Villa Simonetta, fra misteri e leggende
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Nel mezzo del quartiere signorile intorno a viale Cenisio, all’angolo tra le vie Stilicone e Principe Eugenio, sorge un autentico gioiello di architettura residenziale rinascimentale milanese, Villa Simonetta. Chiamarla “Villa delle delizie” è sicuramente il nome più appropriato per questo magnifico esempio di dimora storica di rara bellezza, gioiello architettonico rinascimentale di raffinatezza tipicamente italica. E’ questa forse una delle più belle ville “extra-moenia” (cioè fuori dalle mura) arrivate sino a noi. Opera questa che un maggiorente locale dell’epoca, si era fatto costruire come dimora di campagna, immersa nel verde, lontana dai trambusti della vita cittadina. Ad oggi, questo risulta essere l’unico esempio sul territorio lombardo, della moda, dei nobili del cinquecento, di costruire ville in stile rinascimentale al di fuori delle mura della città.
Nella sua mastodontica opera “VILLE DI DELIZIA o siano PALAGI CAMPAREGGI NELLO STATO DI MILANO” pubblicata nel 1726, Marc’Antonio Dal Re (1697 – 1766), noto incisore e scrittore, a lungo vissuto a Milano, cataloga infatti Villa Simonetta forse come la più bella, fra le dodici più rinomate ville fuori città, del capoluogo lombardo.
La sua storia
A volerla sintetizzare in poche immagini, ne basterebbero tre in tutto: quella di un governatore spagnolo illuminato in una Milano del ‘500, quella di un’avvenente nobildonna che, nel ‘600, a mo’ di mantide religiosa, faceva sparire i suoi giovani amanti, e infine quella di una banda di giovinastri specializzata in scherzi e burle che, nel ‘800 trasformava banchetti e feste organizzate in quella villa, in festini lussuriosi. Pepe e sale a sufficienza, per creare quegli aloni di mistero e di leggenda che avvolgono una Villa di Delizie come questa.
Tanto per intenderci, Villa Simonetta era solo l’ultimo dei nomi attribuiti a questa costruzione, poichè precedentemente, era conosciuta con nomi diversi: ma vediamo di ricostruirne la storia dalle origini.
Villa Gualtera 1499 – 1546
Negli ultimissimi anni del ‘400, tale Gualtiero da Bascapé, Cancelliere e Giudice dei Dazi alla Corte di Ludovico il Moro, aveva avuto l’occasione di acquistare in aperta campagna, un fondo agricolo coltivato a vigna di proprietà dell’Ospedale Maggiore. In quel terreno, che si trovava ad una manciata di chilometri da Porta Tenaglia, aveva pensato di far erigere una villa per sé, da utilizzare come “casino di caccia”, ove potersi ritirare, una volta abbandonati i suoi uffici pubblici a Corte.
Ndr. – Al pari di Leonardo che, ignorandone il cognome, tutti conoscevano come “da Vinci” (per la sua provenienza da quella località), Gualtiero (pure lui di cognome ignoto) era chiamato “da Bascapé”, provenendo da questo piccolo comune italiano della provincia di Pavia.
I lavori di costruzione della dimora patrizia partirono all’ inizio del 1499, proprio a ridosso dei gravi fatti politici che scombussolarono Milano in quel periodo.
CENNO STORICO
Presunte rivendicazioni sul Ducato di Milano da parte di Luigi XII d’Orleans (il quale non aveva mai voluto riconoscere l’abusiva presa di potere e l’autoproclamazione a Duca di Ludovico il Moro, nel 1494, dopo l’assassinio del nipote Galeazzo Maria Sforza, Duca legittimo), portarono, nel 1498, il re francese ad invadere, col suo esercito, il Ducato di Milano. La successiva cattura di Ludovico il Moro da parte dei Francesi e la conseguente occupazione della città da parte dei transalpini, furono il primo assaggio dell’occupazione straniera. che, di lì a breve, sarebbe diventata una realtà, durata oltre trecento anni.
Per fortuna, in mezzo a quel trambusto, i lavori per la costruzione dell’edificio non subirono sospensioni o ritardi di sorta e la villa venne completata, come previsto, entro la fine del 1505. Si ipotizza che la Villa fosse a due piani, con accanto (alla sua estremità destra) una minuscola Cappella, appoggiata ad una torre colombaria preesistente, in mattoni.
L’architetto / pittore incaricato dei lavori, era stato, a quanto riferiscono gli storici dell’arte, Bernardo Zenale (1455 – 1526) figura sicuramente centrale nel prolifico ambiente artistico milanese di quegli anni (basti pensare a Leonardo, al Bramante, al Luini, al Foppa, al Bramantino per indicarne solo alcuni fra i più noti di quel periodo). Vengono oggi attribuiti a Zenale i tre principali affreschi quattrocenteschi, dal Compianto su Cristo ai Santi Ambrogio e Girolamo che ingentiliscono e rendono uniche le pareti della Cappella.
Ndr. – E’ interessante rilevare che mentre Bernardo Zenale è sicuramente più noto come pittore che non come architetto (basti pensare agli affreschi delle Chiese di San Pietro in Gessate, di Santa Maria alle Grazie e della Certosa di Pavia oltre a diverse opere esposte a Brera ed in altri musei), questa Cappella (l’unica parte della villa a non aver mai subito le pesanti ristrutturazioni di cui fu oggetto il resto della costruzione) figura oggi come l’unica sua opera architettonica arrivata fino a noi. Negli ultimi anni della sua vita, figura pure essere stato uno degli architetti del Duomo di Milano.
La villa venne, all’epoca, denominata “La Gualtera”, a ricordo del nome del proprietario che l’aveva fatta edificare.
Costituita da un unico corpo centrale a pianta rettangolare, senza porticato, aveva un aspetto indubbiamente molto meno appariscente ed elaborato rispetto a quello che vediamo oggi, quando passiamo davanti alla villa di via Stilicone 36.
Non era proprio destino che Gualtiero da Bescapé potesse godere a lungo di questa sua nuova villa. Ci abitò, al massimo, due soli anni, essendo venuto a mancare già nel 1508! Da quella data, fino al 1547, si succedettero, per “la Gualtera”, vari passaggi di proprietà: dapprima, alla Confraternita della Santa Corona (a cui, essendo Gualtiero stato membro di tale associazione di opere di carità, aveva voluto lasciare la villa in donazione testamentaria), poi da questi venne venduta alla famiglia Rabia. Un atto del 1531, per la prima volta, cita la villa come “palatio”, e nello stesso periodo, sono documentati ampi lavori di ristrutturazione dei locali, poi descritti nell’atto di vendita del 1544, alla famiglia Cicogna. Si parla, in questa fase, di una particolare soluzione architettonica, con una massa muraria centrale fiancheggiata da due portici angolari simmetrici. Infine, nel 1547, i Cicogna cedettero la villa al Governatore spagnolo di Milano, l’italianissimo Ferrante I Gonzaga (figlio di Isabella d’Este).
Ndr. – Ferrante I Gonzaga, non solo era fratello di Federico, duca di Mantova, ma era pure sovrano della Contea di Guastalla, città che lui aveva acquistato (così si usava allora) nel 1539, dalla contessa Ludovica Torelli, per la modica cifra di 22.230 scudi d’oro. Era quindi a capo di un piccolo Stato praticamente indipendente, nei pressi di Mantova, dando appunto vita ad una dinastia autonoma di governanti.
Villa Gonzaga 1547 – 1591
Il Governatore, entrato in possesso del bene, nel 1551 diede a Domenico Giunti (o Giuntalochi o Giuntalodi) l’incarico del restauro della villa, architetto toscano che Ferrante aveva già conosciuto quando, nominato da Re Carlo V di Spagna, Viceré di Sicilia nel periodo dal 1535 al 1546, gli aveva commissionato dei lavori da fare sia al forte di Messina che in città, a Palermo.
A dispetto dei luoghi comuni che descrivono gli anni della dominazione spagnola come un periodo buio per Milano, Ferrante Gonzaga, governatore illuminato, trasformò la città in un principato. La sua parola d’ ordine era: “fare ornamento alla città et piazza”. In soli nove anni, favorì il fiorire di allestimenti teatrali, di giochi carnascialeschi e di varie iniziative editoriali. Si distinse, per realizzazioni prestigiose, soprattutto urbanistiche: commissionò l’ampliamento e il restauro del Palazzo Ducale (attuale Palazzo Reale), avviò la risistemazione dell’area monumentale del Duomo (che rimase po invariata sino a metà ‘800), dotò la città di un ampio circuito di mura bastionate (le famose mura spagnole), a scopo di difesa, controllo dei dazi e per evitare il diffondersi delle epidemie.
Il restauro della Gualtera affidato al Giunti, prevedeva l’ampliamento e la trasformazione della villa di campagna, in una lussuosa residenza di rappresentanza. Al corpo centrale preesistente, Giunti affiancò due corpi longitudinali verso il giardino sul retro, ottenendo una struttura a “U”. Sopraelevando l’intera struttura di un piano, fu sua l’idea di movimentare la semplicissima facciata con due ordini di logge a 10 colonne con balaustre ornate sopra il monumentale porticato a nove arcate. L’interno era riccamente decorato con affreschi che, a quanto pare, narravano le gesta della famiglia Gonzaga, e di cui oggi purtroppo sono visibili solo alcuni frammenti.
Il complesso si chiudeva sul retro, verso il giardino con una grande vasca vivaio per pesci rari, posizionata alla testa delle ali aggiunte, a formare una corte interna. Risalgono sempre a questo periodo, un ponte che attraversando la vasca nella sua parte centrale, permetteva di accedere ad un vasto giardino all’italiana. Da quel momento la villa cambiò nome, diventando così “la Gonzaga”.
Esautorato nel 1555 (per presunte accuse di malgoverno nel Milanese) e richiamato in Spagna da re Carlo V, da buon militare, dovette lasciare Milano, non senza rimpianti. I lavori di completamento della villa vennero, di conseguenza, sospesi. Ferrante non sarebbe mai più ritornato a Milano: due anni dopo la sua uscita di scena infatti, nel 1557, avrebbe trovato la morte a Bruxelles, in seguito alle ferite riportate per una caduta da cavallo, durante la Battaglia di San Quintino, combattuta in Piccardia, tra la Spagna e la Francia, per il possesso dei territori italiani. Morto quindi Ferrante I, Villa Gonzaga venne così lasciata in eredità a Cesare I, il suo primogenito. [Ndr. – Per inciso, Cesare I Gonzaga era sposato a Camilla, sorella di san Carlo Borromeo].
Quella dimora patrizia si rivelò, per Cesare, davvero un pessimo affare! Il padre, costretto ad andarsene da Milano in fretta e furia, aveva lasciato in sospeso il pagamento di fatture d’acconto relative a lavori in corso che chiaramente non aveva ancora saldato. Aveva di recente ingaggiato dei pittori (forse fiamminghi) per affrescare con dei motivi a paesaggio, le pareti laterali interne della Cappella gentilizia ed alcune sale del palazzo. Nel tentativo di onorare i numerosi “conti in sospeso” del padre, Cesare I, conte di Guastalla, finì quasi in rovina. Pertanto, comprensibilmente, pressato dalle spese, si disinteressò della manutenzione di Villa Gonzaga lasciandola purtroppo andare, per circa un quarantennio, in stato di totale abbandono.
Villa Simonetta 1592 – 1802
La villa tornò a “rivivere” quando, nel 1592, venne acquistata da Monsignor Alessandro Simonetta, già nunzio apostolico a Napoli, fra il 1570 e il 1572. Ormai anziano, il prelato si prodigò per farla diventare uno degli edifici più prestigiosi della Milano di epoca barocca. E’ proprio da questa famiglia che l’edificio assunse il nome definitivo di “Villa Simonetta“.
La famiglia aveva deciso di acquistare questa villa fuori città essenzialmente per allontanare da casa la figlia Clelia, soggetto molto chiacchierato essendo piuttosto vivace e problematico da gestire. Appena sposata, la giovane era rimasta vedova e abitando in casa con i genitori, i suoi atteggiamenti troppo libertini per i tempi, davano scandalo rovinando il buon nome della famiglia e esponendo lei ai giudizi non certo benevoli e lusinghieri delle malelingue del vicinato.
Erano tempi difficili, quelli. Sulla base dei dettami del Concilio di Trento, da qualche decennio l’arcivescovo Carlo Borromeo aveva avviato una pesante opera di moralizzazione dei costumi della società sia in seno alla Curia, che fra l’aristocrazia laica, incontrando naturalmente forti opposizioni. Sicuramente l’applicazione troppo rigida di certe disposizioni ottenne su soggetti “meno docili”, l’effetto contrario a quanto desiderato. Quest’opera di “drastica bonifica” non si estinse comunque con la sua morte nel 1584, ma proseguì dapprima con Gaspare Visconti ed infine con Federico Borromeo.
Nei salotti della “buona società”, l’argomento “Clelia Simonetta” era sempre il preferito sulla bocca di tutti. La giovane, saltando da un’alcova all’altra, non godeva certo della fama di donna ‘rispettabile’, ma la trasgressione ai canoni della rigida morale imposta dalla Chiesa, stuzzicava indubbiamente le fantasie. E poi, dopo tutto, era la figlia di un monsignore! I genitori quindi, come “extrema ratio”, sperando di evitare ulteriori devastanti scandali per il nome (già compromesso) della famiglia, decisero di allontanarla dalla casa di città, mandandola a vivere da sola in questa villa isolata “extra-moenia“, certi che la solitudine “monastica” di quel luogo, l’avrebbe sicuramente fatta riflettere sui suoi comportamenti troppo “liberi” e di conseguenza, rinsavire.
Ma il termine “solitudine” era una parola sconosciuta nel vocabolario di Clelia. Evidentemente suo padre troppo dedito agli affari di Chiesa, non aveva capito nulla di lei, pecora nera della famiglia! Bella, ricca, giovane, piacente, assolutamente disinibita, la fanciulla non aveva perso tempo a trovare consolazione e a rifarsi una vita. Infatti, trovatasi “sola” a gestire la servitù, in questa villa sperduta in campagna, Clelia, invece che contrirsi in pentimento, colse l’occasione per dar libero sfogo alle sue fantasie organizzando feste sfarzose e lussuriose, in cui era naturalmente lei a comandare i giochi. In barba a qualunque morale, aveva cominciato a darsi ai piaceri più sfrenati con gli amici e gli amici degli amici. Fra una padrona di casa sempre disponibile e il luogo elegante e signorile, i rampolli dell’alta società non disdegnavano frequentare quell’ambiente, per provare esperienze al di fuori dai classici schemi. Quello era il luogo ideale per dare libero sfogo ad opportunità irripetibili in città, essendo così isolato e protetto dagli occhi indiscreti delle malelingue bigotte sempre pronte a giudicare il prossimo e a sparlare di quei festini. Con una padrona di casa come lei, Villa Simonetta era diventata davvero una “Villa delle Delizie”, un autentico tempio del peccato!
Sarebbe stato ingenuo credere che l’eco di queste feste fuori città non fosse, in breve tempo, comunque, oggetto preferito di pettegolezzi, nei salotti buoni di Milano. Quando i giovani frequentatori della villa sperimentavano qualcosa d’imprevisto o d’inconsueto, beh, era ben difficile riuscissero a trattenersi dal raccontare “in segreto” all’amico (che non aveva potuto partecipare a quei festini) la sconvolgente esperienza vissuta. Da lì, la notizia faceva presto a diventare di dominio pubblico! Era proprio l’originalità a fare scalpore e a creare indubbio motivo di pettegolezzo: in particolare l’eccentricità della padrona di casa. Ad esempio, pare, avesse imposto agli invitati una sorta di rito di purificazione prima di poter iniziare la festa vera e propria: un bel bagno turco, seguito da abluzioni in una vasca d’acqua fredda (per rassodare e tonificare la pelle), prima di poter accedere alle varie sale, ed assaporare i piaceri proibiti. Piccole manie di Clelia (peraltro più che legittime) che erano naturalmente motivo di scandalo fra la gente comune perché all’epoca, non dimentichiamolo, lavarsi con l’acqua era addirittura proibito, stante la convinzione diffusa che fosse la fonte primaria di tante malattie, fra cui la peste.
Per approfondimenti su questo argomento, leggi in proposito l’articolo :
Acqua sì, acqua no, pro e contro nella Milano di ieri
Ad attendere gli ospiti era sempre lei, Clelia Simonetta in persona: un’eccentrica e bella padrona di casa, decisamente ninfomane con le sue continue manifestazioni di seduzione, di provocazione, di desiderio sessuale e con quella punta di sano amore per il sangue, che non guasta mai.
Quanto questi racconti fossero realtà o leggenda, non è dato sapere, comunque, a quanto pare, a Villa delle Delizie ci si dava alla pazza gioia e successero, per anni, “cose turche”!
Parlando di Villa Simonetta, le cronache dell’epoca riferiscono che un giorno, diversi giovani andati ad una delle tante feste organizzate dalla Nobildonna, non avrebbero più fatto ritorno a casa! Dopo ricerche infruttuose ovunque fatte dalle fidanzate e dai familiari degli interessati, Clelia venne formalmente accusata di aver fatto sparire nel nulla, ben undici baldi giovani, tra i più belli e prestanti dell’intera città. Ridda di supposizioni … le voci più insistenti l’accusavano di aver organizzato dei giochi erotici perversi talmente spinti, da portare alla morte i partecipanti. Altri propendevano per la tesi che Clelia si fosse divertita a far strangolare i propri amanti, dopo notti d’amore e di passione. C’era infine chi avanzava l’ipotesi che fossero stati assassinati dalla stessa Clelia durante i suoi riti esoterici. Le ricerche operate dalla polizia non ebbero comunque alcun esito e il caso rimase irrisolto. Non si riuscì mai a scoprire la verità. Mantide religiosa o sacerdotessa dell’occulto che fosse, anche di Clelia Simonetta, ad un certo punto, si persero le tracce. Con la sua scomparsa, per la villa cominciarono anni di lento declino.
Seguirono vari altri passaggi di mano, che, fra il XVII e il XIX secolo, portarono Villa Simonetta ad essere proprietà di diverse famiglie, fra cui i Castelbarco, i Clerici e gli Osculati.
Quell’eco davvero incredibile
Oltre a tutto il resto, questa villa aveva una caratteristica molto curiosa: un fenomeno di “eco”, per cui era nota addirittura in tutta Europa. Pare che da una finestra al secondo piano, si potesse udire un’eco, in grado di rimbalzare sulla parete della villa innumerevoli volte. Si diceva ad esempio, che la parola “amore” pronunciata da quella finestra, potesse essere ripetuta fino a 40 volte. Lo stesso Stendhal sosteneva nel 1816, che un colpo, partito accidentalmente dalla sua pistola, risuonasse addirittura 50 volte!
Da qui una curiosa storiella milanese:
Se qualcuno, fermandosi davanti alla villa, avesse detto:
«ma come se fa a avegh inscì tanta bella robba?» (come si fa ad avere tanta bella roba?)
l’eco avrebbe risposto :
«robba, robba, robba…» (ruba, ruba, ruba…)
In fisica e acustica l’eco è un fenomeno prodotto dalla riflessione di onde sonore contro un ostacolo, che vengono a loro volta nuovamente percepite dal ricevitore più o meno immutate e con un certo ritardo rispetto al suono diretto. Tale ritardo non dev’essere inferiore a 1/10 di secondo. Al di sotto di tale valore non si può più parlare di eco, ma di riverbero.
Si parla propriamente di eco quando le singole riflessioni dell’onda sonora sono percepite distintamente dall’ascoltatore.
Perché si formi l’eco è necessario che la distanza tra la sorgente sonora e l’ostacolo sia di almeno 17 metri. Questa misura è data da un calcolo che tiene conto del fatto che il suono si propaga nell’aria a 20 °C a circa 340 m/s. Per distinguere con chiarezza due suoni (avendo quindi un’eco) è necessario che essi distino tra loro almeno 1/10 di secondo. Tale intervallo di propagazione in aria corrisponde alla distanza di 34 metri, cioè 17 metri dalla fonte sonora all’ostacolo e 17 per il percorso inverso.
Tanti vollero intendere in quelle “eco”, le voci straziate d’aiuto degli undici giovani misteriosamente scomparsi a Villa Simonetta.
La decadenza 1802 -1959
Tornata la dominazione austriaca dopo il periodo napoleonico, Villa Simonetta fu teatro di scorribande e di festini organizzati dalla Compagnia della Téppa, un gruppo di giovani nobili sfaccendati, dediti unicamente alla goliardia e al vizio più sfrenato.
Fu proprio in questo periodo che Villa Simonetta venne chiamata “Villa dei balabiott“, termine tipicamente milanese, per indicare tutti coloro che si dedicavano al vizio. Infatti tale “Baron Bontemp”, soprannome creato ad arte per nascondere la propria identità, che era il capo della celebre “Compagnia della Teppa”, ne aveva fatto il principale teatro dei banchetti e delle gozzoviglie della banda , in quanto luogo isolato, lontano da occhi indiscreti.
Ndr. – Un “Balabiott” è letteralmente un abitante di Ballabio (LC), ma ha assunto, nel corso del tempo, un diverso significato. In milanese “bala” significa “balla” e “biot” significa invece “nudo”, traendo le somme il “balabiott” in milanese è “qualcuno che balla nudo“. Significa pure uno spiantato, “uno che non ha le rotelle a posto”, cioè “essere matti”.
Una serata “Baron Bontemp” e compagni esagerarono oltre misura mettendo così definitivamente fine ai loro piaceri. Qui, a Villa Simonetta, quelli della “téppa” avevano invitato molte fanciulle di buona famiglia, in cerca di un buon partito: peccato che, al posto degli scapoli ricchi e di classe che avevano promesso, i “balabiott” avevano fatto trovare nani, gobbi e deformi, reclutati tra le zone più malfamate della città, convincendoli che le ragazze fossero “abili professioniste”. Ovviamente la cosa non finì molto bene: a sediate e coltellate!
Per scoprire alcune sadiche imprese della Compagnia della Téppa, si raccomanda la lettura dell’articolo cliccando sul seguente link “la Compagnia della Téppa”
Destinazioni diverse
Finito con una nutrita retata di arresti il periodo dei giochi goliardici all’interno della villa, allo scoppio dell’epidemia di colera del 1836, questo “luogo di delizia”, finì col diventare “luogo di sofferenza”, essendo utilizzato come ospedale riservato ai “colerosi” proprio per la sua felice posizione, ai margini della città.
Passata l’epidemia di colera, la struttura cambiò destinazione d’uso: venne adibita dapprima a fabbrica di candele, poi ad officina meccanica, quindi a caserma, a casa operaia, a falegnameria e infine, persino ad osteria/trattoria. La decadenza arrivò al culmine verso fine 800, con la costruzione di una linea ferroviaria nelle immediate vicinanze del giardino (la linea che, dalla vecchia stazione Centrale – quella di Piazza Fiume, attuale Piazza della Repubblica – conduceva verso il nodo di Certosa). Nel corso di quegli anni, il grande giardino sul retro, venne in gran parte distrutto per consentire la realizzazione del grande scalo merci Farini, per la ferrovia.
I bombardamenti dell’ultima guerra
Nel 1943, il pesante bombardamento che l’edificio subì durante la Seconda Guerra Mondiale, fu davvero devastante. Il palazzo sarebbe stato probabilmente risparmiato, se non si fosse trovato così vicino allo scalo ferroviario, vero obiettivo delle incursioni aeree. Gli esiti dei bombardamenti sulla facciata e sul retro furono tali da rendere l’edificio irriconoscibile e da indurre qualcuno a suggerirne addirittura la demolizione totale. Naturalmente con le distruzioni, andò perduto pure quell’incredibile fenomeno dell’eco, per cui la villa era nota in tutta Europa.
La ripresa 1959 – oggi
Per fortuna, l’idea della demolizione completa del bene, suggerita da chi aveva forti interessi speculativi, non ebbe seguito. Probabilmente giocò a favore di questa decisione, la memoria dei gravissimi danni al patrimonio artistico operati dalla speculazione edilizia pochi anni prima, quando, in pieno centro città, si decise di demolire l’intero quartiere Bottonuto.
Rilevato il bene dal Comune nel 1959, si procedette per prima cosa alla bonifica del terreno circostante e si stanziarono subito fondi per un accurato restauro. Il lavoro naturalmente continuò negli anni Sessanta, portando alla ricostruzione degli ambienti, adibiti oggi a scuola musicale. Dal 1973 infatti, completati i lavori, il palazzo diventò una delle sedi della Scuola Civica di Musica Claudio Abbado.
Questa villa patrizia rinascimentale, riportata (per quanto possibile) agli antichi splendori, presenta oggi, della sua struttura originaria (d’inizio Cinquecento), solo un porticato a cinque arcate sul lato est, verso la ferrovia, con capitelli che ricordano l’architettura di Bramante. Domenico Giunti, come già detto, aveva modificato questo assetto, creando un massiccio portico a nove arcate, con pilastri a semicolonne toscane addossate, sopra il quale si aprivano due ordini di logge con balaustra, corrispondenti ai due piani della villa.
NOTA sulle colonne toscane
Dal basso verso l’alto, qualsiasi colonna è costituita da una base, un albero e un capitello. La colonna toscana ha una base molto semplice su cui si imposta un albero molto semplice e non scanalato. L’asta è sottile, con proporzioni simili a una colonna ionica greca. Nella parte superiore dell’albero c’è un capitello molto semplice, rotondo. La colonna toscana non ha intagli o altri ornamenti.
Le logge, distrutte dai bombardamenti, sono state completamente ricostruite: quella al piano nobile, si presenta di ordine toscano, mentre al secondo piano, le colonne hanno capitelli corinzi. Il portico ha una volta a botte che, in origine, era completamente affrescata. La parte che si apre verso il giardino è invece in uno stile più semplice e meno decorato poiché include solo due piccoli loggiati sulle ali minori, in posizione simmetrica, all’ultimo piano.
La bellissima decorazione all’interno, che indubbiamente caratterizzava la villa, è andata quasi del tutto perduta, ma, da quelle poche tracce rimaste, si può capire che i soggetti rappresentati erano essenzialmente le imprese della famiglia Gonzaga, come ci testimonia anche lo storico e biografo Paolo Giovio (1483 – 1552) che, essendo coevo, ebbe personalmente modo di ammirare quelle pitture. Le uniche tracce rimaste sono alcuni tralci di vite, sulla volta dello scalone.
Eventi e utilizzo attuale
La villa oggi, riportata (per quanto possibile) agli antichi splendori, ospita la sezione di Musica Classica, Musica Antica e l’Istituto di Ricerca Musicale Civici Cori che fanno parte della Scuola di Musica Claudio Abbado. L’istituto, che nacque nel 1862, con lo scopo di formare coristi e strumentisti per il Teatro alla Scala, si occupa ancora oggi di alta formazione in collaborazione con il Comune di Milano e vanta la partecipazione dei suoi studenti a numerosi concorsi nazionali ed internazionali. Ogni anno la scuola organizza una “Open Week” durante la quale si tengono lezioni in aula aperte a tutti, e diverse rassegne e incontri musicali che trattano i vari generi musicali praticati all’istituto.
La Scuola è comodamente raggiungibile con i mezzi pubblici, ma l’edificio non risulta attualmente aperto alle visite, salvo in occasione di rassegne musicali e di concerti all’aperto, che si tengono nel periodo estivo.
UanTuUan – Proposta originalissima
Dal 5 al 9 luglio 2021, dopo un anno di sospensione dei concerti dovuti ai noti problemi di pandemia COVID-19, sono ritornate a Villa Simonetta, le Notti Trasfigurate, un breve ciclo di concerti estivi eseguiti dal vivo dagli studenti della Civica Scuola di Musica Claudio Abbado. Si è trattato di solo sei appuntamenti (compresa l’inaugurazione), ma contraddistinti da qualità e varietà delle occasioni d’ascolto. In questo contesto, si è voluto introdurre per la prima volta, lo UanTuUan, un approccio totalmente originale ed esclusivo alla musica e allo spazio che la circonda, all’interno della piccola e preziosa Cappella gentilizia di Villa Simonetta.
UanTuUan è dunque un esperimento di ascolto immersivo, di esecuzione esclusiva, di approccio intimissimo alla musica e all’architettura che l’accoglie. UanTuUan, (“One to One“) cioè uno a uno, significa un esecutore per un solo ascoltatore alla volta, nel magico scenario della piccolissima e magnificamente affrescata Cappella gentilizia cinquecentesca di Villa Simonetta: per ogni ascoltatore che si prenota, 15 minuti di ascolto di musiche suonate dagli studenti della Civica Scuola di Musica Claudio Abbado che si alternano, uno alla volta, muovendosi tra strumenti e generi differenti, dagli archi ai legni, dalla musica classica a quella contemporanea e a quella antica. Incredibile occasione per vivere un’esperienza unica, sperimentando un connubio sorprendente tra musica, arte, pittura, spazio risonante e spiritualità.
Ricorrendo quest’anno, la celebrazione del 160° anniversario della nascita della Civica Scuola di Musica Claudio Abbado (1862), la Cappella gentilizia di Villa Simonetta, dal 10 al 28 maggio 2022, ha ospitato “Nom de plume Messiaen – Un musicista incantato dalle foreste“, una esposizione dell’artista Manuela Bertoli nata da una speciale sinergia con la musica del compositore francese Oliveir Messiaen (1908 – 1992), che ha ispirato l’insieme delle opere esposte (giochi di piume), dedicate agli uccelli. Visto il successo dell’esperienza UanTuUan dell’anno scorso, pure quest’anno, si sono potute ascoltare le musiche del compositore francese nell’intima cornice della piccola Cappella.
Classe 1941. Laureato in ingegneria elettronica: triestino di nascita, milanese di adozione. L’interesse per la storia, l’arte e la natura, ha sempre destato la mia curiosità e passione, fin da giovane. Ora che non lavoro più, e posso dedicare maggior tempo ai miei hobbies, mi diletto a fare ricerche storiche sulla città, sui suoi costumi, sui suoi monumenti, su come viveva la gente, sugli aneddoti poco noti, sui personaggi che, in vario modo, hanno contribuito a rendere Milano, la città che è oggi, nota in tutto il mondo.
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