Quella ponticella …. per la Ghirlanda
Sommario
ToggleL’antefatto storico
Siamo a metà del XIV secolo, in pieno Medioevo. Nel 1354, alla morte dell’Arcivescovo Giovanni Visconti, Signore di Milano, la Signoria viene spartita per sua volontà, fra i tre suoi nipoti Matteo, Galeazzo II e Bernabò, figli del fratello Stefano. Non erano tempi molto tranquilli, quelli. Tempo addietro, sia Galeazzo che Bernabò, ancora ragazzini, si erano già distinti per la loro irrequietezza, avendo insieme ad altri, congiurato un paio di volte, senza successo, contro lo zio Luchino, allora reggente. La prima volta non ebbero conseguenze di sorta, la seconda invece, nel 1347, le cose andarono diversamente. Mentre infatti per gli altri congiurati, tutti catturati, venne applicata la pena di morte per decapitazione, per loro, in considerazione del fatto che erano dei nipotini solo un po’ irrequieti, lo zio ebbe pietà e li mandò solo al confino. Alla fine, la punizione si risolse nel giro di un paio d’anni. Fu infatti nel 1349, che la giovane trentatreenne moglie di Luchino Visconti, Isabella Fieschi, tolto di mezzo il cinquantanovenne marito troppo anziano e troppo caratterialmente diverso da lei, sperando di continuare a reggere in prima persona, le sorti della Signoria, favorì inconsapevolmente a proprio danno, il rientro dal confino dei due giovani nipoti. Fu infatti proprio l’Arcivescovo Giovanni, fratello di Luchino che, assunto in toto il potere che prima spartiva in co-gestione con lui, fiutando le intenzioni della cognata, decise di richiamare subito a Milano i due ragazzi al confino , mirando, alla sua morte, di cedere ai tre nipoti le redini della Signoria. Ora, morto anche lo zio Giovanni, spettava ai tre giovani nipoti, Matteo, Galeazzo II e Bernabò, la gestione del potere.
Matteo, il maggiore dei tre, di carattere molto più mite rispetto agli altri due, era meno incline ad assecondare in toto i loro desideri, soprattutto per quanto riguarda la spartizione fra loro della Signoria. Una robusta dose di veleno “casualmente” finita nella sua minestra, durante una cena conviviale fra fratelli, a conclusione di una battuta di caccia, fu sufficiente a toglierlo di mezzo, senza colpo ferire. Evento questo, che favorì “inaspettatamente” i due fratelli rimasti, cui non restò che spartirsi geograficamente la Signoria, in parti uguali: la parte ad est di Milano a Bernabò, quella ad ovest a Galeazzo II.
Milano città, nominalmente retta da entrambi, in un “sereno” clima di reciproci sospetti, fu praticamente appannaggio solo di Bernabò. Galeazzo infatti, conoscendo bene le sue mire, temendo pure lui di fare la stessa fine di Matteo, preferì ritirarsi in quel di Pavia, lasciando praticamente la città in mano al fratello minore. Quest’ultimo, abitando nella famosa Ca’ de Can (nell’attuale Piazza Missori), ebbe così la possibilità di tiranneggiare a suo piacimento sui poveri sudditi per un buon trentennio. Galeazzo comunque, pur andando ad abitare a Pavia, non aveva rinunciato alla co-Reggenza di Milano che ovviamente gli rendeva economicamente parecchio. Pertanto per poter essere più presente, decise di farsi costruire una rocca, da utilizzare come “pied-à-terre” quando da Pavia, veniva in missione in città.
La Rocca
Galeazzo II Visconti (co-Signore dal 1354 al 1378)
Iniziato pertanto intorno al 1360 da Galeazzo II Visconti, la fortificazione venne portata a termine in una decina d’anni. La rocca venne costruita a cavallo della cinta medievale della città, inglobando la Pusterla di Porta Giovia o Zobia. Venne denominata per questo motivo, appunto, “Castello di Porta Giovia”. Subì nel corso del tempo, modifiche, ampliamenti, distruzioni e rifacimenti, prima di essere completato definitivamente alla fine del secolo successivo (1497).
Il Castello di Milano costituisce oggi sicuramente per noi, il più importante esempio di fortificazione tardo-gotica, in Lombardia. Viene chiamato “Sforzesco” e non” Visconteo”, perchè fu Francesco Sforza, a partire dal 1450, a pochi giorni dal suo ingresso in città come trionfatore e la sua nomina a Duca, a farlo ricostruire più o meno come lo vediamo attualmente, sulle rovine della vecchia rocca viscontea. Quest’ultima finì in rovina, a dire il vero, grazie al comportamento poco ortodosso che i Signori che vi si avvicendarono, ebbero con i loro sudditi. Praticamente da sempre, fu vista come emblema di tirannide, odiata e pesantemente danneggiata dagli stessi milanesi quando, morto nel 1447, Filippo Maria, l’ultimo rampollo della dinastia dei Visconti, corsero a proclamare la Repubblica Ambrosiana, pur di non avere più a che fare con altri tiranni come loro.
Ndr. – Il Castello continuò ad essere malvisto dalla popolazione anche dopo la caduta degli Sforza, in quanto essendo usato come caserma per le truppe, venne considerato simbolo di oppressione dei dominatori stranieri. Solamente con l’Unità d’Italia, trasformandosi in un centro di cultura, cominciò ad essere apprezzato diversamente, diventando addirittura caro ai Milanesi, al punto da essere visto oggi, come uno dei simboli della città.
Tracce della vecchia rocca viscontea, sono visibili ancora oggi, nei basamenti in pietra sia della Corte ducale che della Rocchetta (l’area più fortificata del Castello), lungo tutto il lato nord-ovest che s’affaccia al Parco Sempione. Nel disegno del nuovo Forte, venne mantenuta invariata l’idea di ricostruirlo a cavallo dell’antica cinta muraria cittadina, secondo la vecchia concezione viscontea.
Per come lo vediamo oggi, il Castello risulta avere una pianta praticamente quadrata, di circa 180 metri di lato, con quattro possenti torrioni ai quattro spigoli, mura perimetrali dello spessore di 7 metri alla base, 31 metri di altezza e quattro uscite, una per lato. Di queste, tre si trovano nel grande Cortile delle Armi e sono rivolte verso la citta, ed una sola a Nord, all’esterno, verso la campagna (l’attuale Parco Sempione). Sul fianco destro del Castello, uscendo dalla Porta dei Carmini e volgendo lo sguardo a sinistra, lungo il fossato difensivo, non è difficile scorgere in distanza, quella che viene chiamata la Ponticella di Ludovico il Moro, che lo scavalca. Perchè si chiami col nome espresso al femminile, non è ben chiaro, comunque è un edificio costituito da un portico e da tre salette costruite sul ponte sopra il fossato, che oggi collega il Castello, direttamente al Parco Sempione. Lo si nota facilmente, essendo l’unico elemento che architettonicamente “ingentilisce” un po’ l’austerità delle alte mura difensive del Castello.
Non deve trarre comunque in inganno la dizione “Ponticella di Ludovico il Moro”, anche se Ludovico c’entra senz’altro. Questo non significa che l’intero manufatto sia stato realizzato per sua volontà. Gli studiosi che si sono occupati dell’argomento, concordano nell’asserire che questa ponticella, sia stata progettata contemporaneamente al resto della fortezza, a dispetto della convinzione che, dato il suo aspetto rinascimentale, venga spontaneo considerarla come un’appendice aggiunta in un secondo tempo al Castello, costruito in stile tardo gotico.
La ricostruzione del Castello
Francesco Sforza (Duca dal 1450 al 1466)
Quando, conquistata Milano per fame, dopo mesi di assedio, Francesco Sforza, padre di Ludovico il Moro, divenne Duca nel 1450, trovandosi la rocca viscontea distrutta, fu costretto, suo malgrado, ad andare ad abitare all’Arengario, (l’attuale Palazzo Reale) vicino al Duomo, struttura questa, poco sicura ed indifendibile. Pur conoscendo l’odio che i Milanesi nutrivano per l’antica rocca viscontea, nonostante le assicurazioni fatte agli amministratori della città, decise di ricostruire subito il Castello, prendendo a pretesto la necessità di una più efficace difesa di Milano, e promettendo in compenso di rendere più bella la città. Coerentemente con quanto promesso, agli ingegneri militari che aveva assunto per la ricostruzione del forte, affiancò nel 1452, un architetto civile fiorentino, Antonio Averulino detto il Filarete, incaricato di progettare la facciata del Castello rivolta verso la città, con l’alta torre centrale.
Ricostruendo il Castello, ci si dovette naturalmente adeguare ai nuovi criteri di difesa necessari per far fronte all’evoluzione delle tecnologie militari. Era ormai passato il tempo in cui qualunque scaramuccia, battaglia o guerricciola, si risolveva con sanguinose cariche di cavalleria, lancio di frecce con le balestre e feroci corpo a corpo all’arma bianca fra soldati a piedi. Ora, in Cina, era stata scoperta la polvere da sparo, come miscela di più sostanze (zolfo, carbone, salnitro) e si stava cominciando a prendere coscienza dei devastanti effetti dell’ esplosione che quella miscela era in grado di provocare. Arrivata in Europa, la scoperta trovò immediatamente applicazione per scopi militari con la costruzione dei primi schioppi e delle prime armi da fuoco pesanti. Era indubbiamente una rivoluzione rispetto a prima, cosa questa che comportò naturalmente un adeguamento delle protezione delle aree più vulnerabili, per contrastare i seri danni prodotti dalle nuove, micidiali bombarde, “saettanti pesanti pallotte di ferro”.
A quanto pare, la ponticella, rientrando nel progetto originale di costruzione del Castello, vide la luce nel 1465, a Castello ormai quasi ultimato. Era un normalissimo ponticello di servizio, scoperto, costruito in laterizio, con due arcate sul largo fossato che circondava le mura interne. Vista la struttura, non avendo scopi difensivi, permetteva il collegamento rapido fra gli appartamenti ducali, e le mura esterne della Ghirlanda (oggi quasi del tutto scomparse), la strada segreta, e il Barcho, la riserva di caccia assimilabile attualmente a tutta l’area del Parco Sempione e zone limitrofe. Poteva essere considerata, in caso di emergenza, come una sorta di “via di fuga rapida”, quella che oggi chiameremmo “uscita di sicurezza”.
Galeazzo Maria Sforza (Duca dal 1466 al 1476)
Morto nel 1466, il Duca Francesco Sforza, il giovane figlio Galeazzo Maria, salito al potere, si rifiutò categoricamente di continuare a vivere all’Arengario come il padre, nel costante terrore di attentati, giudicando quel posto, troppo pericoloso per la propria incolumità personale. Decise pertanto, assieme alla neo-sposa Bona di Savoia, d’insediarsi nei nuovi appartamenti ducali al Castello che, pur essendo ancora in via di completamento, già allora, dava certamente garanzia di maggior sicurezza.
Ndr. – Il suo timore era decisamente fondato; nonostante le precauzioni, non riuscirà comunque ad evitare i pugnali dei sicari e verrà assassinato il 26 dicembre 1476 nella chiesa di Santo Stefano in Brolo, per mano di un manipolo di nobili congiurati, aizzati dal filosofo umanista, Cola Montano, che vedeva in lui, un tiranno.
Dalla ponticella si accedeva agli appartamenti ducali, tramite un varco appositamente aperto in prossimità della torre falconiera (torre quadrata di nord-est) vicinissimo alla Sala delle “Asse”. Certamente, a differenza degli altri accessi al Castello, questa era una comunicazione sprovvista di un mezzo veramente efficace di difesa, in totale contrasto con le strutture di protezione che invece regolavano tutti gli altri accessi al Forte. Generalmente le porte d’ingresso al Castello erano tutte difese da rivellini, piantati nel mezzo del fossato, in modo da non permettere la penetrazione nel Forte, se non passando per i ponti levatoi. Nel caso della ponticella invece, l’unica difesa consisteva in una sorta di mini-ponte levatoio manuale. Mentre per tutta la sua lunghezza, la pavimentazione del ponte era in pietra, la parte di pavimento in prossimità dell’ingresso agli appartamenti ducali, era costituita da un tavolato di legno, detto “piancheta”, dal francese “planchette“, che, incernierato alla soglia della porta di accesso, veniva sollevato in caso di necessità. A giudicare dall’assenza di specifici organi di sollevamento esterni, si presume che la “piancheta” venisse alzata manualmente con delle catene. Quando questo tavolato veniva rialzato, da un lato creava automaticamente un’ulteriore sbarramento a protezione dell’ingresso alla Corte Ducale e dall’altro, apriva una voragine nel pavimento del ponte, tale da impedire a chiunque di avvicinarsi troppo a quell’ingresso e quindi alle mura.
Ndr – I rivellini sono elementi della fortificazione, staccati dalla cinta muraria, generalmente più bassi di questa, ed eretti sui fossati in prossimità delle porte con funzioni di difesa degli accessi al Castello dal fuoco e dai proietti lanciati dal nemico. Altro loro scopo, era quello di coprire le sortite degli assediati, spazzando il fossato dagli assedianti che si fossero avventurati sino a lì.
Protettore delle arti e della cultura, contribuì allo sviluppo della stampa a Milano. Maniaco del fasto ed amante delle belle donne, non disdegnava, fra i divertimenti preferiti, dedicarsi all’arte venatoria. Appena i suoi impegni glielo consentivano, Galeazzo Maria andava a caccia. Si avvalse frequentemente, in quegli anni, della ponticella che gli consentiva di uscire rapidamente dal Palazzo Ducale per recarsi nel “Barcho”, per dare libero sfogo a quella sua passione.
IL BARCHO.
Verso la fine del XIV secolo, per volontà di Gian Galeazzo Visconti, figlio di Galeazzo II, venne creato un parco che si estendeva su un’ampia superficie a nord del Castello. I campi incolti sul lato nord-ovest si trasformarono in un “zardinum” o “barcho”. Il nuovo parco era costituito parte a giardino con vari tipi di piante ornamentali, parte ad area coltivata a frumento, avena ed ortaggi vari, parte infine, lasciata liberamente a boschetto. Solo alla morte nel 1447 di Filippo Maria, l’ultimo Duca della dinastia dei Visconti, e l’avvento della Repubblica Ambrosiana, il parco venne abbandonato al suo destino, diventando terreno di bivacco e spesso di scontro durante i lunghi mesi di assedio della città da parte di tal Francesco Sforza, un cavaliere di ventura, allora al soldo dei veneziani.
Quando poi lo stesso Francesco Sforza, conquistata Milano nel 1450, ne divenne Duca, essendo un grande appassionato di caccia, inserì nel piano di ristrutturazione del Castello, anche quello del parco che, a partire dal 1457, riprese nuovamente vita. Fu lui ad ordinare a Carlo da Cremona di ampliarlo e recintarlo in modo da poterlo utilizzare come area di caccia. Per assecondare la sua passione, il parco venne infatti popolato di caprioli, cervi, lepri, fagiani e pernici, tutti animali questi, fatti portare a Milano dalle zone del varesotto, del Seprio e del comasco. Al vero parco di caccia, o “barcho”, erano stati affiancati una vasta area a giardino dotata pure di una peschiera per l’allevamento di pesci d’acqua dolce, oltre a vasti campi coltivati a frumento, miglio, segale ed avena. Non mancava naturalmente una vasta zona destinata a frutteto.
Sotto la reggenza di Ludovico il Moro, nel momento di massimo fulgore della vita di Corte, addirittura Leonardo da Vinci , nei primi tempi del suo lungo periodo milanese, si prestò ad organizzare cerimonie e feste per conto di Ludovico, proprio nel “barcho” ducale.
Dopo la caduta degli Sforza e l’arrivo successivo degli Spagnoli a metà del Cinquecento, l’ampia area cadde nuovamente in stato di totale abbandono. Dapprima venne parzialmente utilizzata per l’edificazione di fortificazioni spagnole, successivamente fu adibita a piazza d’Armi per le guarnigioni dei vari dominatori stranieri.
Ndr. – Il Seprio è una regione storica della Lombardia, corrispondente grossomodo alla porzione centro-meridionale dell’attuale Provincia di Varese e alla parte sud-occidentale della Provincia di Como.
Il famoso viaggio a Firenze
Fu proprio questa ponticella che quel marzo 1471, fu muta testimone di un evento che sarebbe rimasto celebre negli annali della Corte Sforzesca: vide transitare su di essa, all’uscita dagli appartamenti ducali, Galeazzo Maria, Bona di Savoia e un numerosissimo stuolo di dignitari di Corte e servitori, in partenza alla volta di Firenze per andare a far visita ai Medici, viaggio questo che per lo sfarzo dispiegato dalla Corte meneghina, riuscì dapprima a meravigliare gli stessi fiorentini, quindi a farli infuriare, appena si resero conto che tanta ostentazione era solo intesa a sottolineare la dipendenza della città dalle armi sforzesche.
Malato di protagonismo politico, intraprese quel viaggio, ufficialmente per rinsaldare il rapporto di amicizia con l’alleato fiorentino, praticamente per la sfrenata ambizione di contendere a Lorenzo de’ Medici, il titolo di “Magnifico”. Volle seguire personalmente i preparativi per il viaggio, curando ogni minimo dettaglio. Il Duca teneva molto a lasciare testimonianza “ai Milanesi e ai posteri” della grandiosità della missione che stava per compiere.
Il 13 marzo 1471 Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, e la consorte Bona di Savoia, giunsero a Firenze accompagnati da un corteo imponente e sontuoso, comprendente fra l’altro 12 carri chiusi rivestiti di drappi d’oro e d’argento ricamati, con il guardaroba di Bona e delle sue dame, 50 pregiate chinee (molto scenografiche), 50 grossi corsieri riccamente bardati, 100 uomini armati con divise talmente splendenti da sembrare tutti ufficiali, 500 soldati a piedi, 50 staffieri vestiti di seta con ricami e bordi d’argento, da sembrare tutto fuor che servitori, 500 coppie di cani e moltissimi falconi e sparvieri per la caccia, oltre poi a saltimbanchi, pagliacci e buffoni, per intrattenere il pubblico con qualche spettacolino accattivante. A questi si univano poi i cortei personali di baroni e cortigiani che accompagnavano gli Sforza per un totale di altri 2000 cavalli. Erano passati dodici anni dall’ultimo soggiorno fiorentino di Galeazzo Maria Sforza avvenuto nel 1459. Come allora il principe milanese fu ospitato in maniera solenne e fastosa in Palazzo Medici, ma ad accoglierlo stavolta non c’era Cosimo il Vecchio, ma i suoi nipoti Lorenzo e Giuliano. La dimora medicea si svelò agli occhi del Duca e della sua consorte come uno scrigno colmo di tesori.
[rif. – www.palazzomediciriccardi.it/mediateca/la-visita-di-galeazzo-maria-sforza-e-di-bona-di-savoia/]
Ndr. – Chinea è il cavallo che va all’ambio. (Ambio è l’andatura del quadrupede quando muove contemporaneamente gli arti dello stesso lato).
Corsiero è il cavallo da guerra.
Staffiere è il servo cui era affidato il compito di reggere la staffa al signore, e di seguirlo camminando a fianco della cavalcatura; palafreniere.
Ludovico il Moro (Reggente dal 1480 al 1494 e Duca dal 1494 al 1499)
Sotto la reggenza di Ludovico il Moro, dal 1480 in poi, la ponticella cambiò “look”, da semplice ponte di servizio, fu trasformata in modo da diventare una raffinata appendice abitativa. Secondo una tradizione, la costruzione sopra la ponticella originale, venne progettata da Donato Bramante, il quale la arricchì con una struttura consistente in un porticato e da tre piccoli vani, quasi a voler rendere il tutto come una prosecuzione esterna degli appartamenti ducali. Il porticato è caratterizzato da un’alta trabeazione sorretta da una sequenza di dieci esili colonnine dal disegno pulito e lineare. Il portico era alto a sufficienza da potervi far transitare un cavaliere a cavallo. (Ndr. – Allora era abbastanza comune fare entrare i cavalli negli appartamenti ducali). Affiancato ad esso, tre porte consentivano l’accesso altrettanti piccoli vani, (due con una finestra ed uno con due). La decorazione di queste stanzette, pare venne affidata a Leonardo da Vinci, ma il suo lavoro, nel corso dei secoli, andò totalmente perduto.
Le cronache del tempo riferiscono che che il Duca si fece costruire quelle stanze come “rifugio“, probabilmente per isolarsi, di tanto in tanto, dagli stressanti impegni di corte. Pare pure che il quarantacinquenne Ludovico, avesse deciso di trascorrere, rinchiuso lì dentro, tutto solo, il periodo di lutto stretto, a piangere disperato per la prematura scomparsa della splendida moglie Beatrice d’Este che diceva di amare tantissimo. Lei poverina, solo ventiduenne, era venuta a mancare il 2 gennaio 1497, dando alla luce il suo terzo figlio, Carlo, nato morto.
Ndr. – Sicuramente, se come dicono, Ludovico si rinchiuse effettivamente lì dentro a piangere desolato, per la morte di Beatrice, doveva avere qualche “piccolo rimorso di coscienza” nei confronti della giovane e bella consorte, probabilmente nella convinzione che la sua morte fosse dovuta più che al parto, risultato imprevedibilmente difficile, al dolore che lui le aveva arrecato per le continue scappatelle cui sembrava non potesse proprio rinunciare. Beatrice era al corrente delle debolezze del marito e aveva sempre chiuso un occhio. Ultimamente però c’era stata effettivamente molta tensione fra marito e moglie proprio a causa di Lucrezia Crivelli (la dama di compagnia della Duchessa) con la quale lui, a sua insaputa, se la stava spassando da tempo. Quando Beatrice, che era già in stato di avanzata gravidanza, venne a scoprire che il marito infedele stava aspettando un altro figlio pure dalla quarantacinquenne Lucrezia, s’infuriò ovviamente con lui, procurandogli seri problemi nei rapporti con l’amante, nel tentativo, risultato poi senza esito, di cacciarla da Corte.
Giampaolo, figlio di Lucrezia, infatti sarebbe poi effettivamente nato vivo il 14 marzo 1497.
A quanto il Duca stesso riferisce in due suoi scritti dell’anno successivo (1498), accennando al tristissimo periodo trascorso, quasi a volersi punire per il dolore arrecato alla consorte, e a voler rimarcare il lutto del suo cuore, aveva addirittura richiesto venissero drappeggiate di nero, quelle tre stanzette. Tuttora infatti, quegli ambienti, chiusi al pubblico da molti anni, venngono denominate le “stanze nere”, come le definì “negre” lui stesso, in quelle lettere..
Il recinto della Ghirlanda
Rispetto a come lo vediamo oggi, il Castello, allora, era di dimensioni decisamente maggiori. Come si può notare chiaramente dal disegno, l’imponente cinta muraria circondata da ampio fossato, che attualmente ne determina il perimetro esterno del forte, è quella relativa al quadrilatero interno della figura.
Essendo il Castello costruito a cavallo delle mura cittadine, limitatamente alla parte rivolta verso la campagna, venne costruita già ai tempi di Filippo Maria Visconti, sotto la consulenza di Filippo Brunelleschi, ampliata sotto Francesco Sforza (e poi mantenuta sino a fine Ottocento) una seconda cinta muraria più esterna, a protezione sia del fossato, che delle mura attuali. Era chiamata “il recinto della Ghirlanda”, ed era altrettanto imponente quanto quelle che vediamo oggi e pure con possenti torri circolari agli spigoli. Aveva lo scopo di difendere il fronte settentrionale del Castello di Porta Giovia, girando dal rivellino di Santo Spirito a sud-ovest a quello di Santa Maria del Carmine, a nord-est. Quella cinta muraria, essendo evidentemente troppo mal ridotta per procedere al suo restauro, venne totalmente abbattuta nel 1893 dall’architetto Luca Beltrami, nell’ambito della generale ristrutturazione del forte. A testimonianza della cosa rimane oggi solo qualche minima traccia sia delle due torri rotonde angolari, che delle sue mura, verso la campagna.
Passeggiando oggi nel Parco Sempione lungo la strada parallela al fossato (lungo il lato nord-ovest del Castello), non è difficile notare, in mezzo ad una aiuola, non lontano dalla Torre del Tesoro o Torre Castellana (l’attuale torrione rettangolare di spigolo lato Cadorna) un breve tratto di muraglia apparentemente fuori posto, con un ampio portale, la Porta del Soccorso.
Proseguendo da quel punto, in linea retta in un senso o nell’altro, sempre lungo la medesima strada in terra battuta, non è difficile scoprire, a non più di dieci metri dalle cancellate metalliche che delimitano i due lati del parco in quel punto (sia lato Cadorna, che lato Lanza), i ruderi, seminascosti dalla vegetazione infestante, dei due torrioni circolari d’angolo riportati nel disegno, uniche altre traccia esterne rimaste della cosiddetta “cinta della Ghirlanda“. Mancando un cartello esplicativo, non è facilissimo rendersi conto di cosa siano quei ruderi.
La Ghirlanda era collegata al Castello tramite i rivellini, che consentivano la comunicazione pure con le mura medioevali della città e con la strada segreta ancora oggi visitabile (con visita guidata).
Fra i rivellini, quello meglio conservato è quello di Santo Spirito, visibile all’uscita dalla porta di Santo Spirito (lato Cadorna). Risulta avere pianta quadrata e sorge nel mezzo del fossato; tre ponticelle lo collegavano rispettivamente alle difese cittadine, al quadrato sforzesco e alla strada coperta della Ghirlanda, chiamata anche strada di ronda, o ancora strada segreta.
La strada segreta
Sottoterra, internamente al perimetro di questa seconda cinta muraria, c’è la cosiddetta “Galleria della Ghirlanda”, una strada sotterranea segreta, ancora oggi perfettamente conservata. Si trova praticamente sotto la strada in terra battuta che fiancheggia esternamente il fossato. Il suo scopo era quello di prendere alle spalle gli assalitori che, scavalcato il muro di cinta esterno (la Ghirlanda), si avventuravano nel fossato per tentare di assaltare le mura più interne. Questo percorso serviva quindi per lo spostamento rapido dei soldati dalla fortezza, alla cinta esterna. Si tratta di un cunicolo a volta, lungo attualmente circa 500 metri, largo in media poco più di un metro e mezzo, e alto 2.80 metri. La strada è illuminata da un centinaio di finestrelle affacciate sul lato esterno del fossato (quello che viene usualmente chiamato controscarpa), dalle quali potevano sparare i tiratori scelti sugli ignari assalitori presi di spalle. L’altezza del cunicolo era stata studiata in modo da poter percorrere quella strada anche a cavallo. Durante i lavori di restauro di questo percorso sotterraneo, che originariamente era ancora più lungo, sono state individuate otto lunghissime gallerie, probabilmente all’epoca fornite di portoni, (possibili vie di fuga) che si sviluppavano dalla strada segreta lungo varie direttrici. Pare accertato esistesse effettivamente, come riportato dalle cronache degli storici del tempo, un cunicolo sotterraneo verso la Basilica di Santa Maria delle Grazie usato da Ludovico il Moro per poter andare a pregare quotidianamente sulla tomba di Beatrice sepolta in Basilica, senza che alcuno lo vedesse uscire dal Castello. Da studi effettuati, si avanza pure l’ipotesi esistesse un collegamento sotterraneo addirittura fra il Castello e la Basilica di Sant’Eustorgio.
L’opera di restauro di Luca Beltrami
Appare evidente da alcuni reperti fotografici del 1880 limitatamente all’area nord-est del forte, documenti anteriori quindi all’abbandono dello stesso da parte delle autorità militari sabaude, quale sia stata la ciclopica opera di ristrutturazione effettuata sull’intero Castello dall’architetto Luca Beltrami, in una decina d’anni di lavoro (dal 1894, ai primi anni del 1900). Per chi è abituato a vederla oggi, quell’ala del Castello appare davvero irriconoscibile: la foto (qui sotto) equivale ad una denuncia. Lo stato delle mura, la presenza di camini sui tetti, l’assenza totale delle merlature (eliminate nel 1600 dagli spagnoli), l’interramento di una buona parte del fossato, lo stato fatiscente della ponticella, la totale ostruzione dell’arcata poggiante sul muro di controscarpa del fossato, l’interramento dei rivellini, la presenza del lungo caseggiato sulla sinistra, (presumibilmente una caserma, probabilmente costruita a ridosso delle mura della cinta della Ghirlanda, se non già allora abbattute in quel punto), sono la prova evidente dell’enorme lavoro che ha dovuto fare il Beltrami per rendere il Castello com’è attualmente.
Per chiudere, propongo qui di seguito un elenco, da lui stesso annotato, dei problemi incontrati limitatamente alla sola ponticella di Ludovico il Moro, per portare a termine il suo restauro.
Il restauro della ponticella
Sintetizzando quanto riporta lo stesso architetto Beltrami in una lettera all’amico e Sovraintendente cav. Aldo Noseda, quasi a giustificazione del lavoro da lui compiuto, l’opera di restauro della ponticella fu decisamente impegnativa, visto lo stato di generale degrado e di manomissione in cui si trovava il manufatto, quando lui lo prese in carico. L’opera rimase per troppo tempo in balia delle soldataglie dei diversi dominatori stranieri che, dalla caduta degli Sforza (1535) in poi, si avvicendarono nel Castello nel corso dei secoli usandolo come caserma per le truppe d’occupazione. L’obiettivo del restauro nelle intenzioni del Beltrami, era comunque quello di attenersi, per quanto possibile, all’originale.
La ponticella
La grave manomissione nel tratto di portico vicino alla testata della ponticella l’ interruzione dell’architrave in laterizio, la sostituzione di due dei capitelli originali con altri di fattura molto più rozza, gli comportarono un lavoro pesante di ripristino. Ad esempio, la cornice totalmente sparita sopra la trabeazione si poté ripristinare grazie a un colpo di fortuna. Infatti le indagini condotte nella tratta di intonaco corrispondente al fregio, consentirono di individuare sotto l’imbianco, le tracce della originaria decorazione. Non altrettanta fortuna si ebbe invece nel caso del ripristino delle cornici di terracotta che adornavano porte e finestre della costruzione e andate irrimediabilmente perdute. Per poterle ripristinare simili a quelle che dovevano essere effettivamente, rendendo credibile il tutto, in mancanza di dati certi, non gli restò che fare studi e ricerche di elementi simili, altrove, in edifici coevi (es. Santa Maria delle Grazie).
i graffiti
I graffiti presenti sotto il porticato, non c’erano e sono recenti. Li fece aggiungere Luca Beltrami nel suo intervento di restauro prendendo spunto dalle numerose ricerche da lui stesso effettuate al fine di capire come potesse essere il castello nel periodo del suo massimo splendore. Per questo studio, si avvalse naturalmente di ogni documento disponibile, disegni, quadri, stampe e pure graffiti riproducenti angoli del Castello, trovati casualmente in cascine o abbazie. Volle riportare su queste pareti, quelli trovati all’Abbazia di Chiaravalle Milanese e alla cascina Pozzobonelli oltre una pianta seicentesca del Castello. Rappresentazioni interessanti, queste, sia come documenti d’appoggio a giustificazione dei restauri compiuti (od ancora in corso), sia come prove della rinomanza di cui il Castello godeva a quell’epoca. In sintesi, una sorta di bibliografia grafica delle sue ricerche!
Il portale d’accesso
Per quanto riguarda il portale di accesso al portico della ponticella, pure in questo caso mancava irrimediabilmente, qualsiasi disegno originale o indizio in loco. A quanto pare, nel corso dei secoli quella porta era stata “sformata” creando un’arcata, dal contorno superiore, stranamente ellittico. Non esistendo traccia certa di come potesse essere originariamente quel portale, non gli restò che andare alla ricerca di disegni di una porta dello stesso tipo. Alla fine, risolse il problema ricorrendo ad un disegno di timpano triangolare desunto da una porta del Lazzaretto (ormai scomparso) costruita esattamene in quel periodo.
Lo stato di abbandono in cui versava tutto il complesso era tale, che era stata proposta in consiglio comunale, la demolizione totale del’intero Castello e di utilizzare quell’area a favore di un grosso complesso di edilizia abitativa. Luca Beltrami si oppose a quell’idea e, avuto l’incarico di tentare il recupero del recuperabile, si dedicò corpo ed anima al restauro del tutto. Questo è in risultato encomiabile della sua opera. L’unico desolante commento a tutto questo enorme ed eccellente lavoro di restauro compiuto, è che purtroppo, nonostante tutti i suoi studi e le sue ricerche, l’originale testimonianza degli splendori e dei fasti di un tempo, è andata irrimediabilmente perduta per sempre!
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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