale del nuovissimo cinématographe dei fratelli transalpini. La cosa lo aveva colpito molto, al punto che aveva tentato in tutti i modi di acquistarlo e portarselo in Italia, senza però riuscirvi. D’altra parte, avendo i Lumière, brevettata la loro invenzione, vigeva l’assoluto divieto alla vendita o all’affitto di quel prezioso strumento, in assenza della loro preventiva autorizzazione.
Ascoltata nuovamente a Milano la presentazione del francese, decise di riprodurre in casa l’invenzione dei fratelli Lumière, facendosi aiutare nell’opera sia dal fratello Enrico, che da un meccanico suo amico (tale Veronelli). [ Ndr . – Pensiamo oggi, cosa vorrebbe dire, costruire un apparecchio del genere, solo guardandolo da lontano! ]
A parte l’ottica e qualche altro pezzo, che si era fatto mandare da Parigi, tutto il resto era esclusiva opera del suo genio: riuscì perfettamente nell’impresa, in pochi mesi di lavoro e di studio, creando un apparecchio con funzioni sia di ripresa, che di proiezione (molto simile. in questo, al cinématographe dei francesi), strumento con il quale, cominciò a girare i suoi primi filmati. La sua macchina è conservata oggi nel Museo del Cinema della Cineteca Italiana di Milano, città dove il fotografo aprì il suo studio fotografico in Corso Genova n. 20.
Vero pioniere della cinematografia italiana, è ancora oggi, qui da noi, praticamente sconosciuto: il motivo? Fu praticamente una meteora che durò solo pochi anni.
Fu proprio la fiera di Porta Genova del 1898, l’occasione migliore per farsi conoscere dal pubblico. Italo Pacchioni e altri due soci (Rinaldi e Ronzoni), grazie al finanziamento di un facoltoso ortolano della zona, e all’aiuto tecnico di un amico scenografo della Scala, fecero costruire, all’angolo tra Piazza Cantore e Via Cicco Simonetta, un baraccone con torretta panoramica, che diventò, nel giro di pochissimo, una delle attrazioni più stravaganti e gettonate dell’intera fiera: primo cinema della città, i milanesi lo battezzarono subito “El casin de Meneghin e Cecca”, nomi questi, che facevano riferimento alle due principali maschere milanesi della commedia dell’arte.
Pacchioni si propose al pubblico milanese proiettando con questo suo apparecchio, le immagini della città, da lui stesso precedentemente filmate: si trattava di brevissimi spezzoni di vita quotidiana, come l’arrivo di un treno alla stazione di Milano, un ballo in famiglia, una battaglia a palle di neve, le gabbie dei matti ecc., diventando così, il primo grande concorrente dei Film Lumière.
Il locale, pomposamente chiamato ‘Cinematografo‘, onestamente, assomigliava ben poco ai cinematografi che conosciamo oggi. Aveva una capienza di massimo 350 persone rigorosamente in piedi. All’epoca, non erano previste panche, sedie, poltroncine o comunque posti a sedere: non erano assolutamente necessari, vista la breve durata delle proiezioni.
Il primo film, col quale pare, abbia debuttato il Pacchioni alla Fiera di Porta Genova, fu una sua produzione del 1896, avente per titolo ‘il finto storpio al Castello Sforzesco‘; la sua durata complessiva era di 42 secondi! La cosa non deve meravigliare se si considera che la durata del filmato è funzione della lunghezza della pellicola (intesa come supporto), mezzo questo, indispensabile per qualsiasi ripresa. Essendo molto improbabile che la pellicola stessa potesse essere importata dalla Francia (per questioni di segreto di fabbricazione), si deve presumere che fosse prodotta in Italia. La sua lunghezza, per lo meno all’inizio, non superava comunque i 3 metri. Per questo motivo probabilmente, questo è uno dei più brevi cortometraggi nella storia del cinema! Il fatto poi, che le cronache del tempo riportassero che “Il Reale Cinematografo, che i signori Rinaldi, Pacchioni e Ronzoni presentano alla Fiera di Porta Genova, è provvisto di veri Films Lumière“, indurrebbe a ritenere che l’apparecchio del Pacchioni fosse in grado di proiettare oltre alle proprie, anche le pellicole francesi e che quindi la perforazione per il trascinamento delle stesse (sia italiane che francesi) fosse molto simile.
L’illuminazione della proiezione era effettuata mediante un ‘saturatore ossieterico’: l’ossigeno era racchiuso in una specie di saccone avente forma di mantice. la stereoscopia, ottenuta mediante il passaggio di due pellicole l’una a poca distanza dall’altra, fu un’idea del Pacchioni.
Ndr. – La stereoscopia è una tecnica di realizzazione e visione di immagini, disegni, fotografie e filmati, atta a trasmettere una illusione di tridimensionalità, analoga a quella generata dalla visione binoculare del sistema visivo umano.
Si era evidentemente ai primordi. Non esisteva ancora il concetto di film con una certa trama, come avviene oggi! Era già uno spettacolo il vedere delle immagini in movimento! Se poi queste erano anche buffe, meglio, la risata era garantita! Ogni spettacolo, pare consistesse nella proiezione da un minimo di dieci, a quindici o addirittura a venti film, a seconda del numero di spettatori presenti. Era in pratica un accostamento di tanti spezzoni brevissimi, totalmente scombinati l’uno dall’altro, senza alcun nesso logico che li unisse. Ovviamente trattandosi di film muti, la cosa risultava abbastanza stucchevole. A quanto pare, tentativi di accompagnamento sonoro, essendo totalmente slegati dal soggetto rappresentato, non ebbero grande successo. La cosa che oggi suona indubbiamente spassosa è che, durante lo spettacolo, non esistendo ancora le didascalie, compito del manovratore (al proiettore), era quello di ‘gridare’ al pubblico in sala, attraverso un finestrino praticato in cabina di regia, i titoli dei filmati, che man mano lui presentava.
Fra le varie opere del Pacchioni, due meritano particolare menzione, trattandosi di fatti di cronaca vissuta: la ripresa dei funerali di re Umberto I nel 1900 e quella analoga del trasferimento della salma di Giuseppe Verdi e della moglie Giuseppina Strepponi dal Cimitero Monumentale di Milano, alla Cripta di Casa Verdi in piazza Buonarroti, nel 1901.
A quanto pare però, il Pacchioni, nonostante il suo cinema fosse un polo d’attrazione notevole data la novità, non seppe sfruttare economicamente a proprio vantaggio questa sua, pur lodevole iniziativa, per cui, esauriti i finanziamenti, già dal 1902, fu costretto a chiudere il suo cinematografo e a tornare a fare il suo vecchio lavoro di fotografo nello studio di Corso Genova.
La fiera di Porta Genova proseguì sino agli inizi degli anni Quaranta del secolo scorso. Alla ripresa dell’attività nell’immediato dopoguerra, aveva ormai perso lo smalto e l’originalità dei tempi d’oro. Quando poi la gente delle case sorte, negli anni, tutt’intorno, a ridosso della fiera, cominciò a lamentarsi per l’eccessivo festoso baccano che disturbava la quiete pubblica la sera, fino a tarda ora, l’Amministrazione Comunale, accolte le rimostranze dei cittadini, decise di trasferire quel che restava di quella fiera, al Parco Sempione, vicino all’Arena Civica.
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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