La Repubblica Ambrosiana
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Tra la fine della dinastia dei Visconti (1272-1447), e l’inizio di quella degli Sforza (1450-1535), vi è un ‘buco’ di quasi tre anni, di cui la storia fa incredibilmente solo un rapido accenno, sorvolando su un periodo che meriterebbe maggiore attenzione. Furono certamente anni difficili, confusi, cruenti, in cui i milanesi, stufi delle secolari tirannie subite fino ad allora da parte dei signori di Massino, (località strategica sulle alture occidentali del lago Maggiore da cui provenivano i Visconti), tentarono un esperimento civico, che li vide cimentarsi nell’esercizio di un sistema di autogoverno popolare, destinato presto a fallire. È opinione diffusa di storici importanti che se tale esperimento avesse avuto successo, con tutta probabilità l’unificazione dell’Italia sarebbe avvenuta molto prima dei tempi che poi effettivamente occorsero per realizzarla e soprattutto, molto prima dell’unificazione di altre importanti potenze europee.
La Repubblica Ambrosiana è un periodo storico sottovalutato, per non dire quasi ignorato, sia dai testi di storia, che dagli stessi milanesi. Il triennio 1447-1450 della storia di Milano, meriterebbe una trattazione ben più appropriata di quella riservata fino ad oggi.
13 agosto 1447 – La fine della dinastia dei Visconti
La morte del Duca
Il Duca Filippo Maria (1391-1447), si era spento la sera del 13 agosto 1447. L’annuncio della sua morte, corse fulmineo per Milano, il mattino successivo. Gli ultimi tempi, i familiari avevano cercato di tenere nascosta la notizia dell’aggravamento del suo stato di salute.
Si era a conoscenza di acciacchi che, da molto tempo, tormentavano il Duca, disturbi gastrici cronici e un aggravamento di una malattia agli occhi che, da anni gli impediva di leggere, al punto da diventare quasi cieco. Filippo Maria inoltre aveva la gotta ed era poi in enorme sovrappeso, e si muoveva a stento fra il Castello di Abbiate (Abbiategrasso – dove andava a trovare la sua amante Agnese del Maino) e quello di Porta Giovia (la residenza che condivideva con la seconda moglie Maria di Savoia, vessata e tenuta da parte dal marito).
Era rientrato a Milano ai primi di agosto: il giorno 6, si era messo a letto febbricitante. Dopo un consulto, i luminari giunti al suo capezzale, avevano sentenziato un non meglio giustificato ‘flusso‘, male oscuro, che consigliavano di combattere, cambiando dieta alimentare, abbandonando cioè le uova e il vino (rimedi questi, che, a loro dire,, sarebbero stati sicuramente risolutivi [ndr. – in un senso o nell’altro]), Infatti, nemmeno una settimana dopo, morì!
Giustificarono la sua morte, asserendo che il paziente non aveva eseguito scrupolosamente i loro suggerimenti, rifiutandosi di fare le cure che gli avevano prescritto ed i salassi che gli avevano consigliato!
Con la sua dipartita, non lasciando eredi diretti, si estingueva la discendenza maschile dei Visconti.
Il problema del mancato testamento
Gli ultimi anni, afflitto da paranoie, non essendo più interessato a governare, il Duca non si era preoccupato di stilare le sue ultime disposizioni testamentarie, riguardo il problema della successione alla guida del Ducato di Milano, lasciando così aperta la questione. Con una punta di mal celato sadismo, l’idea che dopo di lui, altri si sarebbero scannati fra loro per la conquista del potere, non gli dispiaceva affatto. “Dopo di me, tutto avesse a rovinare!“, era questa la sua risposta a chi, preoccupato del ‘dopo’, timidamente gli rivolgeva domande al riguardo. Risposta profetica, che fece immediatamente scatenare la corsa alla successione, esattamente all’indomani della sua morte.
La mancanza di un testamento era effettivamente un problema serio perché, in realtà, erano diversi coloro che potevano avere titolo a succedergli:
- Ludovico di Savoia, suo cognato, fratello della duchessa Maria di Savoia (1411-1469), seconda moglie di Filippo Maria.
- Francesco Sforza (1401-1466), suo genero, marito di Bianca Maria, l’unica figlia (naturale) del Duca.
- Alfonso d’Aragona (1394-1458), re di Napoli, che asseriva che il defunto Duca avesse scritto, nel suo ultimo periodo di vita, un testamento a suo favore, in cambio di un aiuto militare da lui prestato contro i veneziani.
Risalendo indietro nel tempo, vi era un’importante clausola trovata scritta nel testamento di suo padre Gian Galeazzo Visconti (primo Duca di Milano, morto di peste nel 1402) da applicare a tutti i suoi discendenti, al fine di garantire comunque una successione dei Visconti nel Ducato. Questi, con notevole lungimiranza, in punto di morte, aveva disposto che, qualora fosse venuta meno la discendenza maschile, (e questo era proprio il caso), la linea di successione dovesse essere quella della figlia Valentina (avuta dalla sua prima moglie, Isabella di Valois), o dei suoi eredi. Ma Valentina, sorella di Filippo Maria, era già defunta da tempo (nel 1408) e quindi la guida del Ducato, sarebbe dovuta spettare, di diritto, a suo figlio:
- Carlo d’Orléans, (1394-1465), figlio di Valentina Visconti e di Luigi d’Orléans
Vi erano poi alcuni validissimi giuristi, fra i quali Andrea Piccolomini, che sostenevano che, in assenza di eredi diretti, il titolo di Duca, andasse rimesso nuovamente all’imperatore del Sacro Romano Impero (in questo caso a Federico III d’Asburgo).
La fine del Duca, fu comunque salutata dai milanesi come una vera liberazione dalla secolare tirannia viscontea, capace solo. per soddisfare la sua sete di potere, di procurare continue guerre, oberando la gente di nuove tasse per sostenerle, e creando al popolo, unicamente lutti, dolori e infinite privazioni.
Il saccheggio del Castello do Porta Giovia
Già al mattino successivo, poche ore dopo la morte del Visconti, dopo che la sua salma era stata portata in Duomo con un breve, concitato corteo, i milanesi affluiti in centro dai vari sestieri, dettero l’assalto al Castello di Porta Giovia, devastandolo e saccheggiandolo. Il tutto avvenne con pochissimo spargimento di sangue, anche perché diversi cortigiani, per sfuggire al caldo ferragostano, si erano ritirati quei giorni nelle loro residenze brianzole, mentre altri, captato da indiscrezioni, che sarebbe potuto accadere quanto poi effettivamente accadde, erano corsi ai ripari, mettendosi al sicuro, lontano dalla città.
14 agosto 1447 – La proclamazione della Repubblica Ambrosiana
Così, in seguito all’improvviso vuoto di potere creatosi con la morte di Filippo Maria, alcuni nobili milanesi e giuristi dell’Università di Pavia, fra cui Antonio Trivulzio, Giorgio Lampugnani, Teodoro Bossi, Innocenzo Cotta, Bartolomeo Morrone ed altri, il 14 agosto stesso, dopo aver capeggiato la devastazione al castello, convocarono il popolo all’Arengo, presso la Corte Ducale.
Ndr. – Col termine ‘popolo’, qui s’intende fare riferimento ai funzionari governativi, agli ufficiali del Comune, ai notabili dei collegi dei notai, degli avvocati, dei medici, dei banchieri etc. cioè alla gente che conta.
In questa sede, la presunta inesistenza di un testamento del Duca, fu contestata da Francesco Landriano e Boccardo Persico, vecchi condottieri del defunto Filippo Maria. Costoro produssero, a mo’ di testamento, un codicillo (giudicato poi senza valore), che, a loro dire, sarebbe stato recentemente scritto dal Visconti, all’indirizzo del re di Napoli, Alfonso d’Aragona, nel quale il Duca prometteva di costituirlo suo erede, e successore alla guida del Ducato, se gli avesse inviato l’aiuto richiesto. Pare che negli ultimi tempi, Filippo Maria usasse questa tecnica, per convincere quanti, potendogli offrire l’aiuto richiesto, tergiversavano nel concederglielo. In effetti il re, allettato dall’idea di accaparrarsi il Ducato senza colpo ferire, gli aveva inviato a Milano, come richiesto, uno dei suoi condottieri, tale Raimondo Boile, con un piccolo contingente napoletano, per aiutarlo a contrastare le mire di egemonia di Venezia, l’eterno nemico dei Visconti. Boile si era da poco insediato con i suoi sia al Castello di Porta Giovia, che alla Rocchetta di Porta Romana.
Ma il popolo milanese, che aveva ben altre mire, non volendo saperne di passare sotto il dominio del re di Napoli, ricusò questo testamento, stilato senza le garanzie di validità (presenza di notai in qualità di testimoni) previste nella stesura di simili documenti.
Durante l’assemblea all’Arengo, tutti i convenuti si trovarono concordi nel rifiutare l’dea di un nuovo Duca e di voler provare l’esperienza dell’auto governo repubblicano ispirato ai tempi del libero Comune (quello dei tempi dell’età Comunale). La parentesi della Signoria dei Visconti (intesa come una sorta di magistratura), e quella del Ducato stesso (considerato come una sorta di sovrapposizione dell’Impero), non avevano fatto cessare, dal punto di vista giuridico, l’esistenza del vecchio Comune.
Quel 14 agosto, Francesco Sforza (Signore di Cremona), genero del Duca defunto, accompagnato dalla moglie Bianca Maria, era dalle parti di Cotignola, in provincia di Ravenna, in marcia con 2000 fanti, verso casa (Cremona). Ebbe lì la notizia della morte del suocero, grazie ad una missiva consegnatagli a mano da un messaggero inviatogli da Giovanni Guarna, il suo zelante informatore presso il castello di Porta Giovia (ove abitava il Duca): comunicandogli tale notizia, lo ragguagliava pure su quanto stava per accadere in città: ‘Sento da alcuni boni et notabili cittadini, che la dispositione di questa citade è, dopo la morte de costui, fare consiglio generale fra loro et de proponere et invocare la libertade’, scriveva allo Sforza.
‘Libertade‘, per i milanesi di allora, significava la coraggiosa proclamazione della propria autonomia (libertas) dall’Impero, che, una volta a conoscenza della morte del Visconti e della mancanza di eredi o di lasciti testamentari, avrebbe tentato finalmente di estendere il suo potere su Milano, sua spina nel fianco fin dai tempi del Barbarossa (1162)!
Difatti, proprio il 14 agosto 1447, in quell’assemblea del popolo all’Arengo, i nobili promotori di tale iniziativa, proclamarono la Repubblica Ambrosiana, anzi l’Aurea Repubblica Ambrosiana, definita pure come Communitas Libertatis Mediolani. Era in sostanza la ricostituzione del Comune autonomo, cioè del Comune Ambrosiano del XIII secolo, sotto la vecchia insegna che ancora era riportata sulle monete, cioè l’effige di Sant’Ambrogio con lo staffile, non per colpire gli eretici, bensì i nemici della città.
Ndr. – Lo staffile è una sferza costituita per lo più da una sola lunga striscia di cuoio attaccata a un manico di legno o ad altra impugnatura.
Il nuovo governo fu creato quella sera stessa, costituendo due Consigli: il primo (esecutivo), chiamato Consiglio dei Ventiquattro, composto da 24 esponenti della nobiltà cittadina, i cosiddetti “Capitani e difensori della libertà della illustre ed eccelsa città di Milano”, ed il secondo (consultivo/legislativo), chiamato Consiglio dei Novecento, composto da 150 capifamiglia per ciascuno dei sei sestieri (cioé i quartieri alle sei principali porte della città). Il tutto rappresentava un evidente richiamo all’antica età comunale.
Tenuto conto del momento delicatissimo, questi incarichi erano di grande reponsabilità. Costoro infatti dovettero immediatamente affrontare sia la continuazione della guerra da tempo in atto contro Venezia, che la difesa della libertà del Ducato, contro gli altri pretendenti alla successione.
A dire il vero, questa proclamazione da parte dei nobili, era un colpo di mano evidentemente già programmato da qualche tempo: si attendeva soltanto la morte dell Duca, per metterlo effettivamente in pratica. Qualcosa era andato comunque storto, perché pare furono colti di sorpresa, probabilmente non aspettandosi la morte così improvvisa del Duca. Fra l’urgenza del momento e la concitazione con cui l’operazione era stata condotta, i promotori della proclamazione non avevano avuto il tempo di preparare compiutamente un vero e proprio programma politico di governo ed un assetto istituzionale.
Al nuovo governo repubblicano aderirono quasi tutti i condottieri viscontei Guido Antonio Manfredi, Carlo Gonzaga. Ludovico Dal Verme, Guerra Torello ed i fratelli Sanseverino. Quanto ai napoletani invece, visto l’esiguo numero di effettivi del loro esercito, assolutamente insufficiente per poter occupare la città e tenerla a disposizione del loro sovrano, si ritirarono in buon ordine da Milano dopo essersi appropriati di 17.000 fiorini del Tesoro di Filippo Maria e aver distrutto oltre al Castello, pure la Rocchetta di Porta Romana.
La disgregazione del Ducato
Le notizie della morte del Duca e di una Milano finalmente libera, si divulgarono in un battibaleno per le città della Lombardia. Quasi ovunque nel Ducato, la proclamazione della libertà non significava solo il non dover dipendere più da un Duca ma pure il rendersi indipendenti da Milano e la cosa si manifestò fin da subito con scene di violenza e d’intolleranza contro i simboli viscontei. A Vigevano, venne distrutto il castello di Luchino Visconti e si mise all’asta il materiale recuperato, legna, tegole e ferramenta varia. A Pavia, appena creato un governo repubblicano provvisorio, si bruciarono in piazza i registri delle tasse e si tentò di assaltare e distruggere il castello visconteo ove si erano rifugiati il governatore Matteo Bolognini e pure Agnese del Maino (l’amante del Duca defunto). A Piacenza, i più scalmanati distrussero la Cittadella e pure lì, bruciarono i registri delle tasse.
IColoro che il Duca aveva mandato al confino, e si trattava di regola di delinquenti della peggior risma, . grazie all’annunciata libertà, rientrarono in città pretendendo ja restituzione dei loro beni, che il governo aveva, nel frattempo, venduto o donato.
I Capitani di Milano, che evidentemente non s’aspettavano una simile reazione alla loro proclamazione, rimasero spiazzati e cercarono di salvare il salvabile.
Approfittando di questo clima di estrema confusione, solo poche città del Ducato accettarono di riconoscere la Repubblica Ambrosiana e di sottomettersi ad essa; vi aderirono Como, Crema, Novara, ed Alessandria; le altre si proclamarono ‘liberi comuni‘, con governi locali, decidendo di rendersi indipendenti da Milano, tradizionalmente vessatoria soprattutto in materia fiscale. Inevitabilmente caddero preda, chi dei veneziani, chi dei pavesi, chi di signorotti locali. Essendoci tra loro, chi parteggiava per il marchese di Monferrato, piuttosto che per il duca di Savoia, o ancora per il re di Francia, vi fu nell’arco di pochi giorni, un’incredibile disgregazione del Ducato, a ‘sinistra’ conferma della veridicità della previsione “Dopo di me, tutto avesse a rovinare!“, la famosa frase che Filippo Maria amava ripetere.
il 16 agosto, Lodi, cacciati i fratelli Piccinino e costretti ad andarsene a Pizzighettone, accolse un presidio veneziano, imitato dal castello di San Colombano; il 20 agosto, anche Piacenza finì sotto la tutela di Venezia che inviò lì, Matteo d’Este con 1500 cavalli; pure Parma e Tortona istituirono il regime repubblicano: il 26 ottobre 1447, Asti infine aprì le porte a Carlo d’Orléans, che designò come governatore Rinaldo Dresnay.
Ndr. – La contea di Asti costituiva per gli Orleans, un prezioso avamposto per la conquista della Lombardia, inoltre era in una posizione militarmente strategica: arginava ad ovest le terre dei Savoia, era nel cuore dei domini del Marchesato del Monferrato ed a diretto contatto con lo stato di Milano.
Visto che in questo clima di disgregazione generalizzata, Milano, con Venezia quasi alle sue porte, stava per cadere pure essa, sotto il dominio della Serenissima, i nuovi Rettori della Repubblica Ambrosiana proposero di fare la pace con Venezia. Quest’ultima, non avendo titoli per la rivendicazione del possesso del Ducato, se non la propria forza ed avidità, ed essendo per di più convinta di riuscire a mettere facilmente le mani sulla città, rifiutò ogni possibile trattativa di pace, costringendo i milanesi a difendersi con le armi.
Costoro pensarono di affidare il comando delle loro milizie a Francesco Sforza, che, come tutti i capitani di ventura, era al soldo ora di questo, ora di quel contendente. Non tutti erano d’accordo su questa scelta, non perché mettessero in dubbio il suo coraggio e il suo valore, ma per il timore che, alla fine. volesse lui, il Ducato tutto per sé. Francesco era già conosciuto in città, avendo operato, tempo addietro, come valido condottiero, per conto del Duca defunto. Nel 1441 poi, aveva anche sposato la figlia naturale di Filippo Maria, (ventiquattro anni più giovane di lui), matrimonio che ora, morto il suocero, gli dava indubbiamente diritto di rivendicare il Ducato per sé.
Certamente avrebbe preferito conquistare, da solo, il Ducato del suocero, ma sapendo realisticamente di non essere sufficientemente forte per lottare contemporaneamente su due fronti, da un lato contro i milanesi, e dall’altro contro i veneziani, stava meditando un’alleanza con Venezia per conquistare Milano con la forza. Fu sua moglie, Bianca Maria a dissuaderlo da azioni del genere su Milano: conoscendo i milanesi, sapeva che, se lui avesse preso la città come usualmente si conquistano le città nemiche, mai lo avrebbero accettato come loro Duca.
Invito a comandare le milizie della Repubblica Ambrosiana
Era a Cremona, quando gli arrivò una delegazione inviata dalla Repubblica Ambrosiana, capeggiata da Antonio Trivulzio, per invitarlo a prendere servizio a Milano a capo delle milizie milanesi, alle medesime condizioni precedentemente pattuite con il Duca Filippo Maria. La Repubblica si impegnava inoltre a cedergli le città di Brescia o di Verona qualora lui fosse riuscito a conquistare una di queste. Di fronte alle allettanti condizioni propostegli, lui accettò di buon grado, rinunciando all’idea dell’alleanza con Venezia e assumendo così il comando delle milizie della Repubblica Ambrosiana.
Il suo primo pensiero fu quello di respingere oltre l’Adda, i veneziani che, avendo conquistato le varie borgate ed i castelli di quasi tutta l’area ad est di Milano, si erano troppo pericolosamente avvicinati alla città. Lo Sforza si riprese una ad una, tutte le località, i paesi, i castelli, che i veneziani avevano occupato al momento della disgregazione, all’indomani dalla morte del Duca.
Invito a prendere possesso di Pavia
Stava per assediare il castello di San Colombano al Lambro (a sud di Lodi), quando gli si presentò una delegazione di cittadini pavesi, pronti a cedergli la Signoria della loro città e ad assegnargli il titolo di Conte di Pavia, chiedendo in cambio unicamente la conferma dei privilegi municipali.
Era stata l’abilissima suocera Agnese del Maino (1411-1465, amante del Duca), madre di Bianca Maria (1425-1468), che, riparata a Pavia dopo la morte dell’amante, aveva brigato per convincere Alberico Maletta (insigne giureconsulto pavese), a fare restituire al genero la città di Pavia legalmente ereditata da Francesco, alla morte del Duca di Milano.
Dopo la morte di Filippo Maria Visconti, nell’agosto 1447. i cittadini di Pavia erano discordi circa l’assetto politico da dare alla città, ma erano uniti nella volontà di sottrarsi alla soggezione milanese. Il Maletta prese le parti di Francesco Sforza, genero del duca defunto, facendolo riconoscere signore della città.
Francesco naturalmente accettò con entusiasmo promettendo gratitudine e lealtà verso la città. Presa San Colombano al Lambro, venne accolto a Pavia con tutti gli onori. Fu sempre lei, Agnese del Maino attivamente impegnata in trattative con Matteo Mercagatti detto il Bolognino, comandante del presidio di Pavia, per la consegna al proprio genero, pure dell’abitato e del castello di Bereguardo a lui infeudati. anche la stessa Tortona, che si era inizialmente data un assetto repubblicano. minacciata dai francesi, si diede in Signoria allo Sforza.
La preoccupazione dei milanesi
I più preoccupati dell’evolversi di questa situazione erano i tanti milanesi, che, non avendo gradito la scelta di chiamare lo Sforza a capo delle milizie repubblicane, vedevano con apprensione ogni sua nuova conquista sul campo, temendo che l’accrescere del suo prestigio e della sua potenza, potessero essere una minaccia per la loro libertà. Si rifiutavano di accettare l’idea che, almeno in quel momento, il suo scopo principale fosse quello di allontanare il più possibile da Milano, la minaccia delle armate veneziane, temendo invece volesse tenere per sé non soltanto Pavia, che i pavesi gli avevano offerto in un piatto d’argento, ma anche tutte le altre terre conquistate, operazione questa, che loro consideravano una trasgressione degli accordi pattuiti.
Francesco Sforza andò poi ad assediare Piacenza, città sotto il dominio dei veneziani. Taddeo d’Este, il loro condottiero, difese strenuamente la città ma, il 16 novembre 1447, assalita dalle milizie sforzesche, dopo un aspro e lungo combattimento, venne occupata e saccheggiata per ben cinquanta giorni. Con la presa di Piacenza, lo Sforza aveva voluto dissipare le diffidenze della Repubblica Ambrosiana nei suoi confronti, dimostrandole che combatteva per acquistare domini, riducendo all’obbedienza di Milano, le terre che il Ducato aveva perduto. Tuttavia la diffidenza dei milanesi non cessarono. Essi, anzi, non solo ordinarono al Colleoni, altro condottiero assoldato da Milano, di cacciare da Tortona il presidio sforzesco, ma iniziarono a Bergamo le trattative di pace con i veneziani. Si convenne che ciascuno dei belligeranti, avrebbe conservato le conquiste fatte durante la guerra. Il trattato, per essere operativo, doveva essere ratificato dal Consiglio dei Novecento. Ma quando si conobbe il contenuto dell’accordo, furono in molti a disapprovare i patti, in virtù dei quali si sarebbe lasciato in mano al nemico sia Lodi, che parecchi castelli a destra dell’Adda. Milano, in definitiva, sarebbe rimasta troppo esposta alla minaccia dei veneziani, il cui confine veniva a trovarsi a meno di venti miglia dalla città, per cui il Consiglio, alla fine, rifiutò la ratifica dello stesso. Così, nel maggio del 1448, ripresero le ostilità. Francesco Sforza riprese Treviglio, Cassano, Melzi, Rivalta e parecchi altri castelli presso la sponda destra dell’Adda. Quindi si avviò verso Casalmaggiore, per operare in accordo con la squadra navale milanese comandata da Biagio Assereto. Il 16 luglio 1448, la flotta veneziana, proprio nello stesso punto in cui, due anni prima, aveva sconfitto le navi del Duca di Milano, venne quasi completamente distrutta.
15 settembre 1448 – battaglia di Caravaggio e disfatta della Serenissima
Sull’onda di questi ultimi successi, lo Sforza avrebbe voluto andare ad espugnare anche Brescia, visto che questa città, secondo gli accordi presi con la Repubblica Ambrosiana al momento dell’ingaggio, sarebbe stata sua. Ma il governo di Milano, timoroso che lui potesse ulteriormente rafforzare la sua potenza, gli ordinò di andare a prendere Caravaggio che era in mano veneziana. Sebbene a malincuore, lo Sforza obbedì, e il 29 luglio 1448, cinse d’assedio la cittadina.
La Serenissima mandò Michele Attendolo, con 5000 fanti e 12.500 cavalieri a dar man forte alla guarnigione di Caravaggio. Nonostante la minaccia dell’armata veneziana, lo Sforza continuò imperterrito l’assedio: la cittadina, colpita dalle artiglierie, era in procinto di arrendersi, quando Attendolo nel tentativo di liberarla, il 14 settembre, assalì le truppe dello Sforza. Da una parte e dall’altra, la battaglia fu combattuta con accanimento.
Il 15 settembre 1448, in uno scontro decisivo, feroce e cruento, nelle campagne intorno a Caravaggio, le truppe sforzesche conseguirono una vittoria schiacciante sull’esercito della Serenissima. Difatti soltanto 1500 cavalieri di Attendolo, riuscirono a mettersi in salvo, tutti gli altri furono o uccisi, o fatti prigionieri. Quello stesso giorno, Caravaggio si arrese, con tutta la sua guarnigione. Dopo la pesante sconfitta subita, le truppe veneziane si ritirarono malconce verso est, mettendo a rischio anche le difese delle città di Bergamo e Brescia.
Francesco Sforza voleva approfittare di questa vittoria, per marciare subito su Brescia che non avrebbe potuto resistere a lungo, data la situazione sul campo.. Ma il governo milanese, che non aveva cessato di diffidare di lui, per la seconda volta, glielo impedì, ordinandogli di marciare invece su Lodi. mentre i milanesi aprivano trattative di pace con Venezia. Ma Francesco Sforza fu più veloce di loro.
21 settembre 1448 – La bandiera della Repubblica Ambrosiana
Le vittorie sin qui conseguite sul campo, lo stavano convincendo che non gli sarebbe stato difficile impadronirsi del Ducato. Eventualità questa che i milanesi cominciavano a temere seriamente, al punto di pentirsi, quasi per assurdo, di aver assoldato quel condottiero così valoroso e determinato, fin troppo abile e forte.
Perciò pochi giorni dopo la battaglia di Caravaggio, il 21 settembre, quasi a voler rafforzare un’identità della quale tanti cominciavano ad dubitare, gli autori del colpo di mano, proposero all’Assemblea del popolo riunita nel grande spiazzo dell’Arengo al Broletto Vecchio, l’adozione, come emblema dell’Aurea Repubblica Ambrosiana, al posto dell’ odiato biscione visconteo, l’insegna di Sant’Ambrogio con lo staffile, ad indicare, nella intenzione dei promotori, uno strumento di difesa delle libertà milanesi. Naturalmente la croce rossa, in campo bianco, ricordava l’antico stendardo comunale che, ai tempi sventolava sul famoso Carroccio, durante la battaglia di Legnano contro il Barbarossa.
In quella stessa assemblea, essendo già passato più di un anno dalla creazione della Repubblica, Antonio Trivulzio, Giorgio Lampugnani, Teodoro Bossi ed Innocenzo Cotta, proposero un nuovo assetto istituzionale per l’Aurea Repubblica Ambrosiana. Nel corso di una seduta infuocata, vennero eletti i nuovi rappresentanti dei due Consigli.
Ndr. – Queste cariche avevano durata molto breve, proprio per evitare l’instaurazione di nuove dinastie. Fu proprio una tale decisione tra le prime cause del fallimento della Repubblica Ambrosiana, perché creò le basi per una grande instabilità politica e decisionale.
Falò della documentazione amministrativa e fiscale
Ma dopo quell’infuocata assemblea, i milanesi, istigati dai promotori della stessa, diedero libero sfogo al loro furioso rancore per gli aspetti più odiosi del vecchio regime, dando fuoco, in un grande falò pubblico, a tutta la documentazione amministrativa e fiscale conservata nei sotterranei del castello di Porta Giovia. Errore gravissimo naturalmente, frutto dell’incompetenza e della scarsissima lungimiranza dei Capitani del popolo e dei Rettori che avevano caldeggiato questa sciagurata iniziativa. Costoro facevano evidentemente parte di una élite di intellettuali idealisti e nostalgici delle antiche libertà comunali, ma politicamente ingenui e sprovveduti, che non pensavano a quanti e quali problemi, la mancanza di un archivio dell’amministrazione pubblica, avrebbe procurato a loro stessi o a chiunque altro al posto loro, si sarebbe poi dovuto cimentare nel governo della città.
Tassa per costituire il ‘Tesoro di Sant’Ambrogio‘
Si preoccuparono invece di svendere al più presto tutti i beni e i pochi oggetti trovati nel Castello e che erano riusciti a mettere in salvo, prima del saccheggio: un’operazione disperata, resa necessaria dall’urgenza di mettere un po’ di liquidità nelle casse dello Stato, rimaste vuote, anche perché dalle città lombarde sottrattesi all’esoso dominio di Milano, non arrivavano più i soldi delle imposte. Troppo tardi si resero conto dell’errore di aver suggerito quel falò quale inconsulta reazione al regime fiscale visconteo: lo capirono quando, per tentare di rimpinguare le casse dello Stato, si trovarono nella necessità di dover emanare un proclama che richiedeva a tuttele i famiglie milanesi, indiscriminatamente, un contributo per costituire un ‘Tesoro di Sant’Ambrogio‘ di duecentomila fiorini d’oro, tassa che, in una popolazione già allo stremo, era un discorso utopistico, che naturalmente pochissimi erano in grado di soddisfare. Inutile dire che, per spronare la gente a dare il contributo, ebbero l’altra felicissima idea di garantire che il versamento avrebbe dato diritto al voto nell’assemblea popolare, cosa questa, che contribuì a screditarli totalmente, anche da parte di quanti erano rimasti più morbidi nei loro confronti.
Del resto, che la situazione economica in città fosse pessima, era risaputo: con le attività produttive ferme e il denaro circolante quasi nullo, la popolazione se la passava davvero male. In città erano ben poche le famiglie che riuscivano a mettere in tavola due pasti al giorno, alcune neppure uno: erano, in molti, che facevano letteralmente la fame. La disperazione portava, come conseguenza, ad un forte aumento della criminalità nelle strade, con furti, rapine saccheggi di negozi e magazzini, persino omicidi, sangue innocente e violenza ovunque. Francesco era a conoscenza di questa situazione: aveva i soliti informatori che lo ragguagliavano.
Di fatto dunque, furono solamente i ricchi, i mercanti, gli artigiani ed i banchieri, a pagare quella tassa per creare il ‘Tesoro di Sant’Ambrogio‘. Furono quindi i soli che, alla fine, avendo diritto di voto nelle assemblee popolari, ebbero influenza nella gestione della cosa pubblica. Il potere finì così tutto nelle mani dei ceti più abbienti, quelli cioè che in realtà, anelando alla libertà, avevano voluto la Repubblica.
Intanto, nel comando della milizia cresceva la diffidenza verso il futuro capitano generale della Repubblica (lo Sforza), diffidenza alimentata ad arte dall’attività sobillatrice ed implacabile di Francesco Piccinino, cavaliere di ventura, suo nemico di vecchia data: ‘Vi siete liberati di un Visconti per finire in bocca ad uno Sforza‘– arringava la folla – ‘Almeno quello era un duca che discendeva da antica dinastia, questo è un capitano di ventura come me, figlio di un contadino. Di mal in peggio e ve ne pentirete!‘. La preoccupazione di Piccinino motivata, visti gli screzi ed i conflitti del passato, era anche giustificata, visto che le quotazioni dello Sforza, per così dire, miglioravano di giorno in giorno, nonostante i suoi tentativi di denigrazione.
18 ottobre 1448 – Accordo segreto fra lo Sforza e i veneziani
La brutta batosta subita a Caravaggio, aveva convinto i veneziani, sempre abilissimi a mercanteggiare, a venire a patti, per evitare guai peggiori. Il 18 ottobre 1448, a Rivoltella sul Garda, nei pressi di Sirmione, fra lo Sforza e i veneziani, fu firmato un accordo che, nelle intenzioni dei contraenti, avrebbe dovuto restare segretissimo e che, sembrava, permettere a Francesco la conquista definitiva di Milano, mentre Brescia, Bergamo, Crema e la strategica Ghiara d’Adda (territorio compreso fra l’Adda e il Serio) sarebbero rimaste alla Serenissima.
Ndr. – La Gera d’Adda (con grafia antica Ghiara, Ghiera, Giarra d’Adda, dal milanese con significato Ghiaia dell’Adda), è una zona della pianura lombarda compresa tra il fiume Adda a ovest, il fiume Serio a est e il fosso bergamasco a nord. Il confine a sud si basa su precise fonti storiografiche, risalenti all’estimo dell’imperatore Carlo V d’Asburgo e ribadite negli editti successivi, che lo individuano nelle estremità meridionali dei comuni di Rivolta d’Adda, Pandino, Dovera, Vailate, Misano di Gera d’Adda e Caravaggio.
Il termine ‘Ghiara‘ deriva dalla natura morfologica del territorio che presenta strati fertili e ghiaiosi in profondità, che sono strati trasportati in tempi assai remoti dai due fiumi che ne circondano il territorio.
[ rif. Wikipedia ]
Non solo, ma l’accordo prevedeva che la Repubblica di San Marco, avrebbe sostenuto l’operazione di conquista del Ducato, sia con un importante contributo militare (3.200 fanti e 6.000 cavall), che finanziario, con 13.000 fiorini pagati mensilmente allo Sforza. Era, in sostanza, un trattato di pace tra vincitore e vinti, naturalmente vantaggiosissimo per il primo. Probabilmente, data la situazione disastrosa di Milano, sarebbe bastato solo il presentarsi in armi alle porte della città, che probabilmente i milanesi gliele avrebbero non solo spalancate ma pure gli avrebbero consegnato l’intero Ducato.
27 dicembre 1448 – L’incredibile voltafaccia
Il tanto segreto trattato di Rivoltella del Garda fra lo Sforza ed i Veneziani però, non doveva essere poi così riservato se, i Rettori milanesi ne vennero quasi subito a conoscenza, informati naturalmente dagli immancabili infiltrati veneziani, contrari a quell’accordo e quindi interessati ad intorbidire le acque, per rimetterlo in discussione.
Vistisi in pericolo, temendo seriamente un ritorno alla vecchia Signoria, questa volta sotto il dominio Sforzesco, il 27 dicembre 1448, gli stessi Capitani del popolo che avevano mandato a Cremona il Trivulzio invitando Francesco di assumere il comando delle milizie della proclamata Repubblica Ambrosiana, agendo d’impulso, con incredibile spregiudicatezza, arrivarono addirittura a mettere una taglia di 200.000 ducati, sulla sua testa, per poterlo catturare. ‘Mi trattano come un qualsiasi bandito‘, reagì furioso Francesco, quando ne venne a conoscenza, ‘ma se ne pentiranno molto presto e molto amaramente‘.
Prevedendo la scontata, rabbiosa reazione dello Sforza, i Rettori si dettero affannosamente alla ricerca di aiuti esterni (ovviamente mai disinteressati). Pure qui, nella scelta di chi contattare per avere l’appoggio richiesto, fu evidente il loro scarsissimo acume politico. Uno dei soggetti interpellati fu ad esempio Federico III d’Asburgo, re dei Romani e futuro imperatore del Sacro Romano Impero. Questi si dichiarò dispostissimo ad aiutarli, se Milano avesse riconosciuto l’autorità imperiale; un altro dei soggetti fu Ludovico di Savoia, che addirittura propose a fronte dell’aiuto, quella di essere proclamato lui nuovo Duca, adducendo a pretesto argomenti dinastici nemmeno troppo convincenti. Le contropartite erano prevedibili e naturalmente inaccettabili per una Repubblica che, come l’Ambrosiana, anelava ad essere libera ed autonoma.
Al termine di altri mesi molto confusi, in cui, alle scaramucce sul campo o sotto le mura della città si alternavano frustranti tentativi di soluzioni diplomatiche, con una Milano ridotta allo stremo, assediata, affamata, in totale balia di bande criminali, la sola via d’uscita dal caos, sembrava, ormai anche ai più ostili, essere l’arrivo dello Sforza. Ma c’era ancora la taglia posta sulla testa di Francesco! Compiendo l’ennesimo voltafaccia, non restò che ignorare quell’assurda taglia e tentare con lui una difficile riconciliazione, operazione che, a causa della diffidenza nei suoi confronti, loro stessi avevano resa complessa. Era da portare avanti con molta politica e prudenza, ma anche in fretta, per evitare il crollo della città.
24 settembre 1449 – Il tradimento della Serenissima
Messo a conoscenza della situazione dai suoi informatori milanesi, alla fine del settembre 1449, Francesco Sforza si presentò alle porte di Milano, aspettando che gliele aprissero. Non poteva immaginare che il giorno 24 di quello stesso mese avrebbe dovuto fare i conti con un nuovo tradimento nei suoi confronti, questa volta da parte dei veneziani. Stracciando, in pratica, l’accordo di Rivoltella del Garda, la Serenissima aveva appena stipulato una pace separata con la Repubblica Ambrosiana. Così Francesco si trovò improvvisamente abbandonato dalle alleate truppe venete e per di più si vide sfacciatamente invitato a partecipare all’intesa per salvare l’Aurea Repubblica Ambrosiana. Ma il suo disorientamento durò poco. Rimasto privo dell’alleato, riorganizzate le sue forze, reagì brutalmente attaccando i veneziani.
Man mano che a Milano, col passare dei giorni, la situazione già grave, andava ulteriormente peggiorando, salivano le quotazioni dello Sforza, anche nella considerazione dei milanesi a lui più contrari. A parte l’ormai cronica mancanza di viveri e l’impossibilità di approvvigionamenti dall’esterno a causa dell’assedio alla città imposto da Francesco, si era instaurato un clima di violenza preoccupante, con saccheggi di ogni genere e disordini spesso cruenti. Di conseguenza, vista l’inettitudine dei governanti attuali, il consenso popolare nei confronti dello Sforza, come risolutore dei problemi della città, si fece sempre più strada.
In città, regime di terrore
Dal canto suo, il governo, in preda al panico più totale, reagì malissimo a questa situazione, abbandonandosi ad un regime di terrore. I Capitani del popolo avevano incautamente assunto a capo della milizia cittadina (sia gendarmeria, che polizia politica), Carlo Gonzaga, un uomo d’armi. Questi fece una feroce e sanguinaria opera di repressione sulla popolazione, con un susseguirsi di arresti, di torture pubbliche, di sentenze di morte per decapitazione, comminate senza processo anche per banalissime divergenze di vedute di carattere politico tra chi era pro, e chi contro lo Sforza.
L’obiettivo per il Gonzaga, era il riuscire ad indebolire la Repubblica: così avrebbe potuto poi presentarsi al popolo come il ‘Salvatore della Patria‘: pianificò una sistematica opera di diffamazione di alcuni dei principali esponenti del governo, arrivando persino ad accusare alcuni di tradimento e, al culmine dell’azione repressiva, a far addirittura decapitare Giorgio Lampugnani e Teodoro Bossi, due dei padri fondatori della Repubblica Ambrosiana. Man mano che la situazione peggiorava, il Gonzaga non attendeva altro va che la caduta della Repubblica, per consegnare il Ducato allo Sforza, in modo da ottenere da lui un adeguato compenso, sperando in cuor suo, di riuscire un giorno a scalzarlo per prenderne il posto, magari innescando una rivolta di popolo contro di lui.
In quei terribili mesi comunque, come scriveva in data 21 dicembre 1449 lo stesso Francesco al suo amico fiorentino Cosimo de’ Medici, il principale problema di Milano era la fame. ‘Ormai a Milano la gente mangia i gatti e topi e per strada si cammina tra i morti … ‘ e continuava ‘… mia moglie Bianca Maria, che tanto ama la sua città, è angosciata da queste notizie, prega per Milano e il suo popolo invoca di mettere rapidamente fine a questa gravissima situazione‘.
Non c’era ormai giorno che non ci fossero rivolte e tumulti , sempre repressi del sangue. I Capitani del popolo consapevoli di aver perso ogni controllo della situazione, vivevano terrorizzati ed impotenti, chiusi nel palazzo dell’Arengo.
Come se non bastasse, tanto per aggiungere caos al caos, le forze della Serenissima tornavano a presentarsi minacciose in territorio milanese.
“Non devi fare altro che aspettare e la mela matura ti cadrà in mano: verranno a chiamati e ad implorarti di salvare la città dalla rovina” andava spesse ripetendo Bianca Maria a suo marito, insistendo perché Francesco evitasse di prendere la città con la forza.
Ma il vero inizio della fine della Repubblica fu a Milano. quel 24 febbraio 1450 quando, a causa di una carestia in città che provocò diversi morti di fame, scoppiò una ennesima rivolta di popolo fra i meno abbienti, causando nuovi lutti e sofferenze.
25 febbraio 1450 – Proposta di resa alla Serenissima
L’assemblea infuocata
Il giorno dopo, 25 Febbraio, probabilmente spinti dalla situazione ormai fuori controllo, i Rettori commisero però l’ennesimo errore: convocarono il Consiglio dei Novecento nella chiesa di Santa Maria della Scala, con l’intenzione di proclamare la sottomissione della città alla Serenissima. Per loro fortuna, all’assemblea si presentarono in pochi, solo i più fedeli al governo. L’intenzione di sottomissione della città alla Serenissima, pur giustificata come misura disperata, per impegnare Venezia a difendere la boccheggiante Repubblica contro lo Sforza, allo scopo di mettere fine ai suoi otto mesi di assedio, assicurando un minimo di approvvigionamenti alla città, venne accolta malissimo dai presenti provocando forti contestazioni.
L’ombra della corruzione
Il suggerimento di resa alla Serenissima era stato il risultato di un’abile operazione di persuasione messa in atto dall’ambasciatore veneziano a Milano, Leonardo Venier, che era riuscito a corrompere molti dei 24 Rettori del Consiglio comprando, con laute bustarelle, il loro assenso.
Ma l’incauta iniziativa, a parte infuocare l’Assemblea che, dall’imprevisto ed inatteso voltafaccia di tanti Capitani, si era resa conto che erano stati ‘comprati‘, provocò una violenta, inattesa reazione popolare: i milanesi affamati e delusi dall’inettitudine dell’auto-proclamato e corrotto regime repubblicano, non solo a ragion vrduta detestavano l’eterna nemica Venezia, ma vedevano sempre di più in Francesco Sforza, l’unica realistica possibilità di salvezza. L’insurrezione (come sempre, non del tutto spontanea), fu orchestrata e guidata da Gaspare da Vimercate, uno dei pochi Capitani difensori della libertà ‘puliti‘, che non si erano lasciati corrompere dall’oro veneziano.
Quanto a Gaspare da Vimercate (appartenente a nobile e antichissima famiglia capitanea (risalente al X secolo, quella dei principali vassalli dell’arcivescovo di Milano), dopo aver militato come ufficiale, nelle schiere viscontee, nelle ultime guerre di Filippo Maria, aveva combattuto agli ordini dello Sforza diventandone amico fidatissimo e fraterno.
‘E’ amico, il mio AlterEgo a Milano‘, diceva di lui Francesco, quando Gaspare era impegnato nella difesa della Repubblica Ambrosiana dagli attacchi dei veneziani.
Generoso e leale, era stimato e temuto tra la nobiltà lombarda. Il suo coraggio e la fedeltà allo Sforza, sembravano predestinarlo al successo.
L’assalto al Palazzo del Governo
I rivoltosi da lui capeggiati, diedero l’assalto al Palazzo del Governo, costringendo ad una fuga precipitosa, i Rettori che si erano asserragliati lì dentro. Il Venier, mentre cercava disperatamente rifugio nell’Arengario, fu catturato, defenestrato, e massacrato dalla folla inferocita.
Solo poche ore dopo l’inizio dell’insurrezione, fu insediato un comitato rivoluzionario provvisorio favorevole allo Sforza, costituito in prevalenza dai nobili e notabili risparmiati dalle epurazioni repubblicane, e nel quale. naturalmente, aveva un ruolo egemone, Gaspare da Vimercate.
Convocata un’ennesima assemblea popolare nella Chiesa di Santa Maria alla Scala per discutere sull’opportunità di offrire il potere a Francesco Sforza, non fu difficile al Vimercate convincere tutti dell’urgenza e della inevitabilità di chiamare Francesco Sforza a Milano, se non altro, per escludere tutti gli altri pretendenti. Persino il Gonzaga con la sua milizia, si schierò con lui. Per le strade tuttavia continuavano i disordini, gli scontri tra fazioni ed i saccheggi. Il rischio della totale anarchia, e del conseguente disfacimento dello Stato, era davvero concreto. Ad approfittarne sarebbero stati ancora una volta i veneziani che aspettavano al di fuori delle mura, e intendevano vendicare il linciaggio del loro ambasciatore Venier.
Dopo un ultimo efficace ed appassionato discorso di Gaspare da Vimercate, la prima mossa del comitato fu di annunciare il giorno stesso, la decisione della consegna delle città allo Sforza.
26 febbraio 1450 – Tolto l’assedio alla città
Francesco Sforza entrò in Milano da Porta Nuova. Quel giorno, era il 26 febbraio 1450, si fermò in città solo poche ore, giusto il tempo per occupare i posti chiave con la sua forte guarnigione e affidare il governo provvisorio a Carlo Gonzaga: quindi tornò nuovamente al suo accampamento, a Vimercate, per disporre che la città venisse approvvigionata di viveri.
Alcuni giorni dopo, Como, Monza e Bellinzona, fino allora rimaste fedeli a Milano, si davano allo Sforza, che il 3 marzo riceveva dai deputati, il giuramento di fedeltà.
L’11 marzo successivo, l’Assemblea generale, convocata in seduta plenaria, approvò il passaggio dei poteri al nuovo Duca, riconoscendo la linea di successione ai figli maschi legittimi.
25 Marzo 1450 – Francesco Sforza nuovo Duca di Milano
Era la festa dell’Annunciazione, quel 25 marzo 1450: Francesco Sforza entrava solennemente a Milano, dalla strada che da Pavia conduce in città, accompagnato dalla moglie Bianca Maria Visconti, dal figlio primogenito Galeazzo, dai fratelli Alessandro e Giovanni, dai principali condottieri suoi alleati, (tutti con armi ed armature da parata) e seguito dagli ambasciatori di tutti gli Stati italiani, eccetto Venezia e il reame di Napoli.
A Porta Ticinese, lo stavano attendendo, i principali esponenti della nobiltà milanese. Avevano preparato, in suo onore, un carro trionfale ,con tanto di baldacchino ornato di un drappo d’oro bianco, che però lui modestamente rifiutò, giustificando di non essere un re. Con tutto il suo seguito, si diresse quindi in Duomo. Fermandosi sui sagrato, prima di entrare in chiesa, indossò, come da tradizione, una tunica bianca. In Cattedrale (allora ancora in costruzione), fu dall’arcivescovo di Milano cardinale Enrico Rampini, insignito della dignità ducale, insieme alla moglie: gli furono consegnati lo scettro, la spada, lo stendardo, il sigillo e le chiavi della città. Da quel momento, Francesco Sforza era il nuovo Duca di Milano.
Ufficialmente quel giorno, l’Aurea Repubblica Ambrosiana, nata il 14 agosto 1447, cessava di esistere, prima ancora di aver compiuto il suo terzo anno di vita! Un legittimo sogno di libertà, durato in tutto solo 953 giorni!
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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