La Scala …. solo musica e biribissi?
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Vita decisamente stressante quella dei nobili milanesi, fra il Settecento e l’Ottocento! Fra le lunghe passeggiate in carrozza ai Bastioni, la noiosissima presenza (obbligata) agli eventi istituzionali, i pranzi di “lavoro” col governatore o l’arcivescovo, la partecipazione alle discussioni politiche e ai caffè letterari, la frequentazione dei salotti culturali alla moda, la presenza alle feste dell’alta società, il tempo da dedicare alle varie amanti, i pomeriggi interi da riservare al gioco, la partecipazione alle cene di gala, beh …. di tempo libero, ne restava davvero poco! Se, a tutto questo, aggiungiamo poi anche il tempo da dedicare al teatro, le loro giornate erano decisamente piene, non c’è che dire!
Secondo una vecchia guida di Milano datata 1820, pare fossero ben otto i caffè scaligeri sorti a cavallo fra gli ultimi due decenni del Settecento e i primi anni dell’Ottocento, a pochi passi dal Teatro alla Scala, dopo la sua inaugurazione, quel 3 agosto 1778. La notizia, insignificante per tanti, merita tuttavia un minimo di approfondimento, essendo, a mio avviso, abbastanza inconsueta una simile concentrazione di Caffè, nelle immediate vicinanze di un teatro, pure importante come la Scala. Eravamo ancora in pieno periodo illuministico, alla vigilia dello scossone che, inevitabilmente, la rivoluzione francese avrebbe provocato all’Europa intera, nei futuri decenni.
Indubbiamente, i tempi allora, erano molto diversi da oggi: storicamente, fin dai primi del Settecento, in una società ancora molto chiusa, era iniziata a piccoli passi, l’emancipazione femminile: a cominciare dal noto fenomeno, tipicamente nostrano, del cicisbeismo, per poi sfociare nei famosi salotti milanesi, ove diverse nobildonne colte, sentendosi “troppo strette” in quel tipo di ambiente, avevano iniziato ad aprire le loro case a personalità importanti, ad illustri letterati, a personaggi stranieri di passaggio per Milano, ad artisti, musicisti, uomini di scienza, politici e patrioti. Casi noti sono ad esempio quello di Metilde Viscontini Dembowski, di Clara Maffei, di Cristina Belgioioso, di Giulia Samoyloff. Raramente celavano secondi fini: non erano cioè sempre incontri “mondani” mascherati dietro l’etichetta di incontri “culturali”, spesso creati ad arte per fugare delusioni personali o momenti di tristezza e stati di depressione. La padrona del salotto, nobildonna spesso di illustri natali, non era solo la semplice proprietaria che dava ospitalità agli intellettuali più in vista, ma partecipava attivamente agli incontri, intervenendo negli scambi di opinioni sui vari problemi o nei commenti a caldo sui maggiori eventi culturali, teatrali o mondani del momento cui partecipava lei stessa. Era quello, un modo per arricchire le proprie conoscenze culturali, ampliando nel contempo, la sfera delle entrature con personaggi di peso.
Il Teatro alla Scala
In seguito all’incendio doloso che, il 25 febbraio 1776, distrusse il vecchio Regio Ducal Teatro nel grande cortile del Palazzo Ducale (attuale Palazzo Reale), l’imperatrice Maria Teresa d’Austria aveva dato l’incarico all’architetto Giuseppe Piermarini di progettare e costruire il nuovo teatro che sarebbe dovuto sorgere nell’area della sconsacrata chiesa trecentesca di Santa Maria della Scala.
Ndr. – La chiesa di Santa Maria della Scala (1381) prese il nome della sua committente, Beatrice Regina, discendente della potente dinastia veronese, oggi estinta, dei della Scala, moglie di Bernabò Visconti Co-Signore di Milano dal 1354 al 1385.
I lavori per la sua costruzione vennero portati a termine nell’arco di soli due anni e il 3 agosto 1778, il Nuovo Regio Ducal Teatro alla Scala venne inaugurato, mandando in scena l’Europa riconosciuta, di Antonio Salieri.
NOTA
Nonostante l’idea di avere un nuovo teatro (inteso come edificio pubblico prestigioso per la città e fruibile da tutta la cittadinanza per scopi socio-culturali) fosse in linea con le idee illuministe dell’epoca, nella seconda metà del Settecento, Milano, salvo che in casi particolari, non era ancora pronta a destinarlo all’intera comunità. Da un lato, per la ferma opposizione delle classi dominanti, che, cedendo alle pressanti richieste della società, temevano di perdere i loro privilegi, dall’altro, perchè, avendo i rappresentanti di quelle stesse classi completamente finanziato la costruzione della nuova opera, la cosa li poneva in posizione di forza, essendo loro divenuti giuridicamente co-proprietari della nuova struttura. Non deve quindi meravigliare se il teatro venne visto nel tardo Settecento e nell’Ottocento, come una sorta di Club Privé esclusivo e simbolico, riservato alla mondanità aristocratica e alto-borghese, luogo privilegiato ed elitario della loro vita sociale. Certe aree, comunque, rimasero aperte a tutti.
Nelle giornate di apertura del Teatro, era consuetudine effettuare due diversi spettacoli, ove il secondo non era la replica del primo. Finito il primo spettacolo, gli stessi spettatori attendevano il successivo, visto che i palchi erano di loro proprietà. Il teatro pertanto era vissuto a pieno per molte ore, durante le giornate di rappresentazione. A detta di Pietro Verri, la struttura poteva contenere fino a 3000 persone
Marie-Henri Beyle Stendhal rimase a bocca aperta, quando ebbe modo di vedere la Scala, e scrisse: «al più bel teatro del mondo, quello che dà il massimo godimento musicale. È impossibile immaginare nulla di più grande, più solenne e nuovo».
Per fortuna, non ebbe modo di vederlo fra il 1778 e il 1800: probabilmente il suo commento relativamente al godimento musicale, sarebbe stato un po’ diverso.
Salvo che in particolari occasioni, per alcuni decenni dalla sua prima inaugurazione, si può dire che fu tutto, fuorché il Teatro come lo intendiamo oggi. Persino le cronache del tempo riportano lo stupore reciproco dei viaggiatori (annotato nei loro appunti, durante i vari Grand Tour): gli italiani all’estero, restavano interdetti di fronte al silenzio e all’attenzione con cui, Oltralpe, venivano seguiti gli spettacoli nei teatri; gli stranieri in Italia, restavano, a loro volta, sconcertati della focosa partecipazione del pubblico, delle loro grida, del lancio d’oggetti, della generale confusione e della evidente disattenzione degli spettatori.
A differenza di quanto ci si sarebbe potuti aspettare, la Scala era un luogo pieno di vita, punto di ritrovo per eccellenza, della élite milanese.
Qualcosa, in effetti, doveva averlo notato anche lui se, stupito, Stendhal aveva scritto nel 1817, “Il Teatro alla Scala è il salotto della città…. ‘ci vedremo alla Scala’ si dicono l’un l’altro, per ogni sorta di affari…”. Qui infatti, non si veniva tanto per seguire le opere cantate dai più famosi soprani e contralti castrati dell’epoca, quanto per discutere di riforme, di politica, per spettegolare sugli avvenimenti mondani, sugli intrighi, sugli scandali, per scambiarsi opinioni, incuranti dello spettacolo in corso. A volte, nelle discussioni ci si infervorava al punto da far scoppiare furiosi litigi e da decretare sfide a duello. Insomma, nei palchi del teatro milanese, la musica si intrecciava spesso con la storia, con la politica e con il pettegolezzo.
I palchi
Ndr. – Il teatro all’italiana in generale, con la sua tipica struttura ad alveare, non è concepito tanto per permettere un’omogenea visione della scena, quanto per rimarcare le distinzioni fra diverse classi sociali o l’importanza dei casati, nel contesto della medesima classe.
Nel caso del Teatro alla Scala, i primi tre ordini di palchi erano riservati all’aristocrazia, il quarto livello, all’alta borghesia. I palchi centrali erano comunque riservati alle famiglie di maggior rilievo.
A parte il palco centrale (reale), il Nuovo Teatro ha in tutto 154 palchi comprensivi di quelli camerali (i palchi del Governo ad uso esclusivo delle autorità civili e militari), ripartiti su quattro livelli. La Scala era quindi proprietà di 154 potenziali palchettisti. Erano tutte le famiglie nobili ed alto-borghesi più in vista, che per farlo ricostruire subito, per coprire le spese, avevano deciso di autotassarsi in cambio della proprietà dei palchi. Vi era chi ne aveva uno solo, chi due o più.
Sempre secondo Stendhal, un palco alla Scala, costava l’equivalente di un appartamento a Parigi. Averne uno, era lo “status-symbol” necessario, se si desiderava far parte della “élite” che contava in città; era l’equivalente che il possedere un palazzo signorile in pieno centro o una villa principesca sul lago.
Ndr. – Il singolo palco, essendo a tutti gli effetti un bene immobiliare, era censito al Catasto di Milano, con indicata la posizione (numero, ordine e settore) e il numero di vani [palco e camerino (detto retropalco)]. Il tutto era intestato ai proprietari e ogni ulteriore passaggio di proprietà, regolarmente registrato con atto notarile. L’immobile poteva essere venduto, comprato, passato in eredità oppure affittato a terzi.
L’abitudine di subaffittare i palchi, portava ad una certa promiscuità, ma la distinzione sociale comunque rimaneva rispettata. Fra i più celebri affittuari, Cesare Beccaria e Pietro Verri che per alcuni anni presero in affitto un palco dei tanti di proprietà dei Belgioioso. Ognuno di quei 154 palchi ha quindi la sua storia, con l’elenco dei vari proprietari che si sono susseguiti dalla prima inaugurazione del Teatro, al 1920 (quando, dopo la creazione dell’Ente Autonomo del Teatro, si decise il passaggio al sistema degli abbonamenti).
Ndr. – Chiuso il Teatro per mancanza di sovvenzioni, nel 1918, grazie alla rinuncia del diritto di proprietà da parte di alcuni palchettisti, e all’esproprio operato da parte del Comune per i palchi privati restanti, venne fondato l’Ente Autonomo Teatro alla Scala per un periodo di prova di nove anni. Grazie a sovvenzioni comunali e statali e alle somme raccolte attraverso una sottoscrizione promossa dal Corriere della Sera, il teatro poté finalmente, nel 1920, godere di una completa autonomia e ripartire con una campagna di abbonamenti stagionali.
Arredi, secondo il proprio gusto personale
Tornando indietro (al 1778), visto che ogni palco era di proprietà, la Direzione della Scala aveva lasciato ad ogni palchettista, facoltà di arredarlo a piacimento (con tappezzerie scelte secondo il proprio gusto personale), a patto si facesse carico dell’illuminazione ad olio e del riscaldamento del proprio palco durante il periodo invernale.
A parte il palco reale, esteriormente gli altri palchi erano tutti uguali, salvo la presenza sulla balaustra del balconcino, dello stemma gentilizio della famiglia che ne deteneva il possesso.
Ndr. – Con la costituzione della Repubblica Cisalpina nel 1797, verranno tolti definitivamente tutti gli stemmi nobiliari dai palchi e successivamente, con l’arrivo di Napoleone, venne pure abolito il palco reale.
Durante la dominazione francese
Il periodo napoleonico ed il concetto di “égalité” propugnato dalla Rivoluzione francese comportarono l’abbandono di diversi palchi da parte di molti aristocratici filo-asburgici, per lasciare il posto ai “cittadini” filofrancesi che li presero in gestione affittandoli o subaffittandoli.
A puro titolo di curiosità, includo uno stralcio del contratto di affitto stipulato il primo nevoso, anno VII (21 dicembre 1798) dal “cittadino” Francesco Cambiasi (proprietario del Caffè del Teatro) col Ministero della Polizia e il Dicastero di Polizia del Comune di Milano interessati ad occupare il palco n° 17, II ordine, settore destro, appartenuto sino al 1796 al Conte Emanuele Kewenhüller, alto funzionario del governo austriaco, in quel momento poco gradito alle autorità francesi e quindi fuori Milano. Dopo le firme di rito si legge:
Consegna del Palco alla Scala
da: Teatro alla Scala – Ufficio Ricerca Fondi Musicali – Conservatorio G. Verdi di Milano
Plafone piturato
Due tende, e padiglioni alla romana di lustrini color cedrone
Tappezzerie in due pezze di damasco bianco e giallo
N.° 2 Poltrone e N.° 6. Scagni con due cuscini per scagno con guarnitura eguale alla tappezzeria
N° 2 specchi incassati
Due braccialetti per le candele con un solo tondino di cristallo
Un tappeto rigato ad uso di stuoia
Due ferri di tenda, uno per il padiglione ed uno alla portina
Un contro antiporto fodrato di bajetta con un cristallo in mezzo
Nel Camerino
N.° 2 guarnerj con serratura, e chiave
Un portamantello
Una sgabella = due orinali = un candeliere di legno
Gli sconcertanti comportamenti di allora
Il rispetto del silenzio durante gli spettacoli, fossero questi opere o concerti o melodrammi, era una pura utopia. Direi, anzi, c’era anarchia totale! I palchi erano considerati come delle estensioni di casa propria o dei piccoli pied-à-terre: in quanto tali, venivano utilizzati come luogo di ritrovo, di conversazione, di gioco, affari, pranzi e, spessissimo pure come alcova per incontri amorosi inconfessabili, grazie alle tende, chiudendo le quali, si potevano celare le scene più scabrose, alla vista di quanti amavano “spiare” le mosse di tutti.
CURIOSITA’ SULLA PRIVACY
Un grande lampadario con ottantaquattro lampade a olio, progettato dallo scenografo Alessandro Sanquirico venne appeso al centro del soffitto del salone, nel 1823. Precedentemente non esisteva alcun lampadario centrale. L’innovazione fu motivo di vivaci polemiche da parte dei palchettisti, contrariati perché vedevano in “cotanta illuminazione sfolgorante”, la volontà da parte di occhi indiscreti, di penetrare nell’intimità dei loro palchi.
Gli ospiti illustri
Come in ogni salotto che si rispetti, anche allora si faceva a gara per ospitare nel proprio palco, i personaggi più illustri, quasi fossero trofei da esibire. Mostrare a tutti nel proprio palco, gli intellettuali di maggior spicco, era un modo come un altro, per aumentare il proprio prestigio. Fra i più richiesti, l’abate Giuseppe Parini, il poeta Ugo Foscolo (che amava portarvi le sue amanti) o lo scrittore Alessandro Manzoni, incallito giocatore di carte. Per non contare poi i vari Giuseppe Mazzini, Vincenzo Monti, Silvio Pellico, Vincenzo Bellini, Stendhal, George Gordon Byron, Giovanni Berchet, Franz Liszt, Francesco Hayez e tanti altri.
La Scala, come centro della vita cittadina
Era un modo totalmente “diverso” d’intendere il Teatro. La Scala assomigliava un po’ all’agorà, la piazza dei tempi antichi, rappresentando, in effetti, il centro della vita cittadina, il luogo principale di incontri e di relazioni sociali.
Sempre Stendhal definì la Scala come “il salotto che riuniva tutti i salotti di Milano”: ci si incontrava, si stringevano mani, si discuteva, si concludevano affari. Si guardava e ci si lasciava guardare. Era un luogo caldo, palpitante di vita e di persone.
In simile contesto, la cultura passava decisamente in secondo ordine. Lo spettacolo era solo un pretesto per sfoggiare, soprattutto nelle grandi occasioni, abiti ed acconciature talmente elaborate, da aver richiesto addirittura di elevare l’entrata ai palchi. Questo spettacolo nello spettacolo, la smodata vanità e il desiderio di esibirsi, erano senz’altro, gli elementi principali alla base dell’amore che i nobili milanesi nutrivano per il loro teatro.
Indubbiamente, fare l’attore o il cantante, in quelle condizioni, non dovevano essere mestieri di grande soddisfazione. Salvo rare eccezioni, gli artisti, in generale, erano poco considerati. Se poco graditi, gli attori venivano spesso espulsi dalla scena a furia di fischi e schiamazzi. C’erano delle vere e proprie lobbies di nobili organizzati, che arrivavano al punto di far stampare fogliettini riportanti il nome degli artisti favoriti da sostenere, che lanciavano dai palchi, alla loro comparsa in scena.
A parte questi eccessi, gli spettacoli venivano comunque in second’ordine, essendo intesi più come complemento, o riempitivo, nei rari momenti di relax. Era tale la confusione a teatro che le rappresentazioni erano percepite unicamente come un succedersi di scene e di episodi più intuiti che compresi, essendo praticamente impossibile prestare attenzione allo svolgimento della trama. Giocando a carte, capitava, di tanto in tanto, di dare un’occhiata al susseguirsi delle scene sul palcoscenico. Pertanto, fungendo quasi da musica di sottofondo, gli spettacoli venivano seguiti distrattamente dal pubblico. Non c’era quindi da scandalizzarsi, se qua e là, in qualche raro momento di semplice brusio, capitava di sentire, in sottofondo, pure il sonoro russare di quanti, annoiati dalla musica o dai melodrammi in programma, approfittavano dell’occasione, per schiacciare un pisolino.
Il retropalco (o camerino)
Nel retropalco, uno specchio celava la finestrella di una canna di scarico, usata come pattumiera per eliminare la cenere della stufa usata per riscaldare gli ambienti, Su di essa, fra l’altro, i servitori usavano pure riscaldare le pietanze, prima di servirle ai commensali. (I piatti venivano ordinati al caffè-rosticceria di fianco al teatro oppure preparati dagli stessi servitori dei nobili nelle cucine ricavate al secondo Ridotto del Teatro). Era normale, ad esempio, dopo aver pranzato con gli amici, intrattenerli mettendosi a giocare a carte al lume di candela, scambiando due chiacchiere, fumando sigari e scolando intere bottiglie di vino, il tutto naturalmente durante lo svolgimento della rappresentazione. Altrettanto usuale era lo scambiarsi battute con i palchettisti dei palchi vicini, incuranti di fare silenzio mentre gli attori o i cantanti stavano esibendosi sul palcoscenico.
Ndr. – Non ci si pensa ma, abituati come siamo oggi, entrare a quei tempi alla Scala, non doveva essere proprio piacevolissimo. L’aria viziata dell’ambiente chiuso (senza finestre) doveva essere piuttosto sgradevole in assenza di adeguato ricambio: non essendoci la luce elettrica prima del 1883, salone e palchi erano in perenne penombra essendo illuminati unicamente dalle flebili fiammelle delle candele e, più tardi, anche dalle prime lampade a gas. Pertanto quell’aria era sicuramente appestata dall’asfissiante fumo delle lampade ad olio e dalle candele sempre accese, cui si mescolava l’acre odore del tabacco bruciato dei sigari degli aristocratici (che usavano fumarli per darsi un contegno – noblesse oblige). Il teatro poteva tenere fino a 2000 persone e la permanenza non era limitata alla durata di un solo spettacolo come oggi. Non era tutto: all’odore del cibo servito nei palchi, non bisogna dimenticare quello molto più sconvolgente, dei forti profumi che la nobiltà usava spruzzarsi addosso per coprire la cronica mancanza d’igiene personale. (Non dimentichiamo che era già tanto se, all’epoca, i nobili riuscivano a fare un bagno all’anno!)
La platea
Non esistevano poltroncine in platea: essendo considerata quella, un’area di second’ordine, destinata alle “classi inferiori”. Prevedeva solo dei posti in piedi o al massimo delle “sedie volanti” e dei canapè a due o tre posti.
Nonostante l’élite che frequentava i palchi fosse tutta “blasonata”, le regole del “Bon Ton” non erano sempre molto seguite. Era piuttosto rischioso soffermarsi sotto i palchi, stante l’insana abitudine di diversi nobili, complice il buio della sala, di sputare dall’alto o di far volare dai balconcini dei resti di cibo!
Quest’area era prevalentemente riservata alle cosiddette “Cappe nere”, cioè ai numerosi servitori dei palchettisti, che, in attesa di accorrere al palco ad un cenno del loro padrone, se ne stavano lì, in piedi, a chiacchierare fra loro e a godersi gratuitamente lo spettacolo. Pure loro non prestavano molta attenzione allo svolgimento delle rappresentazioni, ma a volte si accaloravano per le esibizioni di singoli virtuosi, cui venivano richieste spesso le ripetizioni delle arie maggiormente orecchiabili.
La platea veniva pure usata come sala da cerimonie e, in occasione di feste di corte o di società (ad esempio la festa di Carnevale), anche come sala da ballo.
Essendo un’area aperta al pubblico, non era infrequente che si tenessero persino chiassose feste con compagnie non sempre raccomandabili. Era insomma, un centro cittadino aperto, anche se quasi esclusivamente destinato all’aristocrazia e all’alta borghesia della città. Pare addirittura che in platea, durante gli intervalli fra uno spettacolo e il successivo, qualche volta si facessero persino delle gare di equitazione!
Il Ridotto dei palchi
Oggi sicuramente potrà sembrare strano, ma all’epoca, una delle maggiori fonti d’introito per il Teatro alla Scala non erano gli spettacoli, bensì il gioco d’azzardo. Era infatti una pratica assolutamente lecita, il giocare a carte e alla roulette nelle aree dedicate allo scopo. La prima, più chic, era al primo piano, o piano nobile, quello che oggi ospita l’elegante Ridotto dei palchi, che si apre verso la terrazza sovrastante il portico, all’ingresso del teatro. E’ un vasto ambiente a colonne, in cui gli spettatori potevano incontrarsi e svagarsi. Le salette attigue, dove oggi è allestito il Museo del Teatro, erano tutte dedicate ai vari tipi di gioco d’azzardo. La seconda area ove si giocava d’azzardo, era in corrispondenza dell’attuale prima galleria.
Vi era chi andava alla Scala non per gli spettacoli, ma unicamente per tentare la fortuna! Quel settore del teatro non era riservato unicamente ai nobili, ma poteva essere frequentato dalla borghesia (a patto mantenesse un “look” adeguato). Concepito inizialmente come diversivo per intrattenere il pubblico durante i lunghi intervalli fra i vari atti dello stesso spettacolo o fra una rappresentazione e la successiva, finì ben presto con l’essere il polo di attrazione frequentatissimo anche durante gli spettacoli.
Il Maestro del Ridotto fungeva da direttore: aveva il compito di provvedere alle varie esigenze dei giocatori, compreso il prestito del denaro sulla parola; la parola, d’altronde, era considerata sacra, e il prestito andava reso entro il giorno successivo. Così, mentre i nobili si davano appuntamento al Ridotto per sfidare la Dea bendata, le rispettive dame rimaste nei palchi sole ed annoiate, non perdevano l’occasione per ricevere i loro amanti clandestini.
Il gioco d’azzardo a Teatro era previsto solo nelle giornate di spettacolo, come svago e passatempo per i suoi frequentatori. Le giornate in cui il Teatro non prevedeva spettacoli in programma, anche se aperto per le prove, non era naturalmente possibile andarvi a giocare. Poiché nei caffè, almeno inizialmente era lecita la pratica del gioco d’azzardo, ecco giustificato il fiorire di così tanti caffè, nelle immediate vicinanze del Teatro. Quando, nelle giornate di spettacolo, finiva l’ultima rappresentazione alla Scala e chiudeva quindi anche il Ridotto, tutto il pubblico che giocava d’azzardo, si riversava poi nei caffè tutt’intorno.
Perché giocare era importante
Illusione di guadagni a parte, la conoscenza dei vari giochi, costituiva un viatico indispensabile per il gentiluomo alla moda. Il “linguaggio dei giochi”, essendo praticato ovunque in Europa (particolarmente in Francia e Germania), permetteva di essere introdotti nelle Corti e nei salotti buoni dell’aristocrazia: era quindi il passe-partout indispensabile per riuscire ad inserirsi nell’alta società ed essere pure notati. Il veneziano Giacomo Casanova (1725 – 1788), notissimo seduttore libertino, ma anche scrittore, poeta, diplomatico, alchimista e scienziato, dichiarò. nei suoi scritti, di conoscere ben ventidue diversi tipi di gioco d’azzardo.
I giochi più in voga a Milano
Vi erano diversi giochi all’epoca che andavano per la maggiore: biribissi, faraone, bassetta ma anche il Trictrac (l’attuale backgammon). Si prediligevano i giochi d’azzardo ad alto rischio, in cui contava più la fortuna che l’abilità, ma si giocavano anche altri giochi non d’azzardo, ancora attuali, come il Tressette o gli Scacchi.
Oggi, salvo rare eccezioni, molti di questi giochi d’azzardo, sono andati in disuso: capita di vederli ancora praticati in alcune locande di paese qua e là, in giro per l’Italia. Tutti avevano come protagoniste le carte e i dadi: i croupiers erano, molto spesso, dei nobili che, finiti sul lastrico col gioco e costretti a lavorare per vivere, sbarcavano il lunario mescolando mazzi di carte, incamerando le poste in gioco, lanciando i dadi o estraendo le palline.
L’editto austriaco del 1788
Come vera e propria malattia da dipendenza, il gioco d’azzardo ebbe effetti davvero devastanti per tante famiglie borghesi, costrette ad indebitarsi per continuare a vivere. La cosa raggiunse, nel giro di pochi anni, proporzioni tali da obbligare lo stesso governo austriaco ad intervenire in merito.
Dimostrando di aver preso a cuore il problema e di voler curare questa febbre per il gioco d’azzardo, nel 1788 (dieci anni dopo l’apertura della Scala) l’imperatore Giuseppe II emanò una disposizione che lo proibiva. Era naturalmente tutta una farsa, il classico fumo negli occhi della gente! L’apparente dimostrazione di preoccupazione per la salute pubblica, celava ben altro. Infatti, fiutato il notevole utile che, per le casse di Vienna, sarebbe potuto derivare dalla tassazione del gioco d’azzardo, cui la gente, a causa della dipendenza, non riusciva più a rinunciare, l’Imperatore non volle perdere l’opportunità di sfruttare questa grossa occasione. L’editto emanato fu, in realtà, una proibizione a metà. Divieto tassativo del gioco d’azzardo in tutta la città, eccetto che alla Scala nelle sole giornate di spettacolo.
Essendo per lo Stato, praticamente impossibile far cassa, tassando le vincite in qualunque bettola si praticasse il gioco senza adeguato controllo, era chiara la possibilità di percepire lauti guadagni, se si fosse operato il controllo dove giravano più soldi …. in un solo posto, prevalentemente frequentato dalla ricca nobiltà, la Scala appunto. Dal 1796, quando Milano passò sotto la dominazione francese, i transalpini mantennero valide le disposizioni austriache relative al gioco d’azzardo.
I Caffè
Naturale quindi che, fatta la legge, ci si inventi un modo per aggirarla. Non tutti accettavano di piegarsi supinamente alle nuove disposizioni. Diversi gestori di Caffè intorno alla Scala, per mantenere la clientela anche nei giorni di chiusura del Teatro, l’attiravano consentendo loro il gioco d’azzardo, nonostante i divieti. Certamente era rischioso per i possibili controlli, ma i giocatori d’azzardo sono avvezzi al rischio!
L’affluenza quindi, in un locale piuttosto che in un altro, non era solo questione di moda, ma pure di opportunità ludiche offerte.
Il Caffè dell’Orto ad esempio, nonostante la posizione (era esattamente di fronte all’ingresso del Teatro alla Scala, al di là della strada), era visto meno favorevolmente degli altri: per “sua sfortuna” infatti, era prediletto dagli ufficiali e frequentato dalla polizia austriaca. Essendo un luogo di conservatori, era sicuramente, proprio per questo, uno dei meno affascinanti.
Tutt’altro ambiente invece, era quello che si trovava al Caffè del Teatro, nella Piazzetta del Teatro alla Scala 1149, fondato da Francesco Cambiasi: il locale, molto ampio, fungendo da bottiglieria, in poco tempo, riuscì ad attirare una bella fetta del mondo aristocratico ed artistico che gravitava attorno alla Scala. Divenne pure una rosticceria in grado di fornire prelibatezze appena cucinate, portandole direttamente ai palchi dei nobili che usavano consumare i loro pasti nel palco, durante gli spettacoli.
Ai primi dell’Ottocento avevano aperto i battenti altri locali come il Caffè dell’Alba, il Caffè della Fenicia e il Caffè delle Sirene e poi il Caffè dei Virtuosi. Quest’ultimo, in particolare, era molto frequentato dagli artisti e orchestrali della Scala, per la simpatia che ispirava loro il suo giovane e ingegnoso proprietario. Era stato lui infatti che qualche anno prima, quando ancora garzone di bottega, memorizzando le preferenze della gente mentre prendeva le ordinazioni ai tavolini del caffè presso cui lavorava, aveva inventato la famosa miscela di caffè, cioccolata e panna che stava facendo furori. Gli avventori l’avevano chiamata barbajada dal cognome del suo inventore, Domenico Barbaja, addirittura considerato un genio per questa sua idea. Il fatto che questo Caffè fosse particolarmente frequentato dipendeva oltre che da questo, anche dalla possibilità offerta dal Barbaja (soggetto piuttosto spregiudicato) di giocare d’azzardo nel suo locale soprattutto nelle giornate di chiusura del Teatro, in barba a tutti i divieti. I francesi, pur a conoscenza della cosa, pare tollerassero questo illecito, perché le tasse che il gioco generava, erano indispensabili al governo locale, per finanziare le campagne delle armate napoleoniche. I degustatori della barbajada originale, portarono tanti di quei soldi al creativo Barbaja da permettergli, addirittura, di vincere il bando di gara per gestire il gioco d’azzardo all’interno del teatro. Fu lui, nel 1805, il primo a portare il gioco della roulette all’interno della Scala.
Il Caffè dei Virtuosi si mise pure in competizione con i vicini Caffè Borrani e Accademia, per inventare sempre nuovi sapori e abbinamenti nella preparazione delle bibite e dei gelati che venivano portati e serviti nei palchi della Scala. Il pubblico che assisteva alle rappresentazioni, faceva delle ordinazioni precise e d’estate, usava consumare, forse per il gran caldo della sala, soprattutto i sorbetti. Lo scrittore francese Stendhal che, innamorato della città, visse per qualche anno a Milano, affiancava alla passione per le donne, quella per i gelati, che ovviamente gustava, comodamente seduto proprio ai tavolini del Caffè dei Virtuosi.
Discorso a parte merita, invece, il Biffi-Scala, anche perchè figurava essere uno dei locali più recenti. Era molto più di un semplice Caffè, ma un vero e proprio luogo leggendario: chiuso il sipario, la Scala al completo si trasferiva qui per gustare il mitico risotto al salto ideato da Pietro Biffi per dare inizio ai commenti a caldo sulle rappresentazioni canore, appena andate in scena.
Negli anni della ricostruzione del teatro dopo la guerra mondiale, usava venire a sedersi a quei tavoli il Maestro Arturo Toscanini che, a dispetto delle prelibatezze della casa, ordinava soltanto minestrine. In compenso comunque, pasteggiava unicamente a champagne! Negli anni 50 poi, la Callas e la Tebaldi si lanciavano occhiate di fuoco tra i tavolini apparecchiati, a dimostrazione che nonostante odi e rivalità, qui ci venivano proprio tutti i protagonisti della lirica. Il locale sorgeva proprio dove prima c’era il Caffè della Scala, entrato nella leggenda perché, nel 1847, Paolo Biffi, confettiere di Casa Savoia, preparò un panettone di grandi dimensioni da regalare a Papa Pio IX. Fece quindi in modo che il dolce natalizio, grazie a una speciale carrozza, fosse recapitato il più in fretta possibile a Roma.
I giochi d’azzardo
Il Biribissi
Il Biribissi (o Biribisso o anche Cavagnola) è un gioco d’azzardo Italiano antesignano della roulette, praticato qui da noi, già almeno dal XVII secolo. Inizialmente si praticava nelle bettole, osterie, locande o comunque in luoghi frequentati da personaggi poco raccomandabili, tanto che non erano infrequenti le risse e scazzottate. Indipendentemente dall’età, dal sesso e dal ceto sociale, il gioco, essendo molto semplice, piaceva davvero a tutti. A poco a poco, anche la nobiltà iniziò ad interessarsi a questo gioco molto particolare e sicuramente divertente.
Il Biribissi veniva giocato utilizzando un tabellone simile a quello della tombola, con regole e risultati analoghi al gioco della roulette:
sul tabellone erano contrassegnati i numeri da 1 a 70 o altrettante figure, e il banco deteneva naturalmente un sacchetto con i 70 talloncini o figure corrispondenti.
COME SI GIOCAVA.
Prima di ogni estrazione, i giocatori puntavano una somma su uno o più numeri del tabellone. Al momento dell’estrazione, i fortunati, che avevano puntato sul numero risultato estratto per primo, ricevevano 64 volte la posta, gli altri perdevano e pagavano al banco.
Uno dei più Illustri personaggi che si dilettarono al Biribissi, fu Giacomo Casanova. Era allora ventenne quando a Venezia rimase ammaliato da questo gioco che, in tutta la Repubblica Serenissima era già stato bandito. Partì allora alla volta di Genova, ove era ancora lecito, per concedersi qualche partita di Biribissi. Per uno sfacciato colpo di fortuna o forse barando, in accordo con il battitore, riuscì a far saltare il banco! Ma dopo questo exploit, fu costretto a levare le tende, prima che qualche genovese inferocito gli facesse la festa.
Lo storico genovese Gian Francesco Doria arrivò a dichiarare che il Biribissi, creando dipendenza, era addirittura una delle principali ragioni della decadenza e della rovina della nobiltà genovese. Dopo tanti decreti caduti nel vuoto, a Genova, questo gioco fu definitivamente debellato con una legge severissima nel 1747.
Il Faraone
Il Faraone era un gioco di carte d’azzardo tra i più in voga nel ‘700 in Italia e in Europa. Ebbe enorme seguito: fece divertire intere generazioni, ma rovinò anche numerose famiglie.
Si racconta che la regina Maria Antonietta, grande giocatrice del Faraone, abbia dilapidato una fortuna senza che Luigi XVI facesse qualsiasi tentativo per fermarla. Il Faraone fu uno dei giochi più alla moda del periodo, nei lussuosi salotti francesi.
Ci giocava anche Casanova che, nella sua biografia, racconta di aver fatto una fortuna con questo gioco.
Il Faraone si poteva giocare con un numero indefinito di giocatori contro il banco.
Per giocare si usava un mazzo di 40 carte regionali.
COME SI GIOCAVA
Stese sul tavolo 10 carte dell’Asso al Re, i giocatori potevano fare le puntate su tali carte.
Il mazziere doveva sempre far tagliare il mazzo e scoprire una carta sul tavolo, carta questa che si scopriva per tradizione, ma che non aveva alcun valore ai fini del gioco.
Il gioco era alla pari. Ognuno poteva puntare su una o più carte: in caso di perdita, il mazziere ritirava la puntata del giocatore, in caso di vincita, il mazziere raddoppiava la sua puntata.
Terminata la fase delle puntate, il mazziere girava la prima carta coperta del mazzo, la carta “buona per il banco”. In questo caso il mazziere ritirava tutte le puntate che erano state messe sulla carta corrispondente a quella che è stata scoperta.
Girava quindi una seconda carta, carta “cattiva per il banco”. In questo caso, pagava tutte le puntate fatte sulla carta corrispondente a quella uscita.
Il gioco continuava alternando queste due fasi, buona e cattiva, fino all’esaurimento delle puntate poste sul tavolo.
Se dopo il nono colpo c’erano ancora delle puntate su delle carte non uscite, il mazziere doveva girare due carte “cattive per il banco”.
La Bassetta
Questo gioco è l’evoluzone del Faraone, ed è ancora in voga in Emilia Romagna.
La Bassetta si poteva giocare con quattro giocatori contro il banco.
Sono necessari due mazzi di 52 carte, uno per il banco, l’altro diviso tra 4 giocatori.
COME SI GIOCA
I giocatori scelgono, tra le 13 carte a disposizione di ciascuno, quelle su cui puntare.
Il banco scopre a sua volta due carte determinanti delle vincite e delle perdite, una per sé, l’altra per i giocatori.
Chi ha puntato su una carta uguale a quella che il banco ha dichiarato come carta vincente per i giocatori, incassa la posta; chi ha puntato su una carta di ugual valore di quella del banco, la perde. [rif. – Sapere.it]
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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