Le anfore romane scoperte a Milano
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Indubbiamente gli antichi romani non finiscono mai di stupire. Fare degli scavi a Milano in centro, riserva spessissimo delle incredibili sorprese. Ne sanno qualcosa i tecnici delle imprese di costruzione della metropolitana, che frequentemente sono costretti a sospendere i lavori di scavo, in seguito a ritrovamenti imprevisti di reperti storici di rilievo. Questo fu il caso ad esempio per gli scavi della metropolitana della linea 1 (rossa) negli anni ’60 del secolo scorso nel tratto San Babila – Duomo, durante i quali, sotto piazza San Carlo, fu rinvenuto un ponte romano e, sotto Piazza Duomo, furono scoperte le fondamenta della Basilica di Santa Tecla e i resti del battistero di San Giovanni alle Fonti.
Analogo discorso, durante gli scavi della metropolitana della linea 3 (gialla) nel tratto Missori – Crocetta, dove sono stati rinvenuti lungo Corso di Porta Romana, tratti di antiche fognature in cotto risalenti ai primi secoli d.C.. Altra scoperta interessante, del tutto imprevista, sempre in quella zona, un grosso deposito di anfore ancora ben conservate, particolarmente nell’area ove sorge Torre Velasca, dove una volta (nel I° secolo d.C.) esisteva un laghetto, il cosiddetto porto della antica Mediolanum!
Ndr. – L’anfora (dal greco ἀμφορεύς, da ἀμφί + φέρομαι, significa “esser portato da entrambe le parti”, attraverso il latino amphora) è un vaso di terracotta a due manici, definiti anse, di forma affusolata o globulare utilizzato nell’antichità per il trasporto di derrate alimentari [rif. Wikipedia]
Questo non è l’unico luogo di ritrovamento di anfore, in città. Gli scavi effettuati negli anni settanta del secolo scorso, ai fini di un ampliamento edilizio nel plesso universitario, hanno permesso l’individuazione di una cinquantina di accumuli anforari in un’area molto limitata di circa 2000 metri quadrati, pure dietro Sant’Ambrogio, all’interno della stessa Università Cattolica. Ai tempi, quello era il suburbio occidentale della città romana: pure lì, in una leggera depressione del terreno si sono trovate tracce di insediamenti risalenti a un paio di secoli a.C. La testimonianza di vasche, cisterne e pozzi fa presumere l’esistenza all’epoca, di una falda freatica superficiale, quindi di terreni sostanzialmente umidi. Sia in quest’ultimo caso che in quello di Corso di Porta Romana, non si tratta assolutamente di discariche, tipo il Testaccio a Roma, in quanto le anfore sono state trovate integre, in piedi oppure rovesciate, accostate l’una all’altra ordinatamente, seguendo quasi un disegno preciso. Cosa ci facevano li, in quei posti, e perchè erano stivate in quel modo?
Tornando al ritrovamento in Corso di Porta Romana, oggi diventata zona semi-centrale della città, venti secoli fa, tutta quell’area, si trovava subito fuori le mura romane della Mediolanum di allora.
Il porto fluviale (I° secolo d.C.)
Subito dietro via Larga, dirigendoci verso la zona dell’Università Statale, (la Ca’ Granda), non è difficile oggi incrociare via Pantano, nome questo che sta ad indicare inequivocabilmente, la presenza, nei tempi antichi, di una piccola area paludosa, alimentata dal Seveso, che scorreva in zona.
Il fiume, all’altezza dell’incrocio fra le attuali via San Clemente e via Larga, faceva un’ ampia ansa e, sfruttando una leggera pendenza e depressione del terreno, creava, una sorta di mini-laguna che si estendeva grosso modo sino quasi alla futura Basilica di San Nazaro in Brolo (o basilica Apostolorum).
I romani, maestri nella deviazione dei corsi d’acqua, sfruttando sapientemente i vari fiumi della zona, crearono, con alcune opere di deviazione e canalizzazione una via d’acqua con pescaggio sufficiente per piccole imbarcazioni, perché potesse essere navigabile fino al mare Adriatico. Infatti, proseguendo il suo corso, il Seveso, più o meno all’altezza dell’odierna piazza Vetra, confluendo con una derivazione dell’Olona, finisce nella Vettabbia. Quest’ultima si butta nel Lambro, il Lambro nel Po, e il Po finisce nell’Adriatico. Ripulendo quindi la laguna della vegetazione spontanea, e incanalando il Seveso, realizzarono nel I secolo a.C., un porticciolo, sì da sfruttare quello specchio d’acqua per l’ormeggio delle imbarcazioni utilizzabili per i traffici commerciali lungo quella via d’acqua che, ai tempi, non esistendo le strade, risultava molto più agevole e veloce di quella di terra, permettendo così il collegamento diretto di Milano con il mare Adriatico.
Ndr. – La Vettabbia può essere considerata il primo dei Navigli milanesi, ben prima che si cominciasse a parlare di Navigli. Nasceva nel punto in cui le acque del Seveso – che i romani avevano deviato per tracciare il fossato a difesa delle loro mura – si incontravano con quelle dell’Olona, più o meno all’altezza dell’odierna Piazza Vetra, dove allora si formava un piccolo bacino. Da qui, la Vettabbia procedeva scorrendo in un tratto della sede naturale del torrente Nirone (il cui corso era stato deviato a monte dai romani e scorreva quindi altrove!), procedendo verso sud, fino a incontrare il Lambro.
Sembra che l’origine particolare di questo nome Vettabbia sia stato coniato proprio dai romani e derivi dal latino vectabilis, ovvero ‘capace di trasportare’, un nome ben adatto ad indicare il canale navigabile, utile al trasporto delle merci , attività questa, che effettivamente avveniva in epoca romana.
Le mura augustee
I romani realizzarono la cinta difensiva subito al di qua del fiume, lasciando quindi il porticciolo all’esterno delle mura augustee e utilizzando l’alveo del Seveso, come fossato difensivo esterno. Traccia della presenza di un lungo tratto di queste mura venne alla luce in via Pecorari nel 1924, in occasione degli scavi per la costruzione delle fondamenta del palazzo degli uffici comunali. Nel 1937 poi, venne trovato un altro tratto, poco oltre, in via delle Ore, dove c’era la chiesa di San Michele al Muro Rotto (soppressa nel 1579 da San Carlo Borromeo), chiesa che si ritiene costruita a ridosso di un tratto delle mura romane. Precedentemente, già nel 1779, il Piermarini nel costruire il Teatro Lirico in via Larga, aveva individuato i resti di una torre. Un’altra venne rinvenuta in via San Clemente, quasi un secolo dopo, nel 1870. L’ulteriore preziosa testimonianza della presenza delle mura augustee, arrivata fino a noi, senza necessità di particolari scavi, era fino agli anni 30 del secolo scorso, la Pusterla del Bottonuto, tra il vicolo delle Quaglie e il Cantoncello. I danni che non ha fatto il tempo, li hanno fatti gli stessi milanesi, di loro volontà: in nome del rinnovamento, della viabilità e della speculazione edilizia, deliberarono sciaguratamente, demolendo tutto, di cancellare, con un colpo di spugna, duemila anni di storia.
Il porto
Il porticciolo era ubicato subito fuori la Porta Tosa romana che, all’epoca, in latino, si chiamava Porta Tonsa: e tonsa, in latino, significa “remo”!
Testimonianze dell’esistenza del porto, si sono trovate durante i lavori di scavo effettuati, inizialmente, negli anni 1935 – 1936, nell’ambito del progetto “Ciò per amor” (di Piero Portaluppi e Marco Semenza), per l’apertura di piazza Diaz e continuati successivamente nel dopoguerra, tra il 1951 e il 1954, nell’ottica della costruzione della cosiddetta ‘racchetta’, una grande arteria di attraversamento della città, che avrebbe dovuto aggirare Piazza Duomo. All’altezza di via Baracchini, tra la via del Bottonuto e Via S. Clemente, si individuò la presenza di una banchina su palafitte, per l’attracco di piccole imbarcazioni. La banchina risultava avere un andamento parallelo alle mura romane, dalle quali distava ben quattordici metri. Quel tratto di banchina, largo 2,5 metri, era pavimentato con lastre di serizzo, posate su palificazioni di rovere, che entravano nel terreno per una profondità di 2,5 metri. Attualmente, questo reperto è conservato al Museo civico di Storia Naturale di Milano.
Probabilmente le due torri lungo le mura, trovate sia in via Larga che in via San Clemente, erano adibite alla sorveglianza del movimento del traffico dei natanti nella piccola darsena e al movimento delle merci. La presenza di magazzini di derrate varie nell’area di via Maddalena e Rugabella, testimoniano lo sviluppo di una intensa attività commerciale, lungo quella via d’acqua. Quindi quel laghetto, divenne, a cavallo fra il I° secolo a.C. e il I° secolo d.C., il primo porto fluviale della città.
Il traffico commerciale
Il trasporto delle derrate sulle imbarcazioni, avveniva usando speciali contenitori: le anfore in terracotta. Erano talmente diffuse che il termine anfora era addirittura utilizzato nel mondo romano come unità di misura equivalente a 26.2 litri. Così anche la capacità di trasporto delle navi, nell’antichità, si calcolava in anfore. Una nave mercantile romana di 20 metri di lunghezza, poteva portare da 1.500 a 2.000 anfore, il che equivaleva a un totale di 50 tonnellate. C’erano anfore di vari tipi, fogge e dimensioni, in funzione del tipo di utilizzo: stoccaggio o trasporto.
La tipica forma affusolata delle anfore da trasporto era ottenuta dall’assemblaggio a crudo di varie parti (corpo, collo, puntale e anse). Il tutto veniva eseguito manualmente al tornio verticale in varie fasi, con asciugature intermedie. Modellato il corpo, si aggiungeva il puntale e quando era quasi asciutto si completava la parte superiore modellando un cilindro di argilla da cui si ricavava la spalla, il collo e il labbro. A completamento del tutto si aggiungevano le anse che venivano modellate direttamente sul corpo dell’anfora. L’imboccatura era normalmente stretta, in modo da essere chiusa con un cuneo di sughero. Come oggi, anche allora il controllo delle varie fasi di produzione delle anfore, avveniva con l’apposizione sul manufatto, di un segno identificativo del responsabile, prima della fase di cottura nei forni.
La presenza del puntale aveva un doppio scopo: da un lato serviva come ancoraggio quando si impilavano le anfore durante i trasporti via nave, dall’altro, veniva usato come presa supplementare per le mani quando si voleva svuotare completamente il suo contenuto.
Anche allora, come oggi, i problemi di frode erano all’ordine del giorno. L’etichettatura che oggi richiediamo sui prodotti per certificarne l’origine e la genuinità, era una cosa normalissima già allora. Le etichette di allora erano i cosiddetti “tituli picti“, cioè le annotazioni ad inchiostro apportate direttamente sul collo o sulla spalla delle anfore. A parte naturalmente il tipo di derrata trasportato, il peso a vuoto (tara), il peso complessivo, il luogo di provenienza, il luogo di destinazione, il nome del destinatario, la data di spedizione, e i vari controlli doganali effettuati.
Essendo fatte di terracotta, materiale poroso, nel caso di utilizzo per il trasporto di liquidi, venivano internamente impermeabilizzate con bitume o resine particolari. C’erano così le anfore olearie, quelle vinarie, quelle per l’aceto, la birra ecc. Nel caso del vino ad esempio, le resine usate per l’impermeabilizzazione delle anfore erano diverse in funzione del tipo di vino, studiate per dare al vino stesso un sapore particolare.
Per oltre mille anni le anfore in terracotta furono utilizzate come il più importante e diffuso contenitore per la conservazione ed il trasporto di derrate in tutta l’area del Mediterraneo. I contenitori erano di norma usati anche per il trasporto delle olive, del grano, di semi vari, pinoli, spezie, datteri, conserve di frutta, salsa liquida di interiora di pesce (il garum), fave, salamoia conservante di legumi ed altro (muria) oltre che per minerali granulati.
Impilaggio delle anfore
Pure la forma delle anfore aveva la sua giustificazione. Si prediligevano quelle strette e lunghe con puntale alla base. La motivazione di questa forma era essenzialmente dovuta al trasporto su nave. Le anfore, accostate le une alle altre, disposte su più file a scacchiera, venivano posizionate verticalmente nella stiva, con i puntali immersi in un letto di sabbia (perchè non potessero spostarsi), mentre le file superiori si posavano negli interstizi lasciati scoperti da quelle inferiori, una sopra l’altra. Per impedire che gli inevitabili scossoni durante il trasporto, potessero rompere le anfore così vicine l’una all’altra, gli spazi venivano riempiti con della paglia e così il carico, diventando una massa omogenea, non si muoveva. Questo tipo di tecnica doveva essere evidentemente valida, se gli archeologi sommozzatori hanno ritrovato in fondo al mare, relitti di imbarcazioni naufragate con carichi di anfore ancora allineate e rimaste incredibilmente integre.
Riciclaggio delle anfore per non buttarle in discarica
Resistenti ed economiche, le anfore una volta svuotate del loro contenuto, se riutilizzabili, venivano riempite con altro tipo di derrata e stivate, pronte magari per partire per qualche nuova destinazione. Quando viceversa, a causa del loro contenuto originale (olio o pesce), il reimpiego negli scambi commerciali, risultava problematico, le anfore stesse potevano essere ulteriormente riciclate, per usi totalmente diversi. Ancora intere, ad esempio, potevano essere riutilizzate come urne e sarcofagi per la sepoltura dei defunti; segate per il lungo, potevano servire per creare culle per neonati; sminuzzate a pezzettini, e mescolate alle malte, potevano essere utilizzate come materiale edilizio. Se alle anfore si lasciava solo il corpo, segando colli e puntali con i loro “ventri”. incastrati l’uno nell’altro, si potevano costruire canali per lo scolo dell’acqua. Pezzi di anfore infine, venivano incorporati spesso nelle cupole per alleggerire il peso delle volte..
Il prosciugamento del laghetto
Il porto – laghetto così com’era inizialmente, comunque durò davvero poco, forse sessanta o settant’anni, non di più. Sembra infatti che attorno al 53 d.C. , una incredibile alluvione in Lombardia (riportata nella Storia di Milano ma stranamente non documentata dagli storici), provocando una disastrosa esondazione dei fiumi intorno alla città, abbia allagato totalmente Mediolanum, creando danni tali, da convincere gli amministratori di allora, a provvedere un radicale riassetto idrogeologico di tutta l’area. Non volendo rinunciare al porticciolo così utile per gli scambi commerciali, decisero il prosciugamento totale del laghetto nella sua parte meno utilizzabile perchè troppo poco profonda, riducendo il tutto ad un canale navigabile parallelo alle banchine, come documentato dalle carte della città ai tempi di Sant’Ambrogio. Pare che la profondità massima del canale nella zona fosse di 1,5 m per una larghezza di 7 metri, salvo ovviamente l’area di attracco! Il porto-laghetto si era ridotto in pratica a un modestissimo porto-canale!
Per svuotare totalmente il piccolo laghetto, i romani costruirono un canale di deflusso dell’acqua. Venne realizzata una fossa di scolo delle acque di scarico e dei rifiuti, chiamata butinucum, nome questo che avrebbe successivamente ispirato la denominazione del quartiere Bottonuto.
Ndr. – Anche se non lo vediamo, il fiume Seveso, in seguito a nuove opere di canalizzazione e di copertura, scorre ancora oggi nel sottosuolo, sotto via Larga e via Maddalena, mantenendo esattamente il percorso in superficie di venti secoli fa.
Una volta svuotato, il completo prosciugamento del lago, restava ugualmente un problema. L’acqua, si sa, s’infiltra dappertutto. La zona, fra l’altro era anche piena di rogge e la falda freatica, quasi superficiale. Come riutilizzare quel terreno limaccioso rendendolo adatto eventualmente anche a sopportare il carico di nuove costruzioni abitative, in previsione dell’espansione della città? Bisognava cambiare le caratteristiche del terreno, aumentandone la portanza.
Ndr. – Per portanza s’intende il massimo valore del carico (peso delle strutture sovrastanti), che il palo o la fondazione è in grado di sopportare.
Gli studi degli esperti, effettuati sulla base del ritrovamento di accumuli di anfore intatte nella zona del laghetto, hanno permesso di stabilire che quei depositi in realtà erano un ulteriore ingegnoso sistema di riciclo dei rifiuti ingombranti per non intasare inutilmente le discariche.
La bonifica venne fatta con una tecnica singolare tipica di quel periodo, tecnica che si può ritrovare similmente applicata pure ad Aquileia o ad Aosta: la cosiddetta bonifica con le anfore, frutto di una delle più interessanti forme di riuso funzionale di questi contenitori, messo in atto in epoca romana. Sembra che nel suo trattato latino De Architectura, ne parli addirittura Vitruvio, vissuto quasi certamente ai tempi di Augusto.
Le anfore vuote da buttare, sistemate in trincee nell’area da bonificare, venivano ordinatamente disposte intere, accostate le une alle altre, spesso anche capovolte, a più ordini sovrapposti, in modo da riempire tutta la zona interessata. Una volta sistemate nell’area da bonificare, per colmare la depressione, ci versavano sopra pietrisco, fango e terra, sino a livellare il terreno. Quindi tutta l’area prima occupata dal laghetto, ricevette un intervento di bonifica che non essendo un drenaggio, potrebbe essere definita geotecnica o idraulica, a seconda delle finalità.
Ndr. – Per drenaggio si intende il prosciugamento di un terreno dall’acqua, mediante opere idrauliche, quali canali a pareti permeabili, gallerie ecc. capaci di convogliare l’acqua altrove.
L’interpretazione funzionale di questo sistema di bonifica con le anfore è quella del vespaio aerato, ovverosia la creazione, in profondità, sopra la falda, di una camera d’aria (realizzata appunto con le anfore), per lasciare respirare il terreno. Fungendo da isolante, si evita, in tal modo, che l’umidità di risalita possa arrivare in superficie! Davvero bravi, geniali ed ecologici i romani di allora!
Ndr. – Proprio in seguito all’insegnamento dei romani, oggi, nelle costruzioni delle fondazioni di qualunque edificio, si usano i cosiddetti vespai.. Questo termine è usato per indicare un’intercapedine ventilata, posta alla base di qualunque edificio per distanziare il pavimento della base e le pareti dal contatto diretto col suolo. Attualmente realizzata, mediante casseforme a perdere, in polipropilene riciclato, oppure iglù, ha la principale funzione d’impermeabilizzare la costruzione contro l’umidità di risalita del terreno e quindi pure ha la funzione d’isolamento termico. Questa intercapedine viene normalmente sfruttata nei condomini, per il passaggio degli scarichi e delle altre tubazioni di servizio delle abitazioni.
Tutta la zona, all’epoca, fu destinata ad area verde, costituendo quello che in futuro (cioè nel Medioevo), sarebbe diventato il famoso “Brolo”, ampia zona di giardini ed orti che includeva le attuali vie S. Antonio, Chiaravalle e Pantano. Restò, per secoli, il ricordo di tale laghetto, solo nel nome della via Poslaghetto, l’unica strada veramente antica della zona, ovviamente scomparsa negli anni 50 del secolo scorso, per fare posto alla Torre Velasca!
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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