La vera storia della Monaca di Monza
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Alessandro Manzoni, nel suo romanzo storico “i Promessi Sposi”, ha voluto fornirci uno spaccato della vita e dei costumi ai tempi della peste del 1630, intrecciando la vicenda dei due protagonisti principali con fatti di cronaca realmente accaduti in quel periodo, sapientemente romanzati. Di questi episodi di cronaca, ne prendo in esame uno in particolare, noto ai più come “la storia della monaca di Monza”. Conosciuta come “la Signora”, la figura di “Suor Gertrude“, è probabilmente una delle più contraddittorie ed affascinanti dell’intero romanzo. Il personaggio manzoniano viene descritto come la figlia di un influente principe di Milano, è ispirato a Marianna de Leyva, una donna realmente esistita, figlia del conte Martin de Leyva di Monza. Il Manzoni, nel suo romanzo, si ispirò, per tanti dettagli, alla lettura degli atti processuali. I fatti si svolsero a cavallo tra gli ultimi anni del XVI secolo e il primo scorcio del XVII. Dal punto di vista religioso, tale epoca storica fu caratterizzata dalla Riforma protestante da una parte, e dalla Controriforma cattolica dall’altra. Su di esse si imperniò, poi, tutto lo svolgersi della vita civile e sociale del Seicento. Il Manzoni non poté riportare con esattezza alcuni dei particolari più importanti definiti ai suoi tempi, “top secret”, poiché i fatti realmente accaduti erano considerati talmente scabrosi che la Curia di Milano ne consentì la trascrizione completa, e la lettura, solo nel 1957. Vedo pertanto di ricostruire, il più fedelmente possibile, la complessa storia di questa donna che, ai tempi, creò così tanto motivo di scandalo.
Marianna
Virginia Maria nacque a Palazzo Marino a Milano, il 4 dicembre 1575. Era di sangue blu, figlia del nobile Martin de Leyva y de la Cueva-Cabrera, e di Virginia Marino, figlia del noto banchiere genovese Tommaso Marino. Al battesimo, alla piccolina venne dato il nome di Marianna. Trascorse i suoi primi mesi di vita con i genitori in un appartamento al pianoterra del Palazzo all’angolo fra via Case Rotte e Piazza San Fedele. Il nonno materno, divenuto simbolo del potere economico e politico nello Stato di Milano, ai tempi di Carlo V, aveva fatto costruire quel palazzo senza badare a spese, desiderando fosse il più bel palazzo della città. Per edificarlo aveva fatto radere al suolo mezzo quartiere, attirando così su di sé le maledizioni e le più funeste profezie dei milanesi, estese pure ai suoi discendenti.
Chi erano i De Leyva
Il padre di Marianna, Martin, figlio secondogenito di Luis, a sua volta, figlio di Antonio de Leyva, il primo governatore spagnolo di Milano, era per diritto ereditario, conte di Monza.
Ndr. – Martin de Leyva era infatti il nipote di Antonio de Leyva, condottiero spagnolo per conto dell’imperatore Carlo V. Questi, per i meriti militari conseguiti nella battaglia di Pavia del 1525, in cui era stato fatto prigioniero il re di Francia Francesco I, fu investito nel 1531, dal Duca Francesco II Sforza, del feudo di Monza, nonché del titolo di conte e del diritto di riscossione di tutti i dazi e delle imposte locali.
La madre di Marianna, Virginia Marino, era rimasta vedova il 20 gennaio 1571, all’età di soli 30 anni, del conte Ercole Pio di Savoia, signore di Sassuolo ucciso in combattimento mentre era al servizio di Venezia. Con lui aveva avuto un solo figlio maschio, Marco III Pio di Savoia (1568), e quattro femmine:Lucrezia, Benedetta, Vittoria e Anna. Il 22 dicembre 1574 si era risposata in seconde nozze, con il conte Martin de Leyva, portandogli come cospicua dote, le terre di Sassuolo ereditate dal marito defunto. Dal loro amore, nacque, nel dicembre 1575, Marianna.
Le nozze di Martín de Leyva con Virginia Marino, costituivano un tassello rilevante nella strategia di affermazione dei Leyva in terra lombarda. La loro, era una nobiltà recente, bisognosa di affermarsi nel panorama nobiliare italiano ed il matrimonio con una discendente di una famiglia facoltosa come i Marino, rappresentava, per i Leyva, motivo di vanto e orgoglio.
Neanche un anno dopo aver dato alla luce la figlia, Virginia Marino era morta di peste a Milano, nell’ottobre 1576, lasciando, in virtù del maggiorascato, eredi universali del suo grosso patrimonio, i soli primi figli avuti dai due matrimoni.
Ndr. – Il maggiorascato era un istituto di diritto successorio nato in Spagna e diffuso nel XVI secolo. Intendeva assicurare l’integrità di un patrimonio attraverso la sua costituzione in fedecommesso e la trasmissione, nell’ambito della stessa famiglia, senza riguardo alla discendenza, dall’ultimo possessore al parente più prossimo di grado e, in caso di parità di grado, al maggiore di età.
fedecommesso è la disposizione testamentaria per la quale chi è istituito erede, ha l’obbligo di conservare l’eredità e di trasmetterla, a un momento stabilito, in tutto o in parte, ad altra persona.
La morte prematura di Virginia, sancì la fine del progetto di rilancio delle sorti della famiglia dei de Leyva, che non stava navigando economicamente in buone acque.
L’impugnazione del testamento della defunta portò nel 1580 ad una serie di controversie legali e malversazioni fra Enea Pio di Savoia (zio e tutore di Marco III Pio figlio ancora minorenne avuto da Virginia dal precedente matrimonio) , e don Martin de Leyva (tutore di Marianna). Il tutto si risolse con una mezza debacle per il De Leyva, che riuscì ad ottenere solo l’usufrutto delle 5 parti dell’eredità destinata a sua figlia, mentre le altre 7 andarono a Marco III Pio di Savoia.
Ndr. – Usufrutto: Quando un bene è gravato da usufrutto il proprietario viene a trovarsi nella situazione di “nudo proprietario”, conservandone dunque solo la proprietà ma spogliandosi delle prerogative di uso e godimento dello stesso, dato che sarà solo l’usufruttuario a poter godere del bene, traendo tutte le utilità che possono derivare dallo stesso, con l’obbligo di non cambiarne la destinazione economica.
Naturalmente il poter disporre del solo usufrutto delle cospicue sostanze della figlia non era nei piani di don Martin essendo questo ben poca cosa nell’ostinato tentativo di risollevare le sorti del suo casato, per cui, con un cinismo senza pari, tradendo totalmente il suo ruolo di padre, pensò di architettare un feroce complotto ai danni della piccola Marianna, pur di garantirsi il patrimonio della figlia, senza che potesse andare disperso. Da padre padrone qual era, decise, quando Marianna aveva appena compiuto i cinque anni, che, volente o nolente, da grande, avrebbe dovuto farsi monaca. La monacazione avrebbe comportato due vantaggi: il primo che la figlia non avrebbe più potuto disporre dei suoi averi, il secondo che le sarebbe stata preclusa la possibilità di sposarsi annullando in tal modo, il rischio di disperdere il patrimonio familiare. Una lunga opera di convincimento propinata a piccole dosi, una sorta di lavaggio del cervello, che aveva pensato bene di demandare ad altri perché lui, abdicando alla funzione educativa di padre, era perennemente assente. Un’autentica associazione a delinquere sulla pelle di una bambina che mai avrebbe potuto sospettare alcunché dai parenti più prossimi che l’accudivano o dall’ambiente che forzatamente le facevano frequentare. Infatti si sarebbe fatto aiutare da parenti e in seguito, a fronte di promessa di laute donazioni al convento, dalle stesse suore del monastero di Monza ove aveva pensato di collocarla
Marianna affidata alle zie
Così la piccola Marianna, proprio perché erede della fortuna della madre, venne affidata inizialmente alle cure della zia materna Clara Torniello, successivamente a quelle di una zia paterna di Monza tutto casa e chiesa, tanto dispotica quanto bigotta, tale donna Marianna De Leyva Soncino, totalmente incapace di dare alla piccina l’affetto negatole dalla morte della madre. Si rifiutò di allevare direttamente lei la nipote, per il solo motivo che, avendo lei solo figli maschi, non riteneva “cosa moralmente accettabile” che una fanciulla, per quanto ancora bambina, crescesse “in promiscuità” con i suoi figli.
Il padre, ossessionato dall’idea di dar lustro alla sua casata, s’imbarcò in campagne militari al servizio di don Giovanni d’Austria nella guerra delle Fiandre, trovando anche il tempo di risposarsi nel 1588, questa volta con una nobildonna valenciana delle sue parti, Anna Viquez de Monchada, formando con lei una nuova famiglia in Spagna (quattro figli: Luigi, Antonio, Gerolamo e Adriana) e dimenticandosi del tutto della figlia di prime nozze, lasciata a Monza.
L’aut aut
Alla fine di quello stesso anno (1588), Marianna festeggiava i suoi tredici anni. Secondo i costumi di allora, essendo ormai adulta, le fu proposto di entrare in monastero, cosa questa caldeggiata dalla bigotta zia paterna, oppure di accasarsi, unendosi in matrimonio combinato con tale Gustavo Branciforte, principe di Butera, di ben venticinque anni più vecchio di lei (soggetto a lei sconosciuto).
La “monacazione”, scelta sofferta
Tra le due alternative, Marianna, preferì affrontare alcuni anni di noviziato nel convento di clausura di Santa Margherita in Monza, oggi non più esistente essendo stato distrutto dai bombardamenti Alleati del 1944.
Già precedentemente era stato un convento “chiacchierato”, centro di strani fatti “soprannaturali” che avevano richiesto l’intervento di benedizione di San Carlo Borromeo. Diavolerie, si diceva, causate da folletti e simili …
Dopo il noviziato, la Signora di Monza diventò monaca il 12 settembre 1591. Pur non avendo la minima vocazione, prese i voti, assumendo il nome di Virginia Maria. Insieme a lei, fecero la loro professione di fede pure le amiche Benedetta Homati e Ottavia Ricci.
I primi anni trascorsi in monastero, furono relativamente tranquilli per Marianna, anche perché, su delega paterna, le fu concesso di esercitare dall’interno del convento, i poteri signorili sul feudo di Monza. Un documento autografo del dicembre 1596, testimonia ad esempio che essa, in virtù dell’autorità ricevuta dal padre, proibì la pesca in un tratto del Lambro, prossimo al convento francescano di S. Maria in Carobiolo, concedendone ai frati il diritto esclusivo. Inoltre, nonostante l’età molto giovane, in virtù delle sue nobili origini, le venne concessa la funzione di vicario.
Ndr. – vicàrio [derivato. dal latino vicis «vece»] è colui che esercita un’autorità o una funzione in sostituzione o in rappresentanza di altra persona di grado superiore.
Il primo incontro con Gian Paolo Osio (1597)
L’anno di svolta nella vita di suor Virginia Maria fu il 1597, allorché ebbe il suo primo fortuito incontro con il giovane Gian Paolo Osio, rampollo di un’agiata famiglia monzese, i cui membri, il padre ed il fratello Cesare in particolare, erano noti per l’esercizio delle armi ed i frequenti atti di violenza.
“Ricco e ozioso …. bruno, alto, snello, d’una eleganza innata, anche se qualche volta mal vestito e trascurato, dotato di quella specie di fascinoso prestigio che deve agli esercizi fisici, come la scherma, la danza e l’andare a cavallo …. molto ben conosciuto dalla Superiora del monastero di Santa Margherita, suor Francesca Imbersaga, e anzi amico del convento che si serve spesso dei suoi stessi servitori per le proprie commissioni”. Così lo descriveva lo storico Giuseppe Ripamonti nella sua Historiae Patriae del diciassettesimo secolo. L’Osio vantava rapporti di amicizia con altolocate famiglie lombarde, quali i D’Adda, i Borromeo, i Taverna ed i Visconti.
CHI ERANO GLI OSIO
Eloquente, come Wikipedia definisce Gian Paolo Osio: “è stato un nobile e criminale italiano”.
Apparteneva al ramo bergamasco degli Osio trasferitosi da Milano a Monza, a fine Duecento, in seguito al predominio dei Visconti sui Torriani.
Il padre, Giovan Paolo, conte del feudo di Usmate, presso Monza, durante il dominio spagnolo, risiedeva in un castello oggi non più esistente.
Gian Paolo (suo figlio, nato nel 1572), era stato cresciuto in un ambiente ove violenza e prepotenza venivano usualmente perpetrate ai danni dei sottoposti. A Monza, il giovane, appena maggiorenne, acquistò un palazzo confinante proprio con il cortile del monastero di Santa Margherita.
Intemperante per natura, predisposto geneticamente al crimine, non si fece alcuno scrupolo ad assassinare, per ambizioni economiche, il conte di Solbiate. Temendo, dopo quell’evento, probabili vendette nei suoi confronti, da allora aveva preso l’abitudine a non uscire da casa, se non sempre scortato da un nutrito gruppo di bravi armati fino ai denti.
Quel rimprovero galeotto – Il caso Isabella
A dire il vero, la conoscenza con l’Osio, non fu delle più felici. Dalle finestre del suo palazzo, attiguo al convento, Gian Paolo Osio aveva preso l’abitudine di osservare le educande che, nel cortile del monastero, passeggiavano e giocavano durante l’intervallo fra le lezioni. Un giorno adocchiò, invaghendosi di lei, una certa Isabella degli Hortensi, appartenente ad una ricca famiglia monzese, e cominciò, a gesti d’intesa, ad “amoreggiare” con lei. Venuta a conoscenza di tale relazione a distanza (ovviamente innocente), Suor Virginia (feudataria di Monza e in convento, maestra responsabile delle educande) non si limitò ad un energico rimprovero ai due, ma il fatto, riportato ai genitori di Isabella, ebbe come epilogo, il ritiro immediato della ragazza dal monastero. Sua madre sicuramente consapevole di quale “influenza sociale” avesse a Monza la casata dei De Leyva, temendo che il possibile “scandalo” avrebbe potuto “diffamare” il buon nome della famiglia, fece in modo di maritare la figlia nell’arco di due sole settimane.
Picche e ripicche: l’omicidio Molteni (1597)
Per tutta risposta, pochi giorni dopo questi fatti, (era l’ottobre del 1597), Osio, in seguito ad un improvviso diverbio, assassinò a sangue freddo con una archibugiata, Giuseppe Molteni, sessantenne gabelliere dei de Leyva, signori di Monza, quasi a volersi vendicare con Suor Virginia per lo sgarbo subito. Voleva essere quello un avvertimento eloquente diretto alla monaca, rea di averlo ‘pescato’ ad “amoreggiare a distanza” con l’educanda.
Non reggendo a simile intimidazione, fu la stessa Marianna, che, accortasi che l’assassino ricercato si era rifugiato in casa propria riuscendo ad eludere la sorveglianza della polizia, non esitò a denunciarlo ai rappresentanti della giustizia perché venissero ad arrestarlo. Osio, fiutando la cosa, riuscì tuttavia a scappare e a far perdere le proprie tracce da Monza e dintorni, giurando a sé stesso eterna vendetta nei confronti della religiosa impicciona.
“Comandata” a ritirare la denuncia
Dopo solo un anno di latitanza dell’assassino, suor Virginia Maria, dovette cedere alle insistenti pressioni della badessa Francesca Imbresaga (amica della madre dell’ Osio), che, dalla sua posizione, le comandò il perdono sotto pena di obbedienza, perdono già concesso dai suoi fratellastri i conti De Leyva. Acconsentì quindi a ritirare la denuncia che lei stessa, in qualità di feudataria della città di Monza, aveva sporto per quel delitto.
Interpretando il ritiro della denuncia da parte di Marianna come un velato interesse nei suoi confronti, spavaldamente l’Osio, tornato a casa, riprese le sue vecchie abitudini adocchiando dalle finestre del suo palazzo, non più un’altra educanda ma la monaca istruttrice delle stesse, proprio colei che lo aveva denunciato alle autorità, per l’omicidio Molteni. Una vendetta, sotto forma di seduzione, “studiata e pianificata a tavolino”!
Una relazione molto pericolosa (1598)
Suor Virginia, allora, era appena ventiduenne, nello splendore della sua giovinezza. Lui, Gian Paolo, ne aveva venticinque. Notate le insistenti attenzioni nei suoi confronti, lei, i primi tempi, più di una volta, tentò, per onorare la tonaca che indossava, di opporsi alle avances del giovane belloccio, che continuava ad inviarle lettere e la colmava di doni. Alla fine però, forse liberata dagli scrupoli in seguito alla morte del padre, cedette alle lusinghe dell’Osio, aiutato in quest’opera di seduzione, pure dall’amico e confidente Paolo Arrigone, un essere “abbietto”, parroco della chiesa di San Maurizio accanto al convento, pure lui ex-spasimante respinto di Suor Virginia.
Ndr. – Paolo Arrigone. da soggetto intraprendente qual era, cacciato da Marianna, non perse tempo, andando a consolarsi fra le braccia delle amiche di lei, le monache Suor Benedetta e Suor Ottavia.
La relazione fra il conte Gian Paolo Osio e Suor Virginia, fra alti e bassi, durò in tutto una decina d’anni.
I frutti dell’amore proibito (1602 – 1604)
Rimasta incinta una prima volta nel 1602, suor Virginia partorì un bambino morto, che Suor Benedetta e Ottavia consegnarono ad Osio. Tale tragico avvenimento aprì una fase di umori altalenanti in lei, con forti rimorsi di coscienza, sensi di colpa e tentativi di troncare una relazione che mai avrebbe dovuto spingersi ai livelli cui era arrivata.
Incredibile la ricetta contro il “mal d’amore” suggerita alla Monaca di Monza dalle fattucchiere dell’epoca, cui si era rivolta. Le consigliarono di diventare “coprofaga” dell’amante, efficacissimo rimedio, a detta loro, contro il mal d’amore. Si trattava di un brodino fatto con fegato, cipolle ed escrementi essicati dell’amante, il tutto da assaporare per tre volte ogni mattina.
Ma, nonostante avesse seguito fedelmente i consigli, il “mal d’amore” non sparì, anzi divenne più forte! In un’alternanza di desiderio, rimorsi, passione, e timori, il rapporto proibito con Gian Paolo proseguì, al punto che, l‘8 agosto 1604, Virginia diede alla luce una splendida bimba, Alma Francesca Margherita, che lui, incurante delle dicerie, riconobbe subito come sua figlia, facendola battezzare a Milano, alla presenza di testimoni altolocati. Conoscendolo come libertino impenitente, uno scapolo con figlia non destò, nonostante i tempi, più di tanto scalpore. Tutti questi accadimenti erano rimasti “top secret” entro le mura del convento, grazie alla complicità e all’omertà delle suore amiche che, al corrente della tresca, avevano assistito Suor Virginia durante le ore dei due difficili travagli. Fino ad allora, comunque, assolutamente nulla di quanto accadeva al convento era trapelato all’esterno. Certamente nessuno poteva lontanamente sospettare che una suora del convento potesse essere la madre della piccola Alma Francesca. Contrariamente a quanto ci si sarebbe potuti aspettare, Gian Paolo si dimostrò padre affettuoso e premuroso affidando la piccina alle amorevoli cure della propria madre, Sofia Bernareggi (di agiata casata milanese).
Caterina Cassini, la conversa ribelle
Si era nel 1606. Fra le tante converse del monastero, ce n’era una, tale Caterina Cassini da Meda, un po’ più “irrequieta” delle altre, che, a quanto pare, pescata con le mani nel sacco a rubare in dispensa, prima di essere cacciata dal cenobio, come da prassi in questi casi, era stata temporaneamente rinchiusa in punizione nella legnaia per ordine di Suor Virginia. Essendo la conversa naturalmente a conoscenza degli scandali che da tempo si stavano consumando in convento, sapendo della visita che l’indomani Monsignore Pietro Barca, alto prelato di Sant’Ambrogio, avrebbe fatto al monastero, minacciò che se Virginia non l’avesse subito liberata, avrebbe certamente denunciato all’esterno la tresca fra i due amanti. Falliti i tentativi per far recedere la giovane dalle sue intenzioni, l’Osio, informato della cosa, risolse il problema a modo suo. Non esitò ad uccidere Caterina con tre colpi in testa, poche ore prima della visita del prelato. Il tutto, fra l’altro, fu pianificato in modo tale che la scomparsa della conversa figurasse come una fuga volontaria dal convento, attraverso un buco praticato ad arte, nel muro di cinta del monastero, il tutto per guadagnare tempo, facendo distogliere le indagini delle autorità dall’ipotesi dell’omicidio. Il suo cadavere era stato nascosto nel pollaio in attesa di essere sepolto da qualche altra parte, dopo la visita del prelato.
Il giorno dopo L’Osio seppellì, nella sua nevièra, il corpo di suor Caterina mentre la sua testa fu gettata, più tardi, nel pozzo di Velate. Suor Virginia, per tenere sotto controllo le complici, le minacciò che avrebbero fatto la stessa fine se avessero parlato. Quest’omicidio restò a lungo segreto essendo a tutti stato riferito che la conversa era scappata e che di lei si erano perse le tracce.
Ndr. – nevièra Grotta o cantina destinata in passato a deposito della neve che si raccoglieva nell’inverno e si adoperava nella stagione calda per raffreddare cibi e bevande.
Le voci varcano le mura del convento (1606)
Nell’autunno 1606 cominciarono a circolare, al di fuori del monastero, voci incontrollate che nel convento stessero accadendo cose poco chiare, notizie allarmanti. Ad avvalorare tali voci, pure l’imprevisto risultato delle elezioni all’interno del monastero. L’esito della votazione, rovesciando la guida al vertice dell’abbazia consolidata da anni, denunciava un evidente clima di malcontento e la conferma dell’esistenza di irregolarità di cui si stava vociferando in giro. Madre Francesca Imbersaga andava a sostituire suor Virginia nella carica vicaria, suor Angela Sacchi prendeva il posto della superiora Bianca Caterina Homati, in carica dal 1603.
Nuovi omicidi: uno andato a buon fine, altri due no
Per coprire le sue trasgressioni, Osio non ebbe remore a fare il giustiziere macchiandosi di diversi altri crimini nei confronti anche di persone estranee al monastero, che avrebbero potuto rivelare quanto stava accadendo nel convento. Tra le sue vittime ad esempio il fabbro, un certo Cesare Ferrari, al quale il conte Gian Paolo aveva chiesto di contraffare le chiavi del portone del monastero per poter entrare furtivamente nel convento e di lì, non visto, nella cella di Suor Virginia.
Furibondo anche con lo speziale Raneiro Roncino che, al corrente dei fatti per via degli inusuali unguenti che gli venivano commissionati dal convento, stava cominciando a parlarne con la gente in paese, Osio tentò, senza riuscirci, di far fuori pure lui. Un’ archibugiata non andata a segno, salvò il malcapitato. Avrebbe pure voluto uccidere anche Paolo Arrigone, il prete suo confidente, ma Suor Virginia, venuta a conoscenza delle sue insane intenzioni, glielo impedì.
La cosa giunse all’orecchio dell’autorità (1607)
Questi fatti di sangue accaduti nella giurisdizione di Monza, arrivarono alle orecchie del governatore di Milano don Pedro Enríquez de Acevedo, conte di Fuentes. Dopo qualche indagine, durante il carnevale 1607, il governatore ordinò l’arresto di Osio che venne incarcerato nel castello di Pavia.
Mai svegliare il can che dorme …
Il 4 luglio l’Osio commise il grave errore di scrivere una supplica all’arcivescovo Federico Borromeo proclamandosi estraneo ai fatti e chiedendo di essere liberato adducendo a pretesto che l’incompatibilità del suo stato di salute col regime carcerario, avrebbe potuto provocare la sua morte. Nel contempo, Virginia scrisse a Fuentes, dichiarando che tra l’Osio e il monastero, i rapporti erano sempre stati improntati alla massima correttezza.
La supplica del conte all’arcivescovo, ebbe come effetto una visita pastorale di Federico Borromeo al convento per indagare sulla vicenda. Interrogata sui suoi rapporti con Osio, l’accorata difesa di Suor Virginia nei confronti dell’amante, lasciò il cardinale sconvolto. Se ne ritornò a Milano più inquieto e preoccupato di prima.
L’omicidio dello speziale con depistaggio (1607)
Dopo soli pochi mesi di prigionia, a fine settembre 1607 Osio riuscì ad evadere dal carcere del castello di Pavia. Avendo lasciato a Monza, l’anno precedente, dei conti in sospeso, pensò bene di tornare segretamente in città per completare il lavoro non portato a termine. Essendo presente in incognito e non volendo sporcarsi direttamente le mani, ordinò ad uno dei suoi sgherri, tal Camillo detto il Rosso, di uccidere Raneiro Roncino, lo speziale fortunosamente scampato all’attentato l’anno precedente. Il 6 ottobre 1607, un’archibugiata in faccia al Raneiro saldò definitivamente il conto lasciato in sospeso con lui. La sua colpa, secondo l’Osio, era l’aver sparlato in giro di quanto di strano stava avvenendo all’interno del convento, e che la bambina che viveva con lui, era figlia di suor Virginia.
Avendo fatto nascondere la pistola usata per l’omicidio in casa dell’amico prete, naturalmente il maggior indiziato dell’omicidio dello speziale fu il parroco di San Maurizio, Paolo Arrigone. Tradotto nell’Arcivescovado di Milano, questo delitto diede il via al processo, i cui Atti furono solo recentemente pubblicati dopo oltre tre secoli di reticenze da parte della Curia milanese. Al processo subito iniziato nei confronti dell’Arrigone sarà il portinaio del monastero, Domenico Ferrari, a discolparlo, testimoniando a metà ottobre che il vero omicida era il Rosso, su mandato dell’Osio.
Suor Virginia pesantemente implicata
Una serie di eventi fece precipitare, nel novembre 1607, la posizione di Suor Virginia. Le indagini condotte dal governatore Fuentes all’indomani della fuga dell’Osio da Pavia, si erano concentrate sull’abitato di Monza. L’assassinio dello speziale Roncino, proprio in quei giorni, aveva portato alla convinzione che fosse opera del pericoloso evaso nascosto da qualche parte in città. Così si era scoperto che l’Osio. in fuga, aveva trovato nascondiglio sicuro, dapprima nella chiesa di san Maurizio in Monza, e poi proprio nel monastero di Santa Margherita, con l’ovvia complicità dei vertici del convento.
Il suo arresto
Il 25 novembre. 1607, Suor Virginia, per ordine del cardinale Borromeo, fu prelevata, condotta a Milano sotto scorta armata e rinchiusa nel monastero di S. Ulderico, detto del Bocchetto. Due giorni dopo, il vicario arcivescovile Girolamo Saracino diede avvio all’inchiesta nel monastero di Santa Margherita.
Il processo ad Osio (in contumacia)
Fu proprio il delitto dello speziale a fare partire la fase processuale nei confronti dell’Osio e di tutti i suoi complici.
Il 27 novembre del 1607 iniziò il processo contro i principali imputati, tutti già arrestati e rinchiusi in istituti religiosi diversi dal luogo dei delitti. L’unico latitante, il conte Osio che riuscì a sfuggire alla cattura cambiando continuamente domicilio, vagando fra l’uno e l’altro dei suoi possedimenti e nascondendosi pure in quelli dei suoi complici. Tramite un suo servitore, Osio aveva chiesto a suor Benedetta notizie di Virginia che era stata prelevata sotto scorta, ma non sapeva in quale istituto fosse stata incarcerata in attesa dell’interrogatorio e della sentenza. Vista la piega che stavano prendendo gli avvenimenti, suor Benedetta, terrorizzata di dover subire lo stesso interrogatorio cui il Vicario Criminale aveva iniziato a sottoporre le varie suore e di dover quindi essere costretta a rivelare connivenze ed episodi scabrosi, chiese aiuto all’Osio per scappare dal convento e rifugiarsi altrove. Lui si prestò di buon grado assicurandole il suo aiuto. Ai due si aggregò pure suor Ottavia, altra vecchia amica di Virginia. Così il 29 novembre suor Ottavia e suor Benedetta fuggirono con lui fiduciose, sperando di far perdere le loro tracce. Purtroppo per loro, le cose andarono diversamente. Desideroso di far scomparire le sue due complici e quindi le più pericolose testimoni, Osio architettò, nei loro confronti, azioni ancora più immorali di quanto già commesso in precedenza.
Arrivati al ponte sul fiume, lui gettò Suor Ottavia Ricci nel Lambro, colpendola più volte in testa con il calcio dell’archibugio, arma che Osio le aveva teso per salvarla, fingendo un improbabile pentimento. Suor Ottavia si fece credere morta e riemergendo molto più a valle, fu salvata in extremis da un contadino che stava lavorando i campi in prossimità degli argini del fiume. Poiché le ferite riportate erano troppo profonde per riuscire a salvarla, morirà il 26 dicembre, dopo aver deposto in tribunale. Prima di spirare, affiderà la sua confessione ad un sacerdote, facendo il nome di Gian Paolo Osio come l’autore della sua aggressione.
Miglior sorte toccò a suor Benedetta Honorati, testimone dell’aggressione alla complice. Osio, per calmarla, le prospettò la fuga, insieme e una nuova vita con lui. Il 1° dicembre non esitò a gettarla in un pozzo nel Velate, vicino a Vimercate, seppellendola sotto un cumulo di pietre e terra. Quando rinvenne, con una gamba fratturata e delle costole rotte, la donna iniziò a urlare per ricevere soccorso. Verrà trovata due giorni dopo, da alcuni contadini che avevano sentito dei gemiti provenire dal pozzo.
Il 9 dicembre un’ispezione nel pozzo di Velate fece saltare fuori la testa di Caterina da Meda. L’11 dicembre suor Ottavia confessò di essere stata presente al delitto. Il 13 dicembre si scoprirono gli altri resti di Caterina nella neviera dell’Osio, che vennero sepolti a Milano a S. Stefano in Brolo. Lo stesso giorno vennero carcerate nel monastero anche le altre due complici, suor Candida Colomba e suor Silvia Casati.
L’interrogatorio di Suor Virginia
II 22 dicembre 1607, quasi un mese dopo la sua carcerazione, Suor Virginia venne finalmente sentita per la prima volta dal Vicario criminale: l’interrogatorio cui fu sottoposta la monaca fu per lei umanamente drammatico. Ripercorse con dovizia di dettagli il tormentato rapporto di attrazione-repulsione nei confronti dell’Osio, relazione culminata, dopo una serie di galanterie e di colloqui, nella violenza sessuale di cui fu vittima da parte del giovane, con la complicità delle monache Ottavia e Benedetta. e del parroco Paolo Arrigone. Altrettanto drammatici certi dettagli relativi ai successivi sviluppi della vicenda: la sua tormentata relazione con l’Osio, le due difficili gravidanze, i personali tentativi di mortificazione e persino il ricorso a pratiche magiche e superstiziose nella speranza di riuscire ad allontanare l’amato, fino al drammatico epilogo dell’assassinio della conversa Caterina, assassinio del quale dichiarò essere stata testimone.
Il secondo interrogatorio, il 14 giugno 1608 successivo, fu ancora peggiore del primo. Secondo la prassi giudiziaria del tempo, Suor Virginia fu addirittura sottoposta a tortura, al fine di confermare la veridicità delle sue precedenti dichiarazioni.
La condanna a morte di Osio (in contumacia)
I tentativi di cattura dell’Osio da parte del Governatore Fuentes, che voleva a tutti i costi la sua testa, non andarono a buon fine nonostante la taglia di 1.000 scudi da lui offerti per la sua cattura con la promessa di liberare anche 4 banditi minori, a chi glielo avesse consegnato vivo oppure la metà a chi lo avesse trovato morto.
Si verrà a sapere più tardi che per sfuggire alla cattura, l’Osio si era rifugiato all’estero (nei territori di Venezia).
Su sentenza del Senato il 19 dicembre la sua casa a Monza vicino al monastero di Santa Margherita, venne prima devastata e poi demolita. Al suo posto venne eretta una “colonna infame“. Il 20 dicembre l’Osio scrisse una delirante seconda lettera al Cardinale Borromeo, in cui, ringraziandolo per l’aiuto prestato quand’era prigioniero a Pavia, dichiarò che lui e Virginia erano innocenti, e che “la colpa di tutto questo era delle due bestie (suor Ottavia e suor Benedetta), che lui aveva provveduto a castigare per conto di Dio“.
Le indagini della giustizia laica, affidate al senatore Juan de Salamanca e al giudice Giovanni Francesco Torniello, si conclusero nel febbraio 1608, con la sentenza di condanna a morte per squartamento e di confisca dei beni per Gian Paolo Osio latitante e i suoi complici.
AI parroco della chiesa di San Maurizio, Paolo Arrigone, colpevole come l’amico Osio di violazione di luogo sacro e di atti impuri, venne comminata una pena a 3 anni di lavori forzati come rematore di triremi ed esiliato per sempre da Monza.
La morte di Gian Paolo Osio (1608)
Dopo Venezia, si rifugiò a Milano presso Cesare II Taverna suo amico, conte di Landriano. Questi lo tradì sembra non tanto per incassare la taglia, che pendeva sulla sua testa bensì per mera opportunità politica. Lo fece uccidere a bastonate e a pugnalate nei sotterranei della villa di campagna, situata fuori dalle mura di Milano, sulla strada per Borgo Monforte, attuale Palazzo Isimbardi. Il suo corpo venne murato in una nicchia: la sua testa mozzata fu poi gettata ai piedi del governatore spagnolo Fuentes.
La tradizione popolare narra che lo spettro di Gian Paolo Osio vaghi oggi, nelle cantine di questo Palazzo .
La condanna di Suor Virginia e delle altre suore coinvolte (1608)
Molto più complessa e delicata si rivelò invece l’inchiesta delle autorità arcivescovili. Nel timore che il vicario Saracino non fosse in grado di resistere alle pressioni degli ambienti milanesi legati alle famiglie degli accusati, il cardinale Federico Borromeo chiamò a Milano dallo Stato pontificio, il giudice spoletino Mamurio Lancillotti, con il compito di portare a termine il processo.
Il 18 ottobre 1608, Suor Virginia assistette, nel palazzo arcivescovile, alla lettura della sentenza. Venne condannata alla reclusione perpetua, come massima punizione per la sua condotta immorale e per il disonore gettato sulla sua famiglia. La pena doveva essere scontata nella Casa delle donne convertite di S. Valeria di Milano, destinata alla prostitute pentite. Fu murata viva in una cella di 2 metri per 3. Nel muro tirato su, dopo l’ingresso della prigioniera, venivano praticate due aperture, la prima per l’aria e la luce appena sufficiente a recitare l’ufficio, la seconda per passare acqua e cibo per la sopravvivenza.
Tutte le altre suore coinvolte furono condannate ad essere murate vive, in monasteri differenti.
Mancano notizie su Marianna nel periodo della sua segregazione, murata viva in quella cella.
La lunga causa per gli alimenti
Figura solo una lunga causa che la riguarda, intentata dalla Casa di Santa Valeria nei confronti del monastero di Santa Margherita relativamente al godimento dei redditi della monaca, che la sentenza di condanna aveva stabilito fossero versati a Santa Valeria per tutta la durata della detenzione “a titolo di alimenti della prigioniera”, per poi spettare nuovamente a Santa Margherita dopo la morte della medesima. Solo nel giugno 1624, i due enti giunsero a un compromesso con la mediazione del cardinale Borromeo.
La liberazione di Suor Virginia (1622)
Durante tutto il periodo della sua reclusione, ebbe diversi colloqui con il cardinale Federico Borromeo, che a distanza di anni, si convinse del profondo pentimento della donna: la fece liberare il 25 settembre 1622, dopo ben quattordici durissimi anni di detenzione in quello stato, per farne uno strumento di monito morale presso le altre monache della comunità, che si erano macchiate di analoghe colpe.
Le lettere di Virginia
Ugualmente poco documentati sono gli anni dopo la sua liberazione, nel corso dei quali Suor Virginia, rimasta nella Casa di S. Valeria, attirò nuovamente l’attenzione dell’arcivescovo, per le sue pratiche di pietà. Avendo sempre manifestato profonda attenzione verso il mondo spirituale e mistico femminile, superata l’iniziale diffidenza, il porporato esortò Suor Virginia a scrivere delle lettere di conforto spirituale alle altre monache che attraversando momenti di crisi, avevano necessità di aiuto spirituale. Pare che Marianna effettivamente scrisse alcuni documenti di questa sorta di dialogo spirituale a distanza, lettere che girate per visione al Borromeo, vennero poi da lui trasmesse alle religiose maggiormente bisognose di conforto.
La morte di Suor Virginia Maria (1650)
Scomparso il cardinale Borromeo nel settembre 1631, la vita di Suor Virginia rientrò in un cono d’ombra dal quale uscì solo nel novembre 1646 per redigere, in una lettera a Sebastián de Salazar, arcidiacono di S. Maria della Scala, un breve albero genealogico della famiglia de Leyva.
Marianna de Leyva, conosciuta come “la Signora” o suor Virginia Maria, morì, quasi dimenticata, nel gennaio del 1650, dopo aver dedicato gli ultimi anni di vita all’assistenza spirituale delle religiose. Si riesce a dedurre la data della sua morte da una nota contabile riportata nel libro mastro della Casa di S. Valeria, che recita così:
“Adì 7 gennaro 1650, la famiglia di suor Virginia deve al convento, la somma di 3801.39, per alimenti, perché oggi è passata a miglior vita. La Monaca di Monza”
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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